A)Qualcuno deve ancora spiegare se e come la Cei o chi per essa si ponga di fronte ai parlamentari col mitra spianato, intimando di votare come vuole lei.
In uno stato liberale (e persino l'Italia, dal punto di vista giurisprudenziale, lo è) non sono reato gli hate speech, non è reato il saluto fascista di Di Canio, B) tantomeno è illegittimo dire "i cattolici votino contro i dico". Cinquecento anni fa c'era il mitra spianato, oggi non c'è più: è questo che fa tutta la differenza.
C) I nonsense del tipo "il parlamentare che vota x perché lo dice la chiesa anche se in cuor suo voterebbe y" sono tali, in quanto delle due l'una:
- il parlamentare comunque sceglie di votare x, e quindi al massimo ne risponda lui;
D) - postuliamo che la parola della Cei annulli il libero arbitrio, e non si capisce perché la parola della Cei sì (quindi non è ammissibile) e quella di chiunque altro no (e quindi è ammissibile).
Vedrò di essere esauriente.
La norma, cioè la regola di comportamento, è costuitita da un precetto che descrive un data condotta e da una sanzione che fissa le conseguenze sfavorevoli ricollegate al compimento della condotta o alla sua omissione (secondo che la norma sia un divieto o un comando). La sanzione, saldandosi al precetto, lo rende cogente. Il soggetto può trasgredire la norma (libero arbitrio) ma si espone alla sanzione. Il più delle volte il soggetto non la trasgredirà (non per intima convinzione ma) per non subirne le conseguenze sfavorevoli. Se la sanzione non è un mitra, è senz'altro una spada ed il comportamento conforme ad una norma assume il carattere della condotta tendenzialmente necessitata e sicuramente non arbitraria.
Forse non tutti sanno - ma son convinto che tu sì - che la Chiesa, e quindi la CEI che ne è organo, per così dire, "esecutivo", dispone, nei confronti dei cattolici, di un ordinamento normativo; tant'è che si parla di ordinamento religioso per distinguere questo complesso normativo dall'ordinamento giuridico, che è quello proprio dello Stato.
Questi ordinamenti, pur rimanendo distinti, possono coesistere nello stesso ambito territoriale in un dato momento storico. Non solo, le norme dei vari ordinamenti possono avere contenuto confliggente. Lo Stato risolve questi conflitti e afferma la propria sovranità, rivendicando il primato del proprio ordinamento. A tale risultato si giunge rilevando che solo la norma statale dispone della sanzione "giuridica", della capacità cioè di realizzare coattivamente, ossia con la forza pubblica, i propri precetti.
La sanzione religiosa, invece, si risolve nel cosiddetto foro interno dell'individuo, non porta mai alla realizzazione coattiva del precetto, se così fosse il nostro sarebbe un ordinamento confessionale. In buona sostanza, le conseguenze (sanzioni) della trasgressione sono "ultraterrene" (dannazione) o comunque morali; ma anche sociali (emarginazione) con riguardo alla collettività di riferimento (ad es. singola parrocchia). Ciò nondimeno, per chi crede, la sussistenza delle norma religiosa condiziona il comportamento dell'individuo, anzi, per un credente può essere talvolta più cogente di una norma statale: si pensi all'obiezione di coscienza. Del resto, se l'uomo non vivesse di questi conflitti, Sofocle non avrebbe scritto l'Antigone. Tuttavia, questa netta differenziazione tra ordinamento statale (come l'unico giuridico) e ordinamento religioso non è sempre stata storicamente avvertita: basti pensare agli Stati teocratici. Nella stessa Italia, agli inizi del secolo scorso, e proprio prendendo spunto dalla contrapposizione tra ordinamento statale e quello della Chiesa, era stata elaborata la teoria - ormai superata - della pluralità degli ordinamenti
giuridici (con ciò ammettendosi la piena giuridicità anche dell'ordinamento ecclesiastico), da qui la necessità dei Patti Lateranensi e poi di un
concordato per regolare i rispettivi ambiti.
Ancora di più. L'ordinamento religioso è costituito da precetti di varia origine: diritto divino (volontà divina enunciata nelle Sacre Scritture), diritto naturale (regole insite nell'ordine naturale delle cose) e l'interpretazione di dette norme secondo il Magistero, che tendenzialmente sfocia nei canoni (diritto canonico). Quest'ultima è la componente, per così dire, umana - perciò fallibile - dell'ordinamento religioso e, a giudizio dei canonisti, è tacciabile di "illegittimità"(come il nostro diritto lo è di incostituzionalità) quante volte si ponga in contrasto con il diritto divino e con quello naturale. Ecco perché, ad esempio, ritengo che battezzare neonati (norma canonica), cioè incapaci naturali, sia illegittimo proprio sul versante del diritto naturale, data la totale irrilevanza che il diritto canonico assegna alla scelta del battezzato.
Non deve, quindi, assolutamente sfuggire che le indicazioni del Magistero
possono deviare rispetto all'insegnamento del Cristo e al diritto naturale, che è oggettivo e non è il risultato esclusivo della interpretazione ecclesiastica, tanto vero che esso, il diritto naturale, è più volte richiamato da diversi filosofi. Il diritto naturale è, pertanto, "laico".
Venendo adesso alla nota ufficiale della CEI, organo della Chiesa, in essa si enunciano
norme di comportamento: "non può", "è tenuto" (modi verbali tutti all'indicativo, senza lasciare spazio alla libera scelta) e si è anche affermato, più volte, che il parlamentare "deve" votare contro. Ovvio che nessuno possa obbligare coattivamente i parlamentari al comportamento conforme ma la norma religiosa agisce ugualmente sulla loro coscienza, orientadola verso una dato fine: votare contro. Tanto più la norma è cogente, quanto maggiore è l'autorità del soggetto da cui proviene, in questo caso i massimi esponenti del Magistero. D'altro canto,
va tenuto presente che i soggetti, cui tali indicazioni tassative sono indirizzate, sono parlamentari, ossia rappresentanti del Potere legislativo italiano.
La nostra Costituzione ha preso in considerazione una simile ipotesi, stabilendo, all'art. 7, che Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Quando la Chiesa
pretende che il parlamentare voti in un certo modo, viola l'art. 7 della Costituzione. Il concordato, infatti, conferisce rilevanza "giuridica" alle disposizioni canoniche essenzialmente in materia matrimoniale (cosiddetto matrimonio concordatario).
Pretese, con enunciazione di norme di comportamento, di altro tipo e in altri ambiti sono pertanto ingerenze indebite.
Del resto, la nostra Costituzione, se nel disciplinare l'esercizio del voto del parlamentare l'ha liberato dal vincolo di mandato, a maggior ragione ne pretende l'incondizionabilità da parte di poteri extrastatuali, qual è quello ecclesiastico; né più né meno che se tali indicazioni provenissero dal Presidente dell'Iran.
Ciò detto, ecco spiegato:
A) come la Cei possa intimare di votare come vuole lei: ricorrendo al potere (o se preferisci: mitra, in questo caso "la" mitra) della norma religiosa in forza dell'autorità che le è propria. Con cogenza ovviamente limitata a chi si professa di religione cattolica;
B) perché sia illegittimo dire "i cattolici votino contro i DICO": la Chiesa non può pretendere, come invece fa, che il parlamentare, rappresentante del potere legislativo,
sia tenuto a votare conformemente ai dettami del Magistero. Il potere legislativo è potere sovrano:
superiorem non recognoscet. Pretendere - dettando norme di comportamento - di condizionarlo vale pretentere di condizionare la sovranità della Repubblica, con violazione, nel caso di specie, dell'art. 7 della Costituzione;
C) perché il nonsense è apparente: è impossibile investigare l'interno volere delle persone, però possiamo dire sicuramente che:
i parlamentari cattolici versano in una situazione di potenziale conflitto tra una norma che consente loro di votare liberamente, la Costituzione, e un'altra che impone di votare in un certo modo in forza dell'autorità del soggetto da cui è promanata, le indicazioni della Cei e dei vescovi. Non si spiegherebbe altrimenti il clima di trepida aspettazione che ha preceduto il pronunciamento ufficiale della CEI. I cattolici attendevano che si dicesse loro
come comportarsi.
Bell'esempio di delegazione della propria coscienza!
Ma è vero anche che molti, dalla Bindi a Di Pietro, hanno biasimato il tono "perentorio" adottato dalla Chiesa e non nascondendo affatto di essere stati messi in una situazione di conflitto.
Chi vivesse un simile conflitto, non voti contro ma, quantomeno, si astenga: questa, che chi è in conflitto si astiene, è un elementare regola logico-giuridica e la logica, in quanto insita nell'ordine della natura umana, è
regola di diritto naturale.
Il votare contro, a queste condizioni, è illegittimo pure su questo versante "intrinseco".
D) come possa essere annullato il libero arbitrio: la parola della Cei è "normativa" e inderogabile e rende, per ciò stesso, il comportamento del credente necessitato (
deve votare contro); la parola del
quiddam de populo, no.
Spero di aver risposto in maniera soddisfacente.
Certo mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi un illustre ex Presidente della Corte Costituzionale di fronte a questo
debet dei vescovi. All'epoca del meno "invasivo"
non possumus la pensava così:
http://www.ildialogo...ato09022007.htm