Vai al contenuto


Foto
* * * * * 2 Voti

Genere Noir


  • Please log in to reply
329 replies to this topic

#51 Jules

    Pietra MIliare

  • Redattore OndaCinema
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 23095 Messaggi:

Inviato 02 luglio 2007 - 19:47


Tutto nasce per rispondere al carmelo che criminalizzava in toto il cinema mainstream come la rovina del cinema (controsenso autentico se si pensa che almeno metà del cinema mondiale è mainstream)...e il primo nome che m'è venuto in mente era il Lang americano, esempio di cinema di classe che, abolendo per partito preso dall'arte cinematografica l'industria, non avremmo potuto avere..

questo e'il primo intervento che cerco di quotare in qualche parte.soprattutto su Lang devo darti ragione.
ma paradossalmente il cinema implicato nelle convulsioni industriali ammanta di nero anche i miei film preferiti:sono siamo vittime del capitalismo,inconsciamente .
possiamo demolire il capitalismo attraverso le "impalcature semantiche" della rappresentazione?rappresentiamo il concreto il mentale del capitalismo in ogni film della catena industriale.
solo attraverso la figura dello spettatore critico si puo'avviere un discorso di decostruzione dei "segni" del capitale rappresentato .il miracolo spetta pero'al regista che attraverso filtri futuristi(spingere la velocita'oltre alla percezione sensoriale fino a trasformare la pellicola in un tutto espanso di niente)renda il cinema un'arte automatica,oltre la protesi e la volgarita' della digitalizzazione.



Allora, qui le cose sono due:

1) Sei un fake, e allora cominci a tirare fuori la stoffa del vero disturbatore...in questo intervento c'è tutto...ideologia sterile, ottusità nelle idee, sintassi marziana...

2) Se sei di carne ed ossa mi preoccupo: se questi pregiudizi dovessero mai prendere piede il cinema non sopravvivrebbe un solo giorno..
  • 0

#52 Guest_carmelo bene_*

  • Guests

Inviato 02 luglio 2007 - 20:05



Tutto nasce per rispondere al carmelo che criminalizzava in toto il cinema mainstream come la rovina del cinema (controsenso autentico se si pensa che almeno metà del cinema mondiale è mainstream)...e il primo nome che m'è venuto in mente era il Lang americano, esempio di cinema di classe che, abolendo per partito preso dall'arte cinematografica l'industria, non avremmo potuto avere..

questo e'il primo intervento che cerco di quotare in qualche parte.soprattutto su Lang devo darti ragione.
ma paradossalmente il cinema implicato nelle convulsioni industriali ammanta di nero anche i miei film preferiti:sono siamo vittime del capitalismo,inconsciamente .
possiamo demolire il capitalismo attraverso le "impalcature semantiche" della rappresentazione?rappresentiamo il concreto il mentale del capitalismo in ogni film della catena industriale.
solo attraverso la figura dello spettatore critico si puo'avviere un discorso di decostruzione dei "segni" del capitale rappresentato .il miracolo spetta pero'al regista che attraverso filtri futuristi(spingere la velocita'oltre alla percezione sensoriale fino a trasformare la pellicola in un tutto espanso di niente)renda il cinema un'arte automatica,oltre la protesi e la volgarita' della digitalizzazione.



Allora, qui le cose sono due:

1) Sei un fake, e allora cominci a tirare fuori la stoffa del vero disturbatore...in questo intervento c'è tutto...ideologia sterile, ottusità nelle idee, sintassi marziana...

2) Se sei di carne ed ossa mi preoccupo: se questi pregiudizi dovessero mai prendere piede il cinema non sopravvivrebbe un solo giorno..


3)non hai capito nulla di cio'che dico.
  • 0

#53 Jules

    Pietra MIliare

  • Redattore OndaCinema
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 23095 Messaggi:

Inviato 02 luglio 2007 - 20:06

Ma eri tu che replicavi al mio intervento!

Che mito!
  • 0

#54 Guest_carmelo bene_*

  • Guests

Inviato 02 luglio 2007 - 20:08

Ma eri tu che replicavi al mio intervento!

Che mito!

appunto:
ho replicato al tuo intervento.e tu non hai capito niente di cio'che ho detto.

  • 0

#55 Jules

    Pietra MIliare

  • Redattore OndaCinema
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 23095 Messaggi:

Inviato 02 luglio 2007 - 20:10

Massimo rispetto.
  • 0

#56 verdoux

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 2838 Messaggi:

Inviato 07 luglio 2007 - 09:59

rivisto dopo tanto tempo, su fuori orario, casco d'oro, di Jacques Becker, un capolavoro; il noir è francese, francese, francese, per il modo con cui affronta senza giudizio e pregiudizio il microcosmo della malavita; è un diverso approccio dal poliziesco americano;

ps:

viale del tranmonto è un film su Hollywood che distrugge i suoi miti, sulla fine del muto, su Gloria Swanson ed Eric von Stroheim che si ritrovano 20 anni dopo queen kelly, il film che ne ha stroncato le rispettive carriere;

la morte corre sul fiume è un film che attraversa vari generi e non è classificabile come noir;
  • 0

#57 dick laurent

    ...

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 13337 Messaggi:

Inviato 07 luglio 2007 - 11:22

il noir è francese, francese, francese


e quale legge lo stabilirebbe? Quali sarebbero i paletti del genere per cui film come la fiamma del peccato, chinatown, il grande caldo o la signora di shangai non sarebbero più noir?
  • 0

dai manichei che ti urlano o con noi o traditore libera nos domine


#58 Vietnamita

    pivello

  • Members
  • Stelletta
  • 5 Messaggi:

Inviato 07 luglio 2007 - 11:29

non sono un esperto di noir, quindi non so se possa definirsi noir, ma, senza considerarlo un capolavoro, a me è piaciuto molto l'ultimo di salvadores "que vadis baby"
  • 0

#59 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 07 aprile 2008 - 15:11

Legittima difesa (Quai des Orfèvres 1947) di Henri-Georges Clouzot, con Louis Jouvet, Bernard Blier, Suzy Delair

Immagine inserita

Morbosissimo noir tratto dal romanzo Légitime defénse di S.A. Steeman, Quai des Orfèvres è il ritorno alla regia di Henri-Georges Clouzot dopo il fraintesissimo Il corvo (1943), assurdamente accusato di collaborazionismo dalla sinistra dell'epoca per aver fornito un'immagine supinamente negativa della Francia (un po' come i rimproveri di disfattismo piovuti addosso, ma da destra stavolta, ai film del Neorealismo italiano). Come al solito Clouzot interpreta il genere in chiave sottilmente sociologica, sfruttando le atmosfere torbide e ambigue del noir per lanciare strali infuocati al perbenismo imperante. Nulla e nessuno è risparmiato dal furioso livore di questo ritratto in nero: la raccapricciante prepotenza dell'alta borghesia, l'opportunismo delatorio del ceto medio, l'arrivismo delle classi più umili, il colonialismo canagliesco della patria tutta. Un impressionante vuoto morale vissuto nella più totale indifferenza. Donde la sordida immagine urbana, popolata da figure anonime, a testa bassa, immerse nell'ombra.

Immagine inserita

In questo grigio inferno quotidiano, la seducente cantante di music-hall Jenny (Suzy Delair) cerca di sfondare nel mondo del cinema avvalendosi della concupiscenza del laido ma influente Brignon (Carles Dullin). Il possessivo marito Maurice (Bernard Blier) non è d'accordo e, in preda a un tremendo raptus di gelosia, si precipita a casa di Brignon armato di pistola. Ma una volta arrivato qui trova il ripugnante Brignon accasciato al suolo con la testa fracassata. Chi lo ha ucciso? Per quale motivo? Si scatenano le indagini dell'ispettore aggiunto Antoine (Louis Jouvet), squallido tutore dell'ordine animato da un infallibile esprit de géométrie.

Immagine inserita

Affidando alle luci di Armand Thirard il compito di creare un clima figurativo dominato da contrasti e chiaroscuri, Clouzot riserva tuttavia immagini di sfacciata luminosità per esaltare il provocante erotismo di Jenny Lamour e l'accecante desiderio coltivato per lei dalla migliore amica del marito, la bionda fotografa Dora (Simone Renant). Splendida soluzione visiva per comunicare obliquamente una tensione erotica altrimenti inconfessabile.

Immagine inserita

Ma il profilo psicologico più sofferto e toccante è quello dedicato a Maurice Martineau, marito completamente dedito al culto della sua Jenny, divorato dalla gelosia e vittima di un retaggio mentale imprigionante, quello della normalità. Il male si disegna sul suo volto bianchiccio come ombra inesorabile, la consapevolezza di essere schiavo di convenzioni alienanti non gli è concessa: sente l'ingiustizia franargli addosso come un evento naturale. Solo, sepolto sotto un senso di colpa che si mescola micidialmente alla fatalità, vede una sola via d'uscita all'infelicità: il vetro dell'orologio in frantumi, il suo polso, le vene...

Immagine inserita

Un noir meraviglioso, molto più malato del successivo I diabolici (1955), molto più malvagio del precedente Il corvo, nonostante il finale codardamente consolatorio.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#60 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 07 aprile 2008 - 15:14

I gangsters (The Killers, 1946) di Robert Siodmak, con Burt Lancaster, Edmond O'Brien, Ava Gardner

"'Ho commesso un errore una volta': sono le ultime parole che ha detto a Nick. Che significa: 'Ho commesso un errore una volta?".
Con questa frase inizia l'indagine di Jim Reardon (Edmond O'Brien), agente delle assicurazioni inviato a Brentwood per far luce sulla morte di Ole Anderson detto "Lo Svedese" (Burt Lancaster). Freddato da due sicari arrivati nel piccolo paese del New Jersey apposta per lui, Lo Svedese ha lasciato come beneficiaria della sua polizza una donna semisconosciuta di Atlantic City. Perché proprio lei? Perché Anderson è stato assassinato?

Immagine inserita

Due uomini in macchina, la strada buia e deserta investita dai fari, l'insegna BRENTWOOD, NEW JERSEY, DRIVE CAREFULLY. Poi la stazione di servizio e lì davanti una tavola calda illuminata: i due gangster si avvicinano lentamente, il commento musicale di Miklos Rosza, tra impennate drammatiche e improvvise smorzate, crea una tensione ininterrotta. Uno degli incipit più belli e laconici della storia del genere, quello di The Killers, strepitoso noir diretto dal regista di origine tedesca Robert Siodmak, già autore del magnifico La scala a chiocciola (1945).

Immagine inserita

Portando sullo schermo l'omonimo racconto di Ernest Hemingway (l'adattamento è opera di Anthony Veiller, Richard Brooks e John Huston), Siodmak adotta un'impronta stilistica debitrice all'Orson Welles di Citizen Kane: non soltanto la frase enigmatica pronunciata in punto di morte e tanti flashback quanti personaggi interrogati, ma anche la tendenza a privilegiare i piani sequenza, le illuminazioni marcate e le composizioni in profondità di campo.

Immagine inserita

Un universo di angoscia attanagliante, in cui la passione assoluta provata dallo Svedese per la fatale Kitty Collins (Ava Gardner) si colora di argentee sfumature masochistiche, esprimendo chiaramente il desiderio latente dell'uomo di essere punito, mortificato, abbattuto. Ex pugile costretto a ritirarsi per una brutta frattura alla mano destra, Anderson (Lancaster al suo debutto cinematografico) è difatti individuo votato alla voluttà proibita dell'autolesionismo, come dimostra il suo disinteresse nei confronti dell'amore sincero di Lilly (Virginia Christine).

Immagine inserita

Innumerevoli i passaggi memorabili di questo noir luminosamente masochista, dal già citato incipit ai dialoghi in interni girati con magistrali long take, passando per il finale "espressionisticamente" girato su uno scalone. Ma il vero e proprio morceau de bravure, classicamente collocato poco dopo l'inizio della seconda parte del film (luogo canonico dei pezzi di bravura), è il piano sequenza della rapina: un'inquadratura di 2' in cui una sontuosa gru accompagna il blitz in pieno giorno (arrivo, colpo e fuga) dei quattro gangster nell'ufficio delle paghe di una fabbrica di cappelli. Letteralmente indimenticabile.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#61 signora di una certa età

    old signorona

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 19655 Messaggi:

Inviato 08 aprile 2008 - 08:47

questo me lo passate?

Immagine inserita

sicuramente atipico rispetto ai canoni più classici del genere.
è parecchio che non lo rivedo (purtroppo).
secondo me, lo spirito noir c'è tutto.
  • 0

In realtà secondo me John Lurie non aveva tante cose da dire... ma molto belle


#62 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 18 aprile 2008 - 13:02

Il fascino del delitto (Série noire, 1959) di Alain Corneau, con Patrick Dewaere, Myriam Boyer, Marie Trintignant, Bernard Blier, Andreas Katsulas

Immagine inserita

Venditore porta a porta di prodotti domestici, Frank Poupart (Dewaere) vive di espedienti e piccole scorrettezze, fregando indistintamente datore di lavoro, il laido Staplin (Blier), e clienti allocchi, il suonato Tikides (Katsulas). Durante uno dei suoi giri nella periferia parigina, Poupart si imbatte nella casa di una vecchia taccagna che sfrutta la fragilità mentale della nipote Maria (Trintignant), facendola andare a letto con chiunque possa offrirle qualcosa di vantaggioso. Ma, anziché approfittarsi della situazione, Poupart offre il suo aiuto alla giovane disorientata, che qualche giorno dopo si presenta a casa sua proponendogli un colpo: sgraffignare tutti i risparmi della vecchia e fuggire insieme.

Immagine inserita

Tratto dal romanzo di Jim Thompson A Hell of a Woman comparso nella Série noire (Éditions Gallimard) col titolo Des cliques et des cloaques, Il fascino del delitto è uno dei noir più maledettamente belli e grotteschi che abbia mai visto. Corneau, forte dell'esperienza micidiale di Police Python 357, dirige un film semplicemente perfetto, indovinando giusta distanza dagli attori, tempi drammatici e commistione di toni sarcastici, psicologici e violenti. Ne esce un noir fenomenale, lineare come la traiettoria di un proiettile, vertiginoso come una giostra impazzita e mercuriale come il suo protagonista: l'inarrivabile Patrick Dewaere.

Immagine inserita

Impulsivo, nevrotico, imprevedibile, Frank Poupart riceve dall'interpretazione di Dewaere sfumature indicibili, continue vibrazioni caratteriali che lo rendono qualcosa di irripetibile. Per tutto il film sembra fuggire intimidito da nemici invisibili, ma quando è il momento di affrontare i reali avversari le sue reazioni si fanno così lucide e sornione da sfociare nel sarcasmo e nella sfacciataggine autoaccusatoria. La classica figura dell'antieroe thompsoniano apparentemente bistrattato ma segretamente manipolatorio (si veda Colpo di spugna) si carica qui di un'inquietudine e di una vena di follia che entrano in risonanza con l'ambientazione alienante del film, letteralmente fatta di non-luoghi (aree urbane in costruzione, villette fatiscenti, misere topaie, squallidi uffici, guardiole, strade deserte). Proiezione urbanistica della degradazione dilagante: il noir è morale.

Immagine inserita

E' forse il "neonoir" perfetto: formalmente smorzato ma non sciatto (abbondano le inquadrature lunghe e le composizioni che mettono in relazione prossemica personaggio e spazio), narrativamente elementare ma non semplicistico (i comportamenti dei personaggi sono tutti di una doppiezza angosciosa), psicologicamente sottile ma non cervellotico (mai vista al cinema una relazione così squisitamente dostoevskiana come quella che si crea tra Poupart e il suo datore di lavoro, il fetidissimo Staplin a cui Bernard Blier conferisce tonalità placidamente ripugnanti). Il tutto attraversato da una corrente di umorismo nevrotico semplicemente irresistibile: Poupart si muove come una marionetta festante nel cuore di tenebra della tragedia, dispensando gesti e parole di impensabile tenerezza nella ferocia dell'omicidio.

Immagine inserita

Su tutto una colonna sonora prevalentemente diegetica, proveniente da onnipresenti apparecchi radiofonici che diffondono on air un controcanto ironico e surreale alla spirale distruttiva innescata da Poupart. E, se non bastasse, la solita dirompenza visiva (tratto distintivo dei noir di Corneau) nella rappresentazione iperrealistica della violenza. Un valzer ghignante sull'orlo dell'inferno quotidiano che entra di prepotenza tra i miei film preferiti in assoluto. Ah dimenticavo, è proprio a Série noire che Olivier Marchal ha detto di essersi ispirato per L'ultima missione (MR 73). Voto: 10
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#63 Perfect Prey

    Fumettaro della porta accanto

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 5521 Messaggi:
  • LocationSassari, 08/09/1980

Inviato 19 aprile 2008 - 22:54

Finalmente ho visto (nonché già rivisto) il famoso CONTRATTO PER UCCIDERE di Siegel. Premonizioni di Dirty Harry (la pistola-"dito castigatore") e Pulp Fiction (la coppia dei killer, lui-lei-il gangster) a parte, lo trovo davvero uno dei migliori del vecchio Don, che continua ad essere uno dei miei registi preferiti O_O.

'nanotte,
EH
  • 0
L'amour physique
Est sans issue

#64 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 29 aprile 2008 - 21:46

Divagazione polar con Il commissario Pelissier (Max et les ferrailleurs, 1971) di Claude Sautet, con Michel Piccoli, Romy Schneider, Bernard Fresson

Immagine inserita

Il commissario Max (Michel Piccoli), ex giudice istruttore declassatosi a poliziotto per eccesso di zelo, è ossessionato dall'idea di cogliere i criminali in flagrante per comminare loro il massimo della pena. In questa guerra personale contro la criminalità si spinge addirittura ad assumere il ruolo di agente provocatore, istigando Abel (Bernard Fresson), vecchio conoscente divenuto piccolo delinquente di periferia, a fare il salto di qualità e tentare una rapina in banca. Per perfezionare il mefistofelico piano, Max non si fa scrupolo a circuire Lily (Romy Schneider), prostituta e fidanzata di Abel, spacciandosi per banchiere di una piccola ma ben fornita agenzia della Villette (quartiere reso opulento dal mercato della carne).

Immagine inserita

I criminali da strapazzo ci cascano in pieno e progettano il colpo all'oscuro dell'agguato che il commissario sta tendendo loro. I malviventi sono troppo ingenui e Max troppo scaltro perché la partita non vada a finire nel modo previsto. Ma anche il più scafato e disilluso dei flic ha i suoi punti deboli: recitando il ruolo di Felix il banchiere che manipola la prostituta Lily, Max finisce per restare intrappolato nella propria trappola. Il commissario freddo e cinico, ironia della sorte, si infatua di Lily e inizia a preoccuparsi per lei, donna sfacciatamente candida nel suo prevedibile e vistoso opportunismo.

Immagine inserita

Anche qui, come in Série noire, le tensioni dostoevskiane innervano i rapporti psicologici, ma sottoposte ad un'agghiacciante radicalizzazione: il commissario Pelissier non solo condivide la forma mentis dei delinquenti che combatte, ma diventa a tutti gli effetti il loro mandante occulto, diventando la causa di quell'effetto che la polizia dovrebbe sconfiggere. Splendida perversità: un poliziotto che spinge i criminali a delinquere per poterli cogliere in flagrante. Mai figura di flic è stata tanto esatta nel rappresentare il senso d'impotenza della Legge che, incapace di vedersi debole, si incattivisce in delirio d'onnipotenza, fregandosene apertamente della deontologia. Un vero e proprio saggio sulla degenerazione dell'autorità in autoritarismo.

Immagine inserita

Ma alla tensione dostoevskiana si aggiunge una componente scardinante che mi ha ricordato gli inceppamenti narrativi di Dürrenmatt: la macchina logica perfetta che viene bloccata dal granello d'irrazionale che si insinua nei suoi ingranaggi, qui rappresentata non dal caso ma da una donna. Sautet gira con uno stile apparentemente anonimo, ma incredibilmente attento ai valori cinematografici delle situazioni: primi piani in grande quantità, montaggio che predilige le aperture di sequenza con inquadrature ravvicinate e una grande precisione nell'iscrivere i corpi negli spazi, con frequenti effetti di quadro nel quadro e riprese attraverso vetri appannati. Senz'altro non un prodigio dal punto di vista stilistico, ma l'innegabile sensibilità nel tratteggio dei personaggi e l'impressionante intensità della psicologia del protagonista (Piccoli è di una bravura imbarazzante) rendono Il commissario Pelissier un polar assolutamente imprescindibile.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#65 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 02 maggio 2008 - 11:58

Détective (1985) di Jean-Luc Godard, con Nathalie Baye, Claude Brasseur, Johnny Hallyday, Emmanuelle Seigner, Laurent Terzieff, Jean-Pierre Léaud, Julie Delpy, Alain Cuny

Parigi, Hotel Concorde Saint Lazare. Si incrociano le vicende di quattro uomini e carovane al seguito: Prospero, un detective che sta conducendo unâ??indagine su un omicidio avvenuto due anni prima nellâ??hotel; Jim, un impresario di boxe indebitato con un pilota di aerei privati e con la mafia; Emile, il pilota creditore che cerca di riscuotere il denaro prestato a Jim e il vecchio boss mafioso che cerca di fare altrettanto, ma con maggiore insistenza.

Immagine inserita

Nonostante ci sia già un thread dedicato a Godard dove forse le mie farneticazioni sarebbero più indicate, preferisco postarle qui poiché la riflessione sul genere in questo momento mi interessa di più del discorso sull'autore. Naturalmente è impossibile separare le questioni in modo netto, soprattutto quando a frequentare il noir è JLG, ma mi piace considerare Détective una sorta di punto terminale del noir, confine estremo al di là del quale il genere si sfalda irrimediabilmente, dissolvendosi in ruminazione iconografica. Scomponendo la formula della detective story in una disseminazione di racconti all'interno di una rigorosa unità di spazio e tempo (un hotel, una settimana), mi pare che Godard saggi divertito la tolleranza del genere alla dispersione narrativa e iconografica. Non soltanto le vicende dei personaggi sembrano procedere per strade tutte loro (salvo ricomporsi in un finale sfacciatamente didascalico), ma l'intero film è composto di inquadrature doppiamente fisse (non solo non ci sono movimenti di macchina, ma la messa a fuoco è categoricamente invariabile).

Immagine inserita

Questa giocosa disgregazione narrativa e visiva fa ancora noir? A mio avviso sì, dislocando però l'attribuzione di genere nell'attività spettatoriale. Cosa significa? Significa che Godard gioca con l'orizzonte di attesa dello spettatore, certo che le griglie concettuali di quest'ultimo rinchiuderanno comunque il film all'interno di uno spazio mentale circoscritto come un tavolo da biliardo. Ed è proprio il biliardo a costituire il leitmotiv di Détective, correlativo oggettivo di un gioco che è anche impossibilità di uscire da un campo predefinito. Non si percepisce tristezza o malinconia in questa esplorazione ludica del genere: al contrario si sente un tono di fondo estremamente divertito, come se il film traesse segreto godimento dal suo dispiegarsi all'interno di uno spazio confortevolmente chiuso. Un divertissement di lusso che spinge il noir al dialogo con lo spettatore senza dilaniare le regole del gioco/genere, ma esplicitandone la convenzionalità. Le stesse latitudini narrative saranno frequentate l'anno dopo da un altro film francese: Rosso sangue di Leos Carax, dove si rivedrà una delle due attrici lanciate da Détective, Julie Delpy (l'altra è Emmanuelle Seigner).
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#66 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 03 maggio 2008 - 23:00

Rosso sangue (Mauvais sang, 1986) di Leos Carax - con Michel Piccoli, Juliette Binoche, Denis Lavant, Julie Delpy, Hans Meyer, Carroll Brooks, Hugo Pratt, Serge Reggiani

Parigi, futuro prossimo: il virus STBO, morbo che colpisce tutti quelli che fanno l'amore senza amore, sta mietendo vittime su vittime. La prima compagnia che riesce a isolare l'agente patogeno, in un laboratorio installato al cinquantaseiesimo piano di un grattacielo, è la Darley-Wilkinson. Una casa farmaceutica straniera commissiona tuttavia a Marc (Michel Piccoli) e Hans (Hans Meyer) il furto del campione di virus, ma i due vecchi gangster hanno bisogno di qualcuno svelto di mano e si rivolgono ad Alex (Denis Lavant), giovane scassinatore figlio di un loro vecchio amico e complice. Il piano deve essere messo in pratica molto velocemente, poiché Marc è incalzato dall'Americana (Carroll Brooks), donna scaltra e senza scrupoli che esige la riscossione di un ingente debito.

Immagine inserita

Film strettamente imparentato a Détective di Jean-Luc Godard (non solo per la prossimità cronologica e per la presenza di Julie Delpy), Rosso sangue è il secondo lungometraggio del ventiseienne Leos Carax (classe 1960). Nonostante le inconfondibili marche di autorialità, Mauvais sang può essere letto come un noir con spiccate componenti mélo: se l'ambientazione prevalentemente notturna e il piano criminoso collocano il film nel solco del noir, la storia d'amore contrastato tra Alex e Anna (Juliette Binoche), giovane compagna di Marc, sposta la vicenda nei territori del mélo. Fin qui niente di nuovo, insomma: noir e mélo sono spesso andati a braccetto, basti pensare a uno dei prototipi del genere, Vertigine (Laura, 1944) di Otto Preminger.

Immagine inserita

Ciò che rende Rosso sangue singolare e al tempo stesso significativo per la geografia del genere è il fatto che le due anime del film non sono giustapposte o alternate, ma sono letteralmente saldate insieme: l'ambiguità del noir si trasferisce nell'universo interiore dei personaggi, facendo dei loro sentimenti degli enigmi e delle loro relazioni una ricerca. Anna dice di Marc: "Quando l'ho conosciuto mi ha guardato subito con quei suoi occhi penetranti, da ricercatore. Come una cosa preziosa, come se fossi stata la soluzione di qualcosa, di una cosa segreta e misteriosa... che c'era già in fondo a lui. E che è sempre là e alla quale certe volte io mi avvicino il più possibile, ma spesso è lontana anni luce da me. E' spossante, non ho più un attimo per me, è la mia vita quella cosa. E' come una specie di enigma che avvolge lui e me insieme, tutti e due complici".

Immagine inserita

L'interiorizzazione dell'ambiguità nel sentire dei personaggi si accompagna all'implosione dell'iconografia noir in forme disarticolate, veri e propri spaccati fisiognomico-fumettistici sui volti e sulle espressioni dei personaggi. Parallelamente la metropoli come classico luogo del mistero viene smembrata e rimpiazzata da una spazialità astratta che inverte la relazione tra città e corpi: non sono più questi ultimi a collocarsi in un contesto urbano che li trascende e contiene, ma è una Parigi sfigurata a fornire frammenti di sé come maschere e costumi dei protagonisti (non a caso frequentemente ripresi a torso nudo). In questo senso, portando il noir ai limiti della deriva estetica, Mauvais sang si apparenta alla ricerca di Détective: come il film di Godard delegava l'attribuzione del genere all'attività ludica dello spettatore (la metafora del tavolo da biliardo), così la pellicola di Carax trasporta i tratti distintivi del genere (l'ambiguità, il segreto, il mistero) nella dimensione sentimentale dei personaggi, identificando totalmente noir e mélo.

Immagine inserita

Su questa base ibrida si innestano poi altri percorsi tematici: il micidiale virus STBO è una versione iperbolica dell'AIDS (siamo in pieni anni Ottanta e nel film non mancano inviti a usare il preservativo), la lotta tra compagnie farmaceutiche per la scoperta del vaccino stigmatizza l'avidità capitalistica, la fuga iniziale di Alex dalla sedicenne Lise (Julie Delpy) dice tutta l'ansia di vivere la vita con generosità e la banda di gangster che accoglie il giovane fuggiasco rappresenta un chiaro elogio all'amicizia. Ma al di là di queste traiettorie semantiche, Sangue rosso resta impresso per aver portato al punto di fusione noir e mélo, per la furibonda destrutturazione figurativa e per l'audacia di certi dialoghi al limite del comico involontario. Splendidi cameo di Hugo Pratt nei panni di Boris, uno scagnozzo della Americana, e di Serge Reggiani in quelli di Charlie, direttore di un club di paracadutismo vicino a Parigi.

Immagine inserita


  • 1
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#67 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 07 maggio 2008 - 18:17

Rififi (Du Rififi chex les hommes, 1954) di Jules Dassin, con Jean Servais, Robert Manuel, Carl Möhner, Jules Dassin, Magali Noël, Marie Sabouret

Uscito dal carcere dopo cinque anni di detenzione, Toni "le Stéphanois" (Jean Servais) punisce a cinghiate la sua ex compagna Mado (Marie Sabouret) e si impegna in un nuovo colpo: rapinare la famosa gioielleria "Webb" di Rue de la Paix (a due passi da Place Vendôme) insieme all'amico fraterno Jo (Carl Möhner), all'italo-francese Mario (Robert Manuel) e a Cesare "il milanese" (Jules Dassin), massimo esperto di casseforti in circolazione.

Immagine inserita

Se Grisbi è mitografia del milieu, Rififi ne è la fenomenologia. Il romanticismo evocativo tratteggiato l'anno prima da Jacques Becker viene spazzato via dall'amara secchezza di Jules Dassin, cineasta americano costretto ad emigrare in Francia dalla crociata anticomunista del senatore Joseph McCarthy. Ancora una volta ci troviamo di fronte all'adattamento di un romanzo Série noire, quel Du rififi chez les hommes di Auguste Le Breton che contende a Touchez pas au grisbi di Albert Simonin il primato delle vendite. E ancora una volta ci troviamo di fronte all'epopea di un truand attempato ma ancora pronto a combattere per difendere amici e reputazione. Una vecchia gloria in cerca di un riscatto personale, soprattutto nei confronti di se stesso.

Immagine inserita

Ma se il ritratto beckeriano della truanderie si nutre di figure leggendarie e traccia una topografia completamente avulsa dal tessuto urbano (come se i luoghi del milieu non appartenessero alla stessa fascia di realtà della Parigi diurna), Dassin, forte dell'esperienza quasi neorealista de La citta nuda (The Naked City , 1948), conficca le vicende antieroiche di Tony e compagni nel corpo della Ville Lumière, sfruttando al massimo l'interazione tra personaggi e spazi. La metropoli romba, sferraglia e rumoreggia, dettando tempi e azioni, nascondendo pericoli e offrendo osservatori privilegiati: è soltanto padroneggiando mentalmente lo spazio urbano (emblematica la sequenza della "passeggiata mnemonica" di Jo) che il colpo potrà andare a buon fine, nonostante un rischioso imprevisto.

Immagine inserita

Pur rinunciando ad alcune durezze del magnifico libro di Le Breton (pieno zeppo di particolari scabrosi e raccapriccianti, come l'odore di merda che si respira durante le sparatorie), Dassin, coadiuvato in sede di sceneggiatura da René Wheeler e dallo stesso Le Breton, ne rispetta fedelmente il crescendo drammatico, annerendo progressivamente i toni della narrazione e piazzando nel centro del film una delle due più belle sequenze di rapina della storia del genere (l'altra, assai simile, porta la firma di monsieur Melville e non a caso si sviluppa all'interno di una gioielleria di Place Vendôme). In un silenzio pressoché totale e con un montaggio ridotto all'essenziale (le rare ellissi sono rigorosamente cronometrabili), Dassin dà prova di un virtuosismo registico (che impalpabilità i suoi long take!) e di un'inventiva scenica (su tutte la trovata dell'ombrello come raccoglitore di detriti) semplicemente sublimi.

Immagine inserita

Pregnanza del contesto metropolitano e sontuosità formale non sono tuttavia gli unici pregi del film: man mano che la vicenda assume contorni sempre più tragici, Rififi accantona leziosità e preziosisimi per farsi iconografia di un incubo. Le atmosfere tra il debosciato e lo scanzonato della prima parte si incupiscono inesorabilmente in toni lividi, funerei, addirittura allucinati in occasione della corsa in macchina finale. Sequenza che, insieme all'esecuzione di Cesare il milanese (soavemente interpretato dallo stesso Dassin sotto lo pseudonimo di Perlo Vita), imprime al film una secca torsione espressionista che impedisce di rinchiudere questo strepitoso noir nella gabbia critica del semidocumentarismo.  Personalmente (eresia!) lo preferisco al pur fascinosissimo Grisbi.

Immagine inserita
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#68 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 08 maggio 2008 - 18:02

PS- Già autore del discreto noir I trafficanti della notte (Night and the City, 1950), Jules Dassin è scomparso recentemente (il 31 marzo 2008). Rififi, il titolo del suo massimo successo commerciale, in argot significa "bagarre".
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#69 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 13 maggio 2008 - 09:34

Ancora polar con Guardato a vista (Garde à vue, 1981) di Claude Miller - con Lino Ventura, Michel Serrault, Guy Marchand, Romy Schneider

In una cittadina della provincia francese due bambine sono state strangolate e stuprate a otto giorni di distanza. Affiancato dal gretto ispettore Belmont (Marchand), l'ispettore Gallien (Ventura) convoca alla centrale di polizia il notaio Martinaud (Serrault) per una lunga notte d'interrogatorio. E' il 31 dicembre e a pochi passi dal commissariato si sta celebrando il tradizionale veglione di capodanno, presenziato da tutti i notabili del paese. A un certo punto dell'interrogatorio si presenta in centrale Chantal Martinaud (Schneider), la moglie del notaio, ma l'uomo si rifiuta di vederla...

Immagine inserita

"Stato di fermo", questo l'esatto significato dell'espressione "garde à vue", esprime con precisione e plumbea claustrofobia l'impronta narrativa e formale del terzo film di Claude Miller. Una stanza della centrale di polizia, due personaggi impegnati in un braccio di ferro che non disdegna i sotterfugi e un piccolo coro di personaggi marchiati dalla meschinità e dalla civilissima ferocia della normalità. Pur non immune dalla crosta di pregiudizi che condizionano la vita in una città di provincia, l'ispettore Gallien è determinato più dal desiderio di scoprire l'assassino delle bambine che dall'ambizione personale o dallo spirito di rivalsa sociale. Anche se sotto il suo ruolo cova il disprezzo per i potenti e per le loro cerimonie (emblematico il suo organizzare l'interrogatorio proprio la notte di capodanno), Gallien è un flic e cerca di fare il proprio lavoro senza troppa animosità.

Immagine inserita

Ci riesce? Sì e no. A tormentarlo non è tanto il pruriginoso sottobosco sessuale che si cela in ogni famiglia ricca (compresa quella del notaio Martinaud), quanto il ricordo martellante dei corpi straziati delle bambine, abbandonati su una spiaggia o gettati su un cumulo di detriti. Immagini di intollerabile violenza: di fronte al grande male di questi segni di ingiustizia, il piccolo male rappresentato dalle perversità domestiche di tutti i Martinaud del mondo passa inevitabilmente in secondo piano. Ma in fondo queste immagini di scempio su corpi indifesi non sono troppo dissimili dalla violenza esercitata dalle classi potenti nei confronti di quelle vulnerabili. Sono simboli di prevaricazione, emblemi di annientamento.

Immagine inserita

E allora, fomentato dalla moglie del notaio in un dialogo in cui anch'essa si rivela vittima dell'ingranaggio sociale, Gallien si accanisce contro Martinaud, lo incalza, lo tartassa, scavandogli il vuoto intorno. Il notaio crolla, ma a imporsi è il trionfo ironico del pregiudizio e non la vittoria della giustizia. Il caso, alleato dell'assurdo, si diverte a cambiare le carte in tavola: colpevole non è il solito delirio di onnipotenza dell'alta borghesia, ma il gretto individualismo indifferenziato (fare attenzione alle prima sequenza nella centrale di polizia). Anche la lettura rigorosamente sociologica, come dire?, salta per aria, lasciando sul proprio cammino soltanto l'illusione di aver capito. Un'illusione mor(t)ale.

Immagine inserita

Adattando il romanzo Série noire � table! (Brainwash) di John Wainwright, Claude Miller, accompagnato dalle soffianti musiche di Georges Delerue e scortato dai calibratissimi dialoghi di Michel Audiard, si dedica alla costruzione di una messa in scena geometrica, interamente giocata sulle simmetrie, sulle inversioni, sui rapporti di grandezza e sui giochi di luce. Se i primi piani dardeggiano sguardi diffidenti ed espressioni corrucciate, sono le composizioni in diagonale e in profondità di campo a comunicare un senso molto meno spicciolo e combustibile: impercettibili slittamenti ottici, piccole fratture prossemiche che fanno scattare momenti di improvvisa tenerezza o di inconfessabile complicità nel cuore del gioco al massacro. Un "kammerspielpolar" battuto dalla pioggia incessante e intriso di un'indicibile amarezza.

Immagine inserita

Remake USA del 2000 (Under Suspicion) diretto, pare disastrosamente, da Stephen Hopkins, con Gene Hackman, Morgan Freeman e Monica Bellucci.
  • 1
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#70 dazed and confused

    festina lente

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 6082 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 07:36


Dark Passage (la fuga) con Bogart e la Bacall


Splendido!



Questo è un titolo imperdibile!
  • 0

#71 dazed and confused

    festina lente

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 6082 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 07:45



- les diaboliques di clouzot (meno consociuto ma ugualmente splendido).



Hanno anche fatto un remake indegno di questo film nel 1995, con Isabelle Adjani e Sharon Stone.Isabella Adjani sembrava posseduta...completamente fuori parte.
  • 0

#72 dazed and confused

    festina lente

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 6082 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 07:50


Opera manifesto di Jean-Jacques Beineix, regista di gusto visivo non banale ma involutosi per copioni non altrettanto intriganti come rimangono i suoi personaggi, senza eccezione.


Beh, dai Betty Blue era parecchio bello, sia per la regia che per la fotografia.I personaggi poi sono indimenticabili.
  • 0

#73 stalker

    93

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 3426 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 09:18

Il fascino del delitto (Série noire, 1959) di Alain Corneau, con Patrick Dewaere, Myriam Boyer, Marie Trintignant, Bernard Blier, Andreas Katsulas

Immagine inserita


l'ho visto venerdì sera. bellissimo
madonna che attorone dewaere  :-* :-* :-*
  • 0

#74 stalker

    93

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 3426 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 09:40

ce l'ho da un secolo ma in lingua....c'è speranza per i sottotitoli ?
io col francese faccio un pò a botte..


l'ho visto in francese senza sottotitoli
  • 0

#75 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 11:00

ce l'ho da un secolo ma in lingua....c'è speranza per i sottotitoli ?
io col francese faccio un pò a botte..


è passato in versione doppiata su raisat cinema poco tempo fa. in rete si trova soltanto l'originale, nisba sottotitoli purtroppo.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#76 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 13:21

Il clan dei siciliani (Le Clan des siciliens, 1969) di Henri Verneuil, con Alain Delon, Jean Gabin, Lino Ventura, Irina Demick, Amedeo Nazzari

Aiutato dal clan dei Malanese, Roger Sartet (Alain Delon) evade dal cellulare della polizia durante un trasferimento. Alla famiglia di origine siciliana l'evaso propone un colpo milionario: il furto dei gioielli francesi esposti a Villa Borghese a Roma, di cui possiede la mappa dei dispositivi d'allarme. Il boss Vittorio (Jean Gabin) pare interessato, tuttavia prima di sbilanciarsi chiede aiuto all'amico italiano Antonio Nicosia (Amedeo Nazzari). Constatata l'inespugnabilità della mostra, i due vecchi malavitosi escogitano un piano alternativo, ma nel frattempo l'ispettore Le Goff (Lino Ventura) bracca Sartet.

Immagine inserita

Noir icastico. Impreziosito dalla presenza simultanea del trio attoriale Gabin-Ventura-Delon (sottotitolo: "generazioni a confronto"), certificato dalla denominazione letteraria doc (l'omonimo romanzo di Auguste Le Breton + dialoghi di Josè "Le deuxième souffle" Giovanni) e blindato dalla regia irreprensibile di Henri Verneuil, Il clan dei siciliani è un film che sotto la sua superficie smaltata e levigatissima tradisce una marcata natura accademica. D'accordo, tutti gli interpreti hanno la "gueule de l'emploi", i cliché sono onorati con filologica precisione e le musiche scacciapensieri di Morricone cadenzano correttamente l'incedere della narrazione, ma le atmosfere hanno un che di artificioso e programmatico, di macchinoso e protervo.

Immagine inserita

Non sono le singole sequenze, girate con innegabile perizia, a convogliare questa sensazione di accademismo un po' ingessato, ma è la costruzione globale del film, confezionato non tanto per raccontare il mondo del milieu o per descrivere dei personaggi psicologicamente smussati, quanto per celebrare sfarzosamente le tre star, allestendo attorno a loro un set banalmente amplificatorio: le location (Parigi, Roma, New York, la Costa Azzurra) sembrano prelevate da un catalogo dei luoghi comuni e la confortevole ricchezza delle scenografie avvolge metaforicamente le vicende dei tre personaggi in modo un tantino rigido (i flipper come simbolo di un gioco destinato a finire!).

Immagine inserita

Ci si consola guardando l'anno di produzione (1969) e pensando che film del genere servivano a sdoganare il noir e ad aumentarne l'appiglio spettacolare/spettatoriale, ma poi ci si ricorda che nello stesso anno Lino Ventura girava L'armée des ombres (un noir bellico) con Sua Maestà Melville e, insomma, no no e poi no. Che diamine!
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#77 dazed and confused

    festina lente

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 6082 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 19:03

Betty Blue, con una Béatrice Dalle da strepito, tutt'uno, incarnazione del suo stesso personaggio, un rapporto che è continua avventura, sogno ad occhi aperti, angoscia della separazione; torrenziale, incendiario, senza argini, distruttivo. Una cronaca che si protrae tre ore, per me esaspera virtù e vizi di un autore il cui stile ha comunque segnato gli anni '80, anticipato estetiche comuni, quasi più pittore, esteta puro, idealizzante, che cineasta. Comunque il suo personalissimo manifesto. :)

Immagine inserita

Immagine inserita


Questo è uno di quei film che non riesco più a vedere.La parte finale, con la musica di Yared in sottofondo, è forse una delle scene più malinconiche che io abbia mai visto
:-*

http://it.youtube.co...h?v=cXG02PW0_xw
  • 0

#78 satyajit

    Enciclopedista

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 6747 Messaggi:
  • LocationMilano

Inviato 25 maggio 2008 - 19:04


le location (Parigi, Roma, New York, la Costa Azzurra) sembrano prelevate da un catalogo dei luoghi comuni


Luoghi comuni di comuni luoghi.
Oppure: luoghi comuni di comuni comuni.

asd
  • 0

#79 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 20:51



le location (Parigi, Roma, New York, la Costa Azzurra) sembrano prelevate da un catalogo dei luoghi comuni


Luoghi comuni di comuni luoghi.
Oppure: luoghi comuni di comuni comuni.

asd


:-X
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#80 signora di una certa età

    old signorona

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 19655 Messaggi:

Inviato 25 maggio 2008 - 21:13

Betty Blue, con una Béatrice Dalle da strepito, tutt'uno, incarnazione del suo stesso personaggio, un rapporto che è continua avventura, sogno ad occhi aperti, angoscia della separazione; torrenziale, incendiario, senza argini, distruttivo. Una cronaca che si protrae tre ore, per me esaspera virtù e vizi di un autore il cui stile ha comunque segnato gli anni '80, anticipato estetiche comuni, quasi più pittore, esteta puro, idealizzante, che cineasta. Comunque il suo personalissimo manifesto. :)

Immagine inserita

Immagine inserita


poeta!
  • 0

In realtà secondo me John Lurie non aveva tante cose da dire... ma molto belle


#81 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 10 agosto 2008 - 08:03

Plata quemada (2000) di Marcelo Piñeyro, con Eduardo Noriega, Leonardo Sbaraglia, Pablo Echarri, Leticia Brédice

Settembre 1965: legati sentimentalmente, El Nene (Leonardo Sbaraglia) e Angel (Eduardo Noriega) - conosciuti come i gemelli ("Los Mellizos") per la loro somiglianza - vengono contattati dall'esperto Fontana per rapinare un portavalori nel centro di Buenos Aires. Fiancheggiati dall'autista "El Cuervo" (Pablo Echarri), il loro assalto al furgone va a buon fine, anche se Angel si becca una pallottola a una spalla e Fontana vorrebbe sbarazzarsi di lui, ma Nene lo protegge e lo cura amorevolmente. Ricercati dalla polizia guidata dal temibile commissario Aguirre, i quattro fuggono in Uruguay. A Montevideo se ne stanno rintananti in un appartamento ma dopo pochi giorni la claustrofobia inizia a farsi sentire, sicché i tre giovani escono per cercare un po' di svago. Lo scaltro Fontana capisce che la loro imprudenza finirà per farli beccare e se la svigna con la sua parte di malloppo, lasciando Nene, Angel e El Cuervo ai loro eccessi di alcol e stupefacenti. Nel frattempo la polizia è sulle loro tracce...

Immagine inserita

Tratto dall'omonimo romanzo di Ricardo Piglia (a sua volta ispirato da un fatto realmente accaduto nel 1965), Plata quemada è un noir con forti venature omoerotiche. Alla materia narrativa cronachistica e sfascicolata messa insieme da Piglia (il romanzo è un continuo andirivieni di testimonianze e focalizzazioni variabili), Marcelo Piñeyro preferisce un trattamento più omogeneo e lineare, adottando una messa in scena urlata e incandescente. La nevrotica polifonia del romanzo (che a lungo andare risulta un po' sfiancante a dire il vero) si trasforma in una ballata suicida dai risvolti voluttuosamente deliranti.

Vicino agli eccessi squillanti di Carax o agli ingrandimenti ottici delle graphic novel, lo stile di Plata quemada è famelico, carnale, materico. Del resto la medesima torsione verso il tangibile viene esercitata sul racconto: ciò che nel romanzo è sfuggente e assente, nel film diventa concreto e palpabile (fatta eccezione per la figura del commissario, soltanto evocata). La scelta di Piñeyro è tutt'altro che banale o peggio dozzinale: alzando la temperatura emotiva della narrazione, emergono con bruciante evidenza sia i tratti psicologici dei personaggi che i lineamenti della relazione tra Nene e Angel.

Immagine inserita

E se talvolta le intemperanze visive del regista argentino si irrigidiscono in formule vagamente caricaturali (si veda l'uso ostinato del montaggio alternato), il film riesce a stabilire (e assestarsi su) un'atmosfera di consistente magnetismo che cattura inesorabilmente lo sguardo. Apprezzabili le interpretazioni di Sbaraglia nei panni del risoluto Nene e di Noriega in quelli del tormentato Angel. Ma la vera sorpresa del film è Pablo Echarri: il suo Cuervo surclassa il personaggio del romanzo e si divora letteralmente i compagni di scena. Voto: 7
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#82 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 08 ottobre 2008 - 13:01

Truands (2007) di Frédéric Schoendoerffer con Benoît Magimel, Philippe Caubère, Béatrice Dalle, Oliver Marchal, Mehdi Nebbou, Tomer Sisley, Ludovic Schoendoerffer

Parigi, il microcosmo della criminalità contemporanea. Franck (Magimel) e Jean-Guy (Marchal) sono due battitori liberi: lavorano con tutti, ma non si legano a nessuno. Claude Corti (Caubère) è il maturo e feroce capo della banda dominante. Hicham (Nebbou) e Larbi (Sisley) sono "les cousins", due giovani gangster arabi in ascesa che insidiano gli affari di Corti.

Immagine inserita

Terzo lungometraggio di Frédéric Schoendoerffer, Truands è semplicemente il più bel polar francese degli ultimi dieci anni insieme a 36, Quai des Orfèvres (2004) di Olivier Marchal, qui attore nel roccioso ruolo di Jean-Guy, il socio del giovane e scaltro Franck (Benoît Magimel in un'interpretazione monumentale). Un'immersione di impressionante esattezza nella lotta per il controllo del milieu parigino: ecco che cos'è Truands, un polar brutale e polifonico innervato dalla ferocia sanguinaria del capobanda Claude Corti, interpretato con aderenza pornografica da Philippe Caubère.

Immagine inserita

La radiografia del grande banditismo contemporaneo tracciata da Schoendoerffer (anche sceneggiatore insieme a Yann Brion) è di inaudita precisione: rapine, traffici di droga, esecuzioni, estorsioni e soprattutto tradimenti si susseguono con ritmo incalzante, solo episodicamente interrotti da parentesi in cui i truand si accordano, parlamentano o si concedono pause di piacere. Abolito ogni sentimentalismo: l'amicizia non è materia di discussione ma di azione, l'amore una questione privata da assaporare nell'intimità delle proprie stanze. Fuori è la guerra, il tutti contro tutti.

http://www.macguff.f...708_525x394.jpg

Se l'azione è senza dubbio il fulcro del film (palesemente debitore all'estetica del Mann di Heat, più volte evocato nel corso della pellicola), Truands non trascura affatto le psicologie: la tirannica irruenza di Corti tiene banco, ma gli altri caratteri si stagliano chiaramente sulla tela morale del film. La felina scaltrezza di Franck e la laconica lucidità di Jean-Guy disegnano un rapporto di profonda e sfaccettata complicità, così come un saldo affetto non privo di divergenze lega "les cousins" (Hicham e Larbi), i due intraprendenti criminali che vogliono fare le scarpe al vecchio Corti.

Immagine inserita

Non un solo personaggio è fuori parte: tutti gli interpreti hanno la perfetta "gueule de l'emploi" (sublime André Peron nel ruolo del fido Ramun e incredibilmente irritante Ludovic Schoendoerffer, fratello del regista, in quello di Ricky, il braccio destro di Corti). Ma è Béatrice Dalle, la donna del navigato gangster, a svettare su tutti: condivide col suo uomo i piaceri della carne e le sofferenze dello spirito. E quando il suo Claude finisce in carcere non si perde d'animo, restandogli vicina e adoperandosi affinché il ritorno in libertà non gli sia fatale.

Immagine inserita

Girato con scattante famelicità (camera sempre in movimento concentrata su gesti, espressioni e dettagli), incapsulato in una fotografia metallica (Jean-Pierre Sauvaire) e avvolto da una composizione musicale di vibrante intensità (Bruno Coulais), Truands è un trattato di micidiale eleganza sulla filosofia del tradimento. Sui titoli di coda, colpo di grazia finale, Marianne Faithfull sibila dolcemente A lean and hungry look.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#83 {`tmtd`}

    Enciclopedista

  • Redattore OndaRock
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 7838 Messaggi:
  • LocationBologna

Inviato 08 ottobre 2008 - 13:13

certo che la nostra cara beatrice dalle prende sempre le cose di "petto".  asd
il film sembra bello, c'è pure magimel che mi piace un sacco... lo cerco!
  • 0

#84 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 08 ottobre 2008 - 13:20

Purtroppo (o per fortuna?) si trova solo in francese senza sottotitoli (almeno io non li ho trovati).

Buona visione.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#85 Guest_Oyuki_*

  • Guests

Inviato 08 ottobre 2008 - 13:22

Purtroppo (o per fortuna?) si trova solo in francese senza sottotitoli (almeno io non li ho trovati).


http://subscene.com/...tles-71302.aspx

;)
  • 0

#86 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 08 ottobre 2008 - 13:23

Merci bien!  :)
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#87 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 10 ottobre 2008 - 12:34

Approfitto del topic noir per parlare di polar, la variante francese del genere. Poliziesco venato di nero (con tutte le contaminazioni del caso).
Di seguito un paio di playlist già pubblicate sul sito www.film.tv.it.

Polar je t'aime

Amo oscenamente questo genere popolato da sbirri disillusi e senza divisa, truand protervi e amicizie a fior di pelle. Azione e malinconia, tradimenti e codici d'onore, locali notturni e patrie galere: la tragedia in borghese.

1. Notte sulla città
Se "Le samouraï" Jef Costello fosse "Un flic", sarebbe Edouard Coleman: un professionista disumanizzato.

2. Il commissario Pelissier
Come per Edouard Coleman, anche per il commissario Pelissier la legge esclude i sentimenti. Ma per lui, ex giudice istruttore, la giustizia è un'ossessione, un'attrazione fatale che ha il volto di Romy Schneider.
 
3. Police Python 357
L'ispettore Marc Ferrot è tutt'uno con la sua arma, ma tra una camera e l'altra del suo revolver s'incunea la fragile Silvia. La detonazione è devastante: un'implosione che spappola ogni sicurezza.
 
4. Per la pelle di un poliziotto
Detective privato anarcoide, l'ex flic Choucas viene incastrato dalla polizia in un losco affare di denaro sporco e droga. Dal romanzo di Jean-Patrick Manchette "Piovono morti", la prima regia di Delon: un polar gagliardamente atletico e caotico.
 
5. La chambre des morts
La detective Lucie sulle tracce del serial killer di Dunkerque. Cerimoniali macabri, conti alla rovescia e sublimazioni necrofile: il polar sui tavoli della morgue.
 
6. MR 73 - L'ultima missione
Louis Schneider è ciò che resta di un poliziotto dopo la caduta nell'abisso della colpa. Il rimorso ha ottenebrato ogni cosa, la giustizia è solo vendetta autopunitiva: il polar slitta irrimediabilmente nell'horror.
 
7. Truands
Banditi i poliziotti, restano soltanto i banditi veri e propri: Parigi come lussuoso teatro del crimine, il milieu come tempio del tradimento. "Truands": il polar, oggi, è nero come la pece.

Immagine inserita

Polar, je t'adore

Altri sette polar da pelle d'oca. Signori, chapeau bas!

1. Asfalto che scotta
Il lungometraggio d'esordio di Claude Sautet è un polar secco, documentaristico, ferocemente melvilliano. Quanta solitudine nell'aristocratica lealtà di Davos, quanta amarezza negli occhi di Lino Ventura!
 
2. La fredda alba del Commissario Joss
Tra squarci pop e deformazioni espressionistiche, il polar secondo Georges Lautner: sbirri compromessi, le alte sfere che mettono i bastoni tra le ruote e un Gabin più implacabile e incarognito che mai: "Sarà la notte di San Bartolomeo per la teppaglia".
 
3. Ultimo domicilio conosciuto
Il capolavoro di José Giovanni è il polar più "antinouvellevague" della storia del genere: la poetica "flânerie" si abbrutisce in pedestre caccia all'uomo, la Parigi d'ovatta si indurisce in asfalto per topi. La stagione dei sogni è finita per sempre.

4. Il fascino del delitto
Corneau firma il suo capo d'opera tallonando le mercuriali e psicotiche gesta di Frank Poupart, l'antieroe più pazzo e imprevedibile che si sia mai visto sullo schermo. Patrick Dewaere è una marionetta che fa festa nel cuore della tragedia. "Série noire".
 
5. Casino totale
Potabile adattamento dell'immenso "Total Khéops" di Jean-Claude Izzo. La messa in scena è meccanica e gastronomica, ma Marsiglia biancheggia aspra e Fabio Montale (interpretato dal rugoso Richard Bohringer) è malinconico al punto giusto.
 
6. 36, Quai des Orfèvres
Il più bel film di Marchal e, insieme a "Truands" di Frédéric Schoendoerffer, il miglior polar dal 2000 ad oggi. Vrinks contro Klein, BRI contro BRB: rivalità, ambizione e tradimenti dardeggiano dagli sguardi di due flic semplicemente monumentali.
 
7. La chasse à l'homme (Mesrine)
La caccia al nemico pubblico n.1 osservata attraverso gli occhi del poliziotto dell'O.C.R.B. (Office Central de la Répression du Banditisme) Lucien Aimé-Blanc. Ancora una lotta per il potere tra flic, ancora una storia di avidità: la carriera del polar.

Immagine inserita

  • 1
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#88 William Blake

    Titolista ufficiale

  • Redattore OndaCinema
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 17712 Messaggi:

Inviato 11 ottobre 2008 - 21:07

mi sa che posso cominciare a recuperare, ne ho visti solo due...
  • 0
Ho un aspetto tremendo, e non bado a vestirmi bene o a essere attraente, perché non voglio che mi capiti di piacere a qualcuno. Minimizzo le mie qualità e metto in risalto i miei difetti. Eppure c'è lo stesso qualcuno a cui interesso: ne faccio tesoro e mi chiedo: "Che cosa avrò sbagliato?"

#89 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 17 ottobre 2008 - 09:08

Scènes de crimes (1999) di Frédéric Schoendoerffer con Charles Berling, André Dussollier, Eva Darlan, Djemel Barek, Ludovic Schoendoerffer

Regione parigina, inizio inverno. Marie Bourgoin, una giovane donna, sparisce inspiegabilmente lasciando come unico indizio un dépliant turistico macchiato di sangue. Il comandante Georges Fabian e il capitano Jean-Louis Gomez della brigata criminale di Versailles sono incaricati dell'inchiesta. Alcuni giorni più tardi, a un centinaio di metri dall'autostrada, sono rinvenuti due corpi senza testa né mani: quelli di due autostoppisti. Fabian e Gomez realizzano che hanno a che fare con un assassino seriale. Perviene loro una lettera con una foto di Marie legata e la descrizione dettagliata del sequestro e delle successive sevizie. Grazie alle ricerche, i due poliziotti riescono a trovare il luogo del crimine, nei pressi del quale scoprono, gettate in uno stagno, sette teste mozzate. Nelle loro vite private Georges e Jean-Louis hanno dei problemi e quest'ultimo, appena lasciato dalla moglie, beve sempre di più...

Immagine inserita

Lungometraggio d'esordio di Frédéric Schoendoerffer (futuro autore di "Agents secrets" e "Truands"), "Scènes de crimes" è un polar con forti inflessioni thriller. A Schoendoerffer, classe 1962, interessano soprattutto le modalità operative dell'inchiesta poliziesca, mostrando grande scrupolo e realismo nella resa cinematografica. Questo conferisce al film un'impronta quasi documentaristica, con frequenti descrizioni delle tecniche d'indagine. Non soltanto sono osservate da vicino le ricerche sul campo del team di poliziotti coinvolti nel caso, ma l'inchiesta è mostrata anche nei suoi aspetti scientifici più scabrosi, come mostra una dettagliata sequenza necroscopica in cui un cadavere viene minuziosamente ispezionato.

Immagine inserita

Al versante tecnico-scientifico si affianca quello umano-privato. Il comandante Georges Fabian (Charles Berling) e soprattutto il capitano Jean-Louis Gomez (André Dussollier) hanno vite familiari che attraversano momenti delicati: la moglie del primo aspetta un bambino e avrebbe bisogno di una presenza più consistente del marito e quella del secondo ha invece deciso di mollarlo approfittando del trasferimento della figlia a Parigi per gli studi universitari. Evitando lungaggini e romanticherie, Schoendoerffer racconta la loro intimità senza risparmiare vizi (la bottiglia per Jean-Louis) o meschinità (le prostitute per Georges).

Immagine inserita

Nella sua ostentata convenzionalità (gli omicidi a sfondo sessuale di giovani bionde, la coppia di poliziotti non integerrimi, i problemi domestici), "Scènes de crimes" squaderna atmosfere manniane (veicolate anche dal commento musicale di Bruno Coulais) e un dettato visivo grintoso (riprese aeree, dolly sontuosi e steadycam aggressiva), avvolgendo lo spettatore in una vera e propria immersione sensoriale. Ma se è suggerito un forte e chiaro parallelismo con "Manhunter" di Michael Mann (il comandante Fabian sembra identificarsi progressivamente con l'assassino che sta braccando), fortunatamente a far progredire le indagini non sono tanto gli aspetti psicologici quanto quelli tecnici: è grazie ad un medicinale per curare un cane che il serial killer viene pizzicato.

Immagine inserita

L'ultima parte del film è senz'altro la più debole: le fasi conclusive della caccia all'uomo non sono più così rigorosamente necessitate (l'indizio finale, un collirio per le irritazioni da piscina, grida vendetta per la gratuità con cui viene trattato) e l'epilogo suicida è di un'improbabilità esemplare (tanto da far sospettare a un twist narrativo accomodante), ciononostante "Scènes de crimes" resta un apprezzabile polar dalle venature thriller che colpisce per verismo procedurale e precisione caratteriale. Ultime considerazioni sugli interpreti: se Berling di tanto in tanto indulge nella piacioneria, Dussolier fa a pezzi la propria immagine innocua e simpatica per dare vita a un monumentale flic a fine corsa. Brividi. 

Immagine inserita
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#90 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 20 ottobre 2008 - 11:53

Il mistero della donna scomparsa (Spoorloos, 1988) di George Sluizer con Bernard-Pierre Donnadieu, Gene Bervoets, Johanna ter Steege

Immagine inserita

Rex e Saskia sono due giovani olandesi di Amsterdam in vacanza nel sud della Francia. Viaggiano spensieratamente su una piccola macchina con le biciclette sul tettino e il serbatoio mezzo vuoto. Finita la benzina in una galleria, Rex si dirige a piedi alla più vicina stazione di servizio lasciando Saskia da sola: al suo ritorno la trova fuori dal tunnel visibilmente contrariata, ma una volta arrivati al distributore i due si rappacificano e le cose sembrano promettere bene. Prima di ripartire però Saskia va nell'autogrill a prendere qualcosa da bere senza tornare mai più. Che fine ha fatto? Dopo tre anni Rex la cerca ancora...

Immagine inserita

ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER

Tratto dal romanzo "The Golden Egg" di Tim Krabbè (anche sceneggiatore), "Spoorloos" è un noir con gelide venature horror che parla di solitudine, follia, amore e morte. Il film inizia in un campo di grano, con una panoramica orizzontale da destra a sinistra che passa da un insetto stecco inquadrato in primo piano al serpentone dell'autostrada sul quale sfreccia la macchina dei due olandesi: un movimento che nel suo lento scivolare sulle spighe mosse dal vento ci parla delle insidie nascoste nella normalità, così perfettamente mimetizzate da risultare invisibili finché non ci si imbatte in loro.

Immagine inserita

L'impercettibilità della follia è il nucleo tematico di tutto il film, uno dei noir più sobri e disadorni degli anni '80. Il consueto e logoro canovaccio da road movie (una coppia in viaggio, il litigio e l'apparente riconciliazione) è lacerato dallo sguardo micidiale di una normalità in caccia di vittime nei non-luoghi della postmoderno (l'autogrill come tempio dell'anonimato). La Francia del Sud rappresentata da Sluizer, sorta di idillio feroce, è il teatro impassibilmente verdeggiante che ghermisce personaggi incolpevoli come l'ingenua Saskia (una perfetta Johanna Ter Steege) o che alleva e nasconde integratissimi sociopatici come Raymond Lemorne (interpretato da Bernard-Pierre Donnadieu).

Immagine inserita

Il rapimento di Saskia da parte del calcolatore Raymond e la successiva macchinazione dello stesso per riservare a Rex lo stesso trattamento, ambedue realizzati con una freddezza sconcertante, sono letteralmente assurdi nella loro matematica gratuità: gesti compiuti per stabilire un ordine aritmetico, un equilibrio simmetricamente perfetto. Un atto eroico è tale solo se controbilanciato dal peggiore dei crimini, il bianco è bianco solo se paragonato al nero e così via: assiomi che slittano dalla teoria alla pratica con effetto psichicamente dislocante.

Immagine inserita

La tonalità della narrazione è straniante, la fotografia di Toni Kuhn raggelante, i dialoghi di Krabbè quasi surreali nel loro retrogusto oniroide (del resto il titolo del romanzo fa riferimento all'incubo di Saskia che si sogna imprigionata in un uovo dorato che fluttua nello spazio). E la ponderatissima, straordinaria interpretazione di Donnadieu è semplicemente spaventosa: la statica fisicità dell'attore diventa il fulcro intorno a cui il racconto ruota come una giostra impazzita, trovandosi sempre decentrato rispetto alla verità che viene distillata col contagocce dal personaggio.

[img]http://images.google.it/url?q=http://alsolikelife.com/images/images2007/Spoorloos/spoorloos11.jpg&usg=AFQjCNF-6FvwROII8MQ7yh4Ry3OXdcEJ4Q[/img]

La sua perfezionistica imponenza (si cronometra, prova, si registra, controlla la propria frequenza cardiaca) misura e scandisce le reazioni di tutti i personaggi, specie di metronomo vivente che va perfezionandosi (e irrigidendosi) sempre di più nel corso del tempo. Culmine quieto del delirio d'ordine e del perfezionismo del personaggio è il finale: sotterrati i due fidanzati nel giardino, Raymond siede su una panchina: la sua postura è rigida, spigolosa, immobile, il suo sguardo dietro le lenti degli occhiali vitreo, spento, assente. L'equilibrio è definitivamente ristabilito: adesso è un eroe, un perfetto matematico, un dispensatore di morte che ha regalato l'amore eterno alle sue vittime, emblematicamente incastonate nelle uova dorate dei loro sogni. "Spoorloos" è un film in cui l'amore non ha altra modalità di esprimersi al di fuori dell'assenza.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#91 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 23 ottobre 2008 - 15:29

Total Western (2000) di Eric Rochant con Samuel Le Bihan, Jean-François Stévenin, Jean-Pierre Kalfon, Kahena Saïghi, Youssef Diawara, Alexia Strési, Jo Prestia

Parigi. Gerard Bedecarrax, ex detenuto tornato in libertà da poco, è il tramite di un affare tra bande rivali. L'acquisto di droga degenera però in un micidiale scontro a fuoco da cui è il solo ad uscire vivo, con una valigia piena di soldi. Il suo boss viene eliminato immediatamente e lui, grazie all'intercessione di un suo vecchio assistente sociale e amico, si rifugia all'"Esperance", centro per giovani delinquenti nella campagna dell'Aveyron, spacciandosi per educatore. Qui, dopo un periodo di turbolento adattamento, è raggiunto dallo spietato Ludo Daes, feroce capobanda accompagnato da scagnozzi armati fino ai denti: è guerra all'ultimo sangue.

Immagine inserita

Se qualche appassionato del genere si domandasse qual è il polar più spartano e carpenteriano girato dal 2000 ad oggi, la risposta sarebbe categoricamente "Total Western". Sesto lungometraggio di Denis Rochant, "Total Western" è infatti un polar intriso di poderose atmosfere alla Carpenter e titolate suggestioni western, evocate dall'ambientazione rurale ed enfatizzate dall'epico soundtrack di Marco Prince (anche attore nei panni di uno degli sgherri dello spietato Ludo Daes). Avvalendosi della collaborazione di Laurent Chalumeau in sede di sceneggiatura, il trentanovenne cineasta parigino squaderna una sinfonia per pistole automatiche e mitragliatrici in due atti: se la prima parte del film, dopo il "deal" di droga finito in carneficina, è dedicata alla caratterizzazione dei personaggi e alla descrizione d'ambiente (il centro di rieducazione "L'Esperance" nella biondeggiante campagna dell'Aveyron), la seconda è furibondo scontro a fuoco tra la falange di gangster e i ragazzi del centro che si difendono strenuamente, con l'intervento fuori programma di un gruppo di paramilitari capitanati da un colonnello in pensione che organizza simulazioni di guerra per fanatici neonazisti.

Immagine inserita

Lo script pullula di stereotipi (i delinquentelli beur strafottenti, la ragazza anoressica con tendenze suicide, l'educatore irrimediabilmente coglione, gli scagnozzi slavi) e situazioni implausibili (la pericolosità dei banditi è pari alla loro disarmante ingenuità, le raffiche di pallottole sono letali per alcuni e innocue per altri), ma la progressione drammatica è così ben necessitata e il ritmo così serrato che ogni considerazione sulla convenzionalità o l'inverosimiglianza passa inesorabilmente in secondo piano di fronte a tanta abilità nel gestire la concatenazione degli eventi. E, pur costretti nei limiti della macchietta, i personaggi sbozzati conquistano una loro sicura autonomia: la beurette dal coltello facile Farida (Kahena Saïghi) non teme le minacce e le violenze dei gangster, gli attaccabrighe Aziz e Kamel non ci pensano due volte a mettere i bastoni tra le ruote agli aggressori e il granitico Bédé (Samuel Le Bihan) si preoccupa prima della vita dei ragazzi e poi della propria, opponendo fiera e ragionata resistenza.

[img]http://images.google.it/url?q=http://img5.allocine.fr/acmedia/medias/nmedia/18/66/83/31/18958349.jpg&usg=AFQjCNGrx8LXazAN5S2VTnrOt6wOL1eGpw[/img]

L'impostazione del racconto non dà adito a dubbi: Rochant non intende dire niente di nuovo né sulla società né sul genere, ma questo suo approccio basico e frontale giova nettamente al film, che si ritaglia comunque lo spazio per punire gli intransigenti e i bellicosi (il primo a cadere è l'autoritario educatore ufficiale, seguito a ruota dai paramilitari neonazisti) e salvare i tolleranti e i reietti (a sopravvivere saranno proprio i responsabili del centro e tutti i ragazzi ospitati). Un'elementarità non priva di polemico manicheismo che, intensificata da fortori western, raggiunge momenti di gloriosità iperbolica, come nella morte crepuscolare dell'eroe guerriero Bédé. Un polar/neowestern rocciosamente esaltante: consigliatissimo.

[img]http://www.premiere.fr/var/premiere/storage/images/diaporama/total-western/total-western-1999/2134020-1-fre-FR/total_western_1999_diaporama_portrait.jpg[/img]
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#92 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 24 ottobre 2008 - 15:33

Regarde les hommes tomber (1994) di Jacques Audiard con Jean-Louis Trintignant, Jean Yanne, Mathieu Kassovitz, Bulle Ogier, Yvon Back

Simon, stagionato venditore di biglietti da visita et similia, è testimone involontario dell'omicidio di Mickey, un giovane poliziotto con cui ha un rapporto velatamente omosessuale. Contrariato dalla superficialità con la quale la squadra omicidi conduce l'inchiesta, decide di indagare da solo e, grazie alle informazioni di un "indicateur", riesce a risalire ai responsabili della morte di Mickey: si tratta del vecchio Marx, marginale da una vita col vizio del gioco, e di Johnny, giovane sprovveduto legato a Marx da una sudditanza psicologica totale.

Immagine inserita

Primo lungometraggio del figlio d'arte Jacques Audiard (il padre Michel è stato uno dei mostri sacri del cinema francese: ha messo lo zampino in più di 120 sceneggiature), "Regarde les hommes tomber" è un noir psicologico con intense sfumature omoerotiche che non sconfina mai nello psicologismo o nel sensazionalismo d'accatto. Adattamento del romanzo "Triangle" di Teri White (pubblicato nella gloriosa "Série Noire" Gallimard col titolo "Un trio sans espoir"), il debutto alla regia dell'ex montatore e sceneggiatore Jacques Audiard (classe 1952) è un avvolgente studio di caratteri alle prese con le difficoltà della vita e con l'improvviso manifestarsi di attrazioni sentimentali che spingono ad uscire dalla cosiddetta normalità. L'amicizia di Simon (Jean Yanne) per Mickey (Yvon Back) e l'attaccamento di Johnny (Mathieu Kassovitz) a Marx (Jean-Louis Trintignant), oltre a rappresentare forme oblique di omosessualità, sono il pretesto per mostrare la lacerante urgenza di sentimenti repressi e bollati dai benpensanti come "ambigui" e "morbosi".

Immagine inserita

Audiard racconta questo apologo sentimentale in chiave noir, scomponendo cronologicamente la narrazione: il film inizia dalla morte di Mickey per spiccare un poderoso salto all'indietro, soffermandosi sul primo incontro di Marx e Johnny (all'epoca ancora Frédéric), due sbandati che fanno l'autostop e si ritrovano casualmente nel vano posteriore di un furgone. Il giovane dropout si appiccica immediatamente allo scafato e zoppicante vagabondo, in cui riconosce una figura tra il paterno e il seducente: da questo momento in poi il film procede a zigzag tra presente (l'indagine di Simon) e passato (le vicissitudini dei due emarginati che per pagare i debiti di gioco finiscono per diventare killer), i piani temporali ricongiungendosi nel segmento finale.

Immagine inserita

Il quarantaduenne cineasta parigino gira maledettamente bene e, sospinto dalle cangianti musiche d'atmosfera di Alexandre Desplat, sciorina una messa in scena di rara accortezza e incisività: dettagli a non finire (scarpe, bocche, bastoni, cicatrici), ellissi sospensive (marcate da dissolvenze in nero di struggente intensità), accelerazioni vertiginose (l'inizio dell'indagine di Simon è mostrata quasi interamente "alla veloce") e dilatazioni riflessive (l'incipit e il finale incorniciano "esistenzialisticamente" il film) fanno di "Regarde les hommes tomber" un noir visivamente malioso e particolarmente attento alle sensazioni dei personaggi, testimoniando l'emergenza di un talento registico che confermerà le sue doti nei successivi "Un héros très discret (1996), "Sur mes lèvres" (2001) e "De battre, mon coeur s'est arrêté" (2004), remake, quest'ultimo, del mai troppo lodato "Fingers" (1978) di James Toback. Un noir d'autore, in definitiva, non eccessivamente incalzante dal punto di vista del ritmo ma estremamente sottile nel cogliere le pulsazioni psicologiche e sentimentali dei personaggi rappresentati. Trintignant è l'impero alla fine della decadenza: sublime.

Immagine inserita
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#93 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 28 ottobre 2008 - 15:33

L'angelo del male (La bête humaine, 1938) di Jean Renoir con Jean Gabin, Simone Simon, Fernand Ledoux, Julien Carette, Jean Renoir

Jacques Lantier (figlio di Auguste Lantier e Gervaise, della famiglia dei Rougon-Macquart) è uno scrupoloso macchinista ferroviario sulla tratta Parigi-Le Havre. Un giorno, a causa del surriscaldamento di un cilindro della locomotiva, è costretto a trascorrere il turno di riposo a Le Havre e ne approfitta per andare a Bréauté a trovare la madrina malata. Qui incontra anche la bella scontrosa Flore, baciando la quale è preda di un raptus che lo porta al quasi soffocamento della giovane: il suo sangue ha ereditato la tara dell'alcolismo che lo tormenta con tremende emicranie, spaventosi accessi di tristezza e furibondi attacchi di collera.

Immagine inserita

Inutile soffermarsi sugli innumerevoli meriti cinematografici (secchezza documentaristica, ritmo implacabile, recitazione infallibile) di una pellicola che a giusto titolo rientra tra i capolavori indiscussi della Settima Arte. Meglio invece concentrarsi sugli aspetti "protonoir" condensati nell'adattamento realizzato da Jean Renoir de "La Bête humaine", diciassettesimo libro della serie Rougon-Macquart di �mile Zola. Già perché, al di là degli aspetti legati alla concezione del naturalismo dello scrittore francese, "L'angelo del male" può a tutti gli effetti essere considerato un incunabolo del noir.

Immagine inserita

Se infatti lo sfondo rigorosamente determinista in cui si colloca la vicenda (la tabe ereditaria come portato biologico, l'estrazione proletaria come condizionamento sociale, il contesto che cospira armoniosamente alla repressione dell'individuo) deriva esplicitamente dall'opera di Zola (con tanto di didascalia iniziale che lo dice a chiare lettere), la dinamica narrativa squaderna elementi noir di profetica purezza. Come non vedere nella figura di Séverine (una Simone Simon di ineffabile rapacità) il prototipo della dark lady che distilla desiderio e maleficio? Come non ravvisare nel personaggio di Lantier (un Jean Gabin di vulnerata durezza) il precursore di tutti gli uomini inconsapevolmente soggiogati dalla femme fatale di turno? Come non cogliere nell'ineluttabile morsa della colpa che stritola i due amanti il destino cinico e baro così tipico del noir?

Immagine inserita

Ma c'è di più. Oltre a questi tratti drammatici, ne "L'angelo del male" si trova l'identificazione tra tentazione amorosa e progetto criminale (portata allo zenit sei anni dopo da "Vertigine" di Otto Preminger) e, soprattutto, la definizione di soggetti incontrollabilmente dominati dalle passioni: tutti i personaggi, anche quelli secondari, sono agiti da spinte pulsionali che li sovrastano e li obbligano a commettere gesti di cui dovranno pentirsi amaramente. E' questo l'autentico nucleo protonoir de "La Bête humaine", un nocciolo tragico che, variamente manipolato, offrirà al nascituro genere la possibilità di mettere in scena quella perdita del centro e quella inconfessata tendenza all'autodistruzione che costituisce il tratto alienante della modernità. Un'uscita da sé e dalla propria pseudorazionalità che non può che condurre alla maturazione di propositi più o meno larvatamente suicidi. Cupio dissolvi. E finalmente sorridere.

Immagine inserita
  • 1
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#94 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 29 ottobre 2008 - 17:28

Un onesto trafficante (Un honnête commerçant, 2002) di Philippe Blasband con Benoît Verhaert, Philippe Noiret, Yolande Moreau, Frédéric Bodson

Bruxelles, centrale di polizia. Un uomo sulla quarantina di nome Hubert Verkamen risponde alla convocazione nonostante sia domenica e viene sottoposto a un incalzante interrogatorio che si trasforma in un vero e proprio gioco d'abilità: l'ispettore Jean Denoote e "la commissaria" Chantal Bex cercano di incastrare Verkamen, maggior trafficante di stupefacenti della zona e sospettato dello sterminio di un'intera famiglia avvenuto giovedì sera, mentre l'uomo intende carpire informazioni sulla dinamica dell'esecuzione, dal momento che anche sulla sua testa pende un contratto di morte.

Immagine inserita

Evanescente polar cerebrale che ricalca le orme di "Guardato a vista" (1981) di Claude Miller, "Un honnête commerçant" (non si capisce perché il commerciante del titolo originale sia stato banalizzato in "trafficante") è il primo lungometraggio di Philippe Blasband, sceneggiatore di fiducia di Frédéric Fonteyne e di Sam Garbarski ("Irina Palm", per dire, è uscita dalla sua penna). La rimasticatura del "Kammerpolar" di Miller non produce nulla di realmente nuovo né di particolarmente incisivo, limitandosi ad aggiornare esteriormente il modello (non più delitti di pedofilia ma esecuzioni legate al commercio di droga) e a moltiplicare i flashback rivelatori (con qualche spruzzata di sangue e grottesco a scuotere dal torpore).

Immagine inserita

A dire il vero il polar di Blasband avrebbe l'intenzione di esplicitare il sottotesto politico che innerva il film di Miller (il testa a testa tra l'ispettore di estrazione popolare e il sospettato borghese), enfatizzando i riferimenti all'economia generale (il traffico di stupefacenti come ultimo rifugio del sogno capitalista) e calcando la mano sui segni esteriori che connotano socialmente i personaggi (Verkamen punzecchia Jean dicendogli sprezzantemente che indossa vestiti da misero ispettore). Ma anche in questo caso la politicizzazione esplicita non genera alcuno scatto drammatico né alcun approfondimento tematico, limitandosi a rappresentare il solito dualismo tra il villain avido e amorale contrapposto ai buoni umili e giusti.

Immagine inserita

A complicare il manicheismo di fondo dovrebbe provvedere da una parte la scorrettezza dell'interrogatorio (telecamere a circuito chiuso e coinvolgimento di un poliziotto-esca all'oscuro di tutto) e dall'altra la presenza di un trauma nella vita affettiva del criminale (Verkamen è stato piantato dalla moglie e da quel momento non è più riuscito ad avere relazioni): della serie "i poliziotti non sono degli stinchi di santo" e "anche i criminali hanno un cuore". Accontentarsi di espedienti simili sarebbe pure possibile se il film li magnificasse visivamente o li sfruttasse drammaticamente, invece restano inerti diversivi sovrastrutturali (e qui si sente la natura di sceneggiatore di Blasband) incapaci di generare ricadute profonde.

Immagine inserita

Messa in scena: tra "primopianismo" negli interni e "campolunghismo" negli esterni, la regia del cineasta belga di origine iraniana non regala sorprese, trovando però accenti di suggestività nell'illuminazione marcata (sia nei biancori che nei chiaroscuri) e in un accompagnamento musicale elettricamente distorto. Ultima e doverosa osservazione per le interpretazioni: se i due poliziotti sembrano usciti da un serial televisivo e Philippe Noiret (nei panni del boss maestro di vita) è spudoratamente gigione, Benoît Verhaert riesce a infondere la doppiezza necessaria al suo personaggio (soprattutto nel ruolo di manipolatore), finendo per portarsi sulle spalle tutto il peso di un film narrativamente derivativo e vagamente scolastico. In una parola, inessenziale.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#95 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 31 ottobre 2008 - 19:02

Six-Pack (2000) di Alain Berbérian con Richard Anconina, Frédéric Diefenthal, Jonathan Firth, Chiara Mastroianni, Bernard Fresson

Nathan (Anconina), un detective di mezza età affiancato dal più giovane e tecnologico Saule (Diefenthal), indaga sugli omicidi di un serial killer che semina il terrore per le strade di Parigi. Arrivato a quota 5, l'assassino segue un modus operandi tanto macabro quanto invariabile: squarta le vittime con un pugnale, le sdenta e si masturba con la loro bocca. Nonostante le minuziose ricerche, i due poliziotti non fanno passi avanti, sicché Nathan chiede aiuto a Paul (Fresson), proprietario di una libreria specializzata in materia, che lo indirizza da un celebre detective di Chicago attualmente fuori servizio in seguito alla cattura di un pericoloso criminale chiamato "Daddy Harry". L'ex cop McPherson è certo: si tratta di "Six-Pack", un assassino che ha già colpito negli Stati Uniti e di cui si sono perse le tracce proprio da quando sono iniziati gli omicidi in Francia. Sollevato dall'incarico per manovre politiche, Nathan decide di andare avanti lo stesso, tendendo una trappola al serial killer: Marine (Mastroianni), una donna sola ma continuamente sorvegliata da lui e dal collega, dovrà attirare l'attenzione dell'assassino e farsi abbordare facilmente.

Immagine inserita

Il polar flirta col thriller made in USA. "Six-Pack" non è un gran film ed è piuttosto maldestro nell'assimilazione degli stilemi del "crime movie" statunitense, ma è indubbiamente importante nella storia recente del genere francese, rappresentando, insieme a "Scènes de crimes" di Frédéric Schoendoerffer, il primo tentativo del polar francese di metabolizzare elementi e convenzioni narrative del thriller americano. Uscito nel 2000 a pochi giorni dal citato film di Schoendoerffer, "Six-Pack" è il terzo lungometraggio di Alain Berbérian (classe 1953), già autore di commedie quali "La Cité de la peur" (1994) e "Paparazzi" (1998).

Immagine inserita

Tratto dall'omonimo romanzo di Jean-Hugues Oppel, il film di Berbérian tenta di innestare la tensione narrativa dei modelli statunitensi (De Palma, Friedkin, Demme, Mann) sulla sensibilità autoctona (fatta di atmosfere stagnanti e sfumature umane), giocando tutte le carte possibili: omicidi morbosi, indagini fuori ordinanza, pedinamenti asfissianti, inseguimenti a rotta di collo e persino una trasferta a Chicago con tanto di visita al serial killer incatenato in candida cella. Attenzione: non si tratta di banale scimmottatura, ma di trapianto (teorizzato ed enunciato nel film stesso dalla figura del proprietario della libreria noir) dei codici del thriller in territorio francese. Operazione simile a quella compiuta da Frédéric Schoendoerffer nel coevo "Scènes de crimes", ma con tratti sensibilmente diversi: se il polar di Schoendoerffer adottava il realismo procedurale dei polizieschi statunitensi raggiungendo momenti quasi documentaristici, Berbérian, senza dubbio molto meno dotato del suo più giovane collega, ne assume soltanto i parafernali, vale a dire gli elementi più vistosi ed esteriori, facendo del suo film una galleria di "cliché delocalizzati".

Immagine inserita

Ecco allora Parigi svuotarsi all'improvviso e trasfigurare in teatro irreale dell'omicidio, ecco gli uffici di polizia tramutarsi in stanze asettiche dove i tecnici svolgono il loro lavoro davanti a infallibili computer ed ecco, infine, il lavoro sul campo essere trasformato in una corsa contro il tempo per evitare che l'assassino compia l'ennesimo delitto (non può non venire in mente il conto alla rovescia di "Manhunter"). Sedotta da troppi riferimenti, la messa in scena di Berbérian è per forza di cose derivativa e disomogenea, oscillando confusamente da un modello all'altro: se la coreografia degli omicidi è di chiara marca depalmiana (al pari dei barocchismi luministici e del soundtrack "à la" Bernard Herrmann), la rappresentazione della metropoli tradisce un'impronta inconfondibilmente friedkiniana ("Il braccio violento della legge", "Vivere e morire a Los Angeles"), mentre l'alternanza tra le azioni delittuose del serial killer e la caccia all'uomo dei poliziotti è puro calco demmiano ("Il silenzio degli innocenti", ovviamente). In definitiva, "Six-Pack" è un film che, se preso a sé stante, risulta piuttosto raccogliticcio e scomposto, ma se inserito nel contesto della trasfusione di elementi thriller nel corpo del polar, si ritaglia un ruolo di pionieristica importanza accanto al ben più controllato e incisivo "Scènes de crimes" di Frédéric Schoendoerffer.

Immagine inserita

PS- Il significato del titolo, che richiama le confezioni da sei lattine di birra, è un'espressione proveniente dalle riprese di film porno e riguarda quelle ragazze che accettano due uomini alla volta. Espressione successivamente passata nello slang per designare le ragazze che si concedono con grande facilità.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#96 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 01 novembre 2008 - 16:55

J'ai toujours rêvé d'être un gangster (2007) di Samuel Benchetrit con Anna Mouglalis, Edouard Baer, Jean Rochefort, Jean-Pierre Kalfon, Laurent Terzieff, Venantino Venantini, Roger Dumas, Alain Bashung, Arno, Bouli Lanners, Serge Larivière, Selma El Mouissi

Immagine inserita

Quattro episodi più un epilogo orbitanti attorno ad una caffetteria sulla Nazionale 17.

1. "Drew Barrymore fait penser à un hamburger": uno sgangherato rapinatore (Baer) entra nella caffetteria con l'intenzione di rapinarla. Snobbato dalla barista (Mouglalis), ordina un caffè e consultando il menù disapprova la scelta di associare il nome di Kim Basinger a un cheeseburger: ci sono molte attrici decisamente più adatte a rappresentare quel piatto. La cameriera, concordando con lui, replica dicendogli che è stata assunta da due soli giorni e che non è stata lei a decidere l'abbinamento.

Immagine inserita

2. "Pourquoi tu veux mourir, petite?": due rapitori maldestri (Lanners e Larivière) si intrufolano nella camera della figlia adolescente con tendenze suicide (Mouissi) di un ricco imprenditore e la rapiscono. Telefonano al padre lasciandogli un messaggio nella segreteria telefonica: per riavere la figlia dovrà consegnare loro 500.000 euro al parcheggio della caffetteria alle 23. Dopo aver scongiurato un tentato suicidio della ragazzina, i due si recano all'appuntamento, ma non si presenta nessuno...

Immagine inserita

3. "Oh, Gaby!": nei bagni della caffetteria si incontrano, orinando, due vecchi cantanti (Arno e Bashung) ancora sulla cresta dell'onda. Bere qualcosa insieme è l'occasione per rinfacciarsi soavemente scorrettezze reciproche.

Immagine inserita

4. "C'est fou comme tout change!": quattro vecchi gangsters (Rochefort, Terzieff, Kalfon e Venantini) si recano in ospedale per prelevare il loro socio moribondo (Dumas) e farlo spegnere, secondo le indicazioni date loro quasi trent'anni prima, in un nascondiglio nella foresta. Ma il gangster malato si sveglia durante il tragitto sostenendo di non avere nulla di grave. Risollevati e riuniti dopo tanto tempo, i cinque decidono comunque di dirigersi al rifugio, solo che al suo posto sorge la caffetteria 17. Qui i vecchi truand concepiscono l'ultimo colpo: una rapina ad una banca già svaligiata tre volte.

Immagine inserita

Epilogo. "On se connaît, non?": il rapinatore e la cameriera del primo episodio riprendono la conversazione interrotta e realizzano di essersi già incrociati qualche giorno prima: lui era in fuga dalla polizia e lei lavorava al casello dell'autostrada...

Immagine inserita

Stralunata parodia dei gangster movie girata con deliberato pauperismo, "J'ai toujours rêvé d'être un gangster" è il secondo lungometraggio di Samuel Benchetrit, già autore della commedia stravagante "Janis et John" (2003). Il cineasta e romanziere francese (classe 1973) gioca con i cliché del noir con impagabile leggerezza, mettendo in scena quattro episodi di canagliesca ironia senza rinunciare a un retrogusto amaro e malinconico che trae partito da un argenteo bianco e nero e da un soundtrack di miracolosa eleganza composto da Dimitri Tikovoi. Se il titolo cita quasi alla lettera una frase pronunciata da Ray Liotta in "Quei bravi ragazzi" di Martin Scorsese, la comicità "deadpan" e il tono surreale dei racconti evocano atmosfere alla Jarmusch (da "Stranger Than Paradise" a "Coffee and Cigarettes") o situazioni assurde alla Kaurismäki (da "Leningrad Cowboys Go America" a "Juha"). Eppure, nonostante la sensazione di déjà-vu non sia del tutto assente, col passare dei minuti il film di Benchetrit si ritaglia uno spazio tutto suo: la cinepresa non è mai dove ti aspetti che sia (i punti macchina variano sistematicamente in controtempo emotivo), gli attori recitano con divertito distacco (anche il gigione Rochefort è tenuto provvidenzialmente a bada) e l'impaginazione narrativa pullula di invenzioni micidiali (intermezzi slapstick, minuscoli scatti di montaggio, improvvisi freeze frame glorificati dalla voce over). E, soprattutto, una sbalorditiva varietà di registri che non disdegna affondi sontuosamente malinconici: il finale del quarto episodio abbandona i toni della parodia e sposa con convinzione quelli della toccante elegia crepuscolare, magnificata da maestosi campi lunghi e squarci ambientali di austera melancolia. Un gioiello di giubilatoria raffinatezza laminato in un bianco e nero semplicemente sublime. Puro incanto cinéphile.

Immagine inserita
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#97 Guest_eustache_*

  • Guests

Inviato 01 novembre 2008 - 22:41

non so se è già stato citato
tra i miei noir preferiti in assoluto (non solo tra quellio francesi)
c'è
Que la bête meure, Ucciderò un uomo di Claude Chabrol (1969, 114')
Immagine inserita

tratto dal romanzo The Beast Must Die dello scrittore inglese Nicholas Blake è una raffinata rilettura del revenge movie.

Immagine inserita

la vendetta è quella dello scrittore francese Charles Thenier (Michel Duchaussoy), e il film è il resoconto della sua caccia ossessiva: un viaggio che percorre la campagna francese, passando per Parigi, per finire in Bretagna
continui riferimenti al tema del doppio in relazione a quello della colpa. citazioni letterarie mai compiaciute e mai fuori luogo. una delle rappresentazioni più abominevoli di un villain che si sia mai vista, interpretato da Jean Yanne...
piccolo comparsa del regista Maurice Pialat
capolavoro d'autore e di genere
  • 0

#98 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 11 novembre 2008 - 12:07

Sulle mie labbra (Sur mes lèvres, 2001) di Jacques Audiard con Vincent Cassel, Emmanuelle Devos, Olivier Gourmet, Serge Boutleroff

Carla Bhem (Devos), segretaria trentacinquenne affetta da una sordità che la obbliga all'uso di un apparecchio acustico, è scarsamente considerata dai colleghi dell'agenzia immobiliare in cui lavora. In seguito ad uno svenimento da surmenage, il principale le propone di farsi affiancare da uno stagista che la assista nel lavoro di segreteria. La donna si reca all'ufficio di collocamento per richiedere la figura professionale adatta e qualche giorno dopo si presenta al suo ufficio Paul Angéli (Cassel), un venticinquenne dai modi evasivi scontrosi che cerca di reinserirsi dopo aver fatto un paio d'anni di carcere. L'iniziale diffidenza tra i due si scioglie progressivamente in un'intesa che li porta a scambiarsi favori reciproci: Paul aiuterà Carla a guadagnare visibilità nell'agenzia immobiliare e Carla aiuterà Paul ad appropriarsi del bottino di un colpo architettato dal proprietario di una discoteca (Gourmet).

Immagine inserita

Noir sensoriale magnificamente interpretato da Emmanuelle Devos e Vincent Cassel, "Sulle mie labbra" è il terzo lungometraggio di Jacques Audiard, già autore dei rimarchevoli "Regarde les hommes tomber" (1994) e "Un héros très discret" (1996). Il modo di girare di Audiard è assai diverso dalle prove precedenti: se l'attenzione ai dettagli e alle sfaccettature narrative caratterizzava anche gli altri due film, qui il cineasta parigino esaspera i tratti nervosi e scattanti del suo cinema. La messa in scena si fa più nevrotica e vibrante, la cinepresa fruga negli ambienti come se dovesse stanare i particolari significativi e il montaggio crea una sintassi di fulminante asciuttezza.

Immagine inserita

L'impressione generale che ne deriva è quella di uno sguardo che spia ininterrottamente, a caccia di indiscrezioni, rivelazioni e informazioni segrete. Una sonda visiva che sopperisce al deficit uditivo con un'ipertrofia ottica di irrequieta avidità. I due marginali Carla e Paul, entrambi iperattivi e mortificati dal contesto in cui operano, escogitano strategie di sopravvivenza che devono necessariamente sconfinare nella scorrettezza e nell'illegalità: il sabotaggio di un collega per lei e un furto con destrezza per lui sono le uniche chance di riscatto in una realtà che li ignora e offende sistematicamente. La complicità nutre il desiderio: tra i due si stabilisce una tensione erotica a corrente alternata che complica sentimentalmente i loro piani, oscillando tra generosità e sfruttamento.

Immagine inserita

La manipolazione non è univoca: entrambi utilizzano l'altro per il proprio tornaconto. Carla costringe Paul a rubare un dossier dalla macchina del collega e Paul obbliga Carla ad appostarsi sul tetto di un caseggiato e spiare i labiali della banda che sta organizzando una rapina per poi soffiare loro il malloppo. Ma l'intrigo noir è solo un pretesto per sbalzare vigorosamente i personaggi, per mostrare i loro caratteri in azione, facendo emergere le loro personalità attraverso i comportamenti. Oltre ad essere regista di enorme talento visivo, Audiard è sceneggiatore di razza: coadiuvato in questa occasione dal romanziere Tonino Benacquista (autore del pregevole "La commedia dei perdenti" edito in Italia da Ponte alle Grazie), schiva agilmente psicologismi e prolissità, orchestrando un crescendo di hitchcockiana stringatezza e lasciando finalmente sfociare la tensione erotica in un epilogo di infuocata sensualità. Il noir al servizio dei personaggi.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#99 corey

    mainstream Star

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 1732 Messaggi:

Inviato 15 novembre 2008 - 21:15

Il bandito della Casbah (Pépé le Moko, 1937) di Julien Duvivier con Jean Gabin, Lucas Gridoux, Mireille Balin, Line Noro

Immagine inserita

E' l'unico "noir puro" (intreccio criminale + dinamiche poliziesche + caratterizzazione dell'antieroe marginale) della stagione del Realismo Poetico. La regia di Duvivier (spesso tacciato di abile tecnicismo innamorato dei suoi effetti) è semplicemente strepitosa: generosa ma non barocca, esotica ma non accattivante, dinamica ma non caotica. Gabin monumentale: la sua pacatezza noncurante che s'infiamma improvvisamente in collera incontenibile prefigura, pur rimanendo inimitabile, la rabbia compressa di Lino Ventura o la lapidaria tensione di Lee Marvin. "Pépé le Moko" è film epocale per almeno un miliardo di motivi:
1- l'ambientazione in una Casbah-patchwork che incolla con rudimentale sfacciataggine pezzi di Algeri, Marsiglia e location rigorosamente ricostruite in studio;
2- la sottile attrazione/repulsione che lega Pépé (Gabin) all'ispettore Slimane (Gridoux), l'attendismo del quale ha un acre retrogusto dostoevskiano;
3- la nostalgia per Parigi che s'incarna nella "femme lumière" Gaby (Balin);
4- la galleria di truands che circonda Pépé come un coro tragico incanaglito in feccia;
5- la lenta degenerazione della Casbah da luogo di libertà e impunità a carcere a cielo aperto;
6- il progressivo disfacimento fisico e psicologico di Pépé, che da dominatore dello spazio si rimpicciolisce a ometto soffocato dall'ossessione evasiva e da una passione intrisa di masochismo;
7- il virtuosismo delle riprese che fa di ogni sequenza un pezzo di bravura e di originalità (la presentazione iperframmentata della Casbah in apertura, l'esecuzione "alla pianola meccanica" dell'untuoso informatore Régis, le folli e surreali discese in città di Pépé, lo stupefacente carrello finale in avanti su Gaby);
8- la rappresentazione dei turisti francesi che visitano Algeri per vampirizzarla folkloristicamente e liquidarla con una frasetta impacchettante ("In ogni caso io mi sono molto divertita e tuttavia ho sempre trovato il sole di un triste.")
9- l'amicizia fraterna/filiale tra Pépé e il giovane Pierrot (Gilbert Gil, straordinariamente somigliante a Jean-Pierre Léaud)
10- lo splendido e doloroso ritratto di Inès (Noro), donna che tradisce per soverchio d'amore nei confronti di un uomo sfuggente come un'anguilla e prepotente come un tiranno.
E, su tutto, una canzonetta di impudente solarità ("Que faut-il?") che "le Moko" (termine gergale che indica un uomo proveniente da Marsiglia) intona alla vigilia di un appuntamento galante con Gaby. Un film seminale, ça va de soi.
  • 0
i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#100 bluetrain

    Fourth rule is: eat kosher salamis

  • Members
  • StellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStellettaStelletta
  • 7478 Messaggi:

Inviato 25 novembre 2008 - 14:06

Sta partendo in edicola una serie sul noir classico (prevalentemente) francese.
A chi fosse interessato, ecco i titoli (dovrebbe poi esserci una seconda serie, per un totale di 35 titoli):

01 Il clan dei siciliani
02 I senza nome
03 Notte sulla città
04 I diabolici
05 Frank Costello Faccia d'Angelo
06 Maigret e il caso Saint Fiacre
07 Maigret e i gangsters
08 Ascensore per il patibolo
09 La piscina
10 Guardato a vista
11 36 Quai Des Orfevres
12 Il commissario Pellissier
13 Delitto Dupré
14 Il più grande colpo del secolo
15 Lâ??angelo del male
16 Rififi
17 Orso di peluche
18 Si salvi chi può

  • 0




0 utente(i) stanno leggendo questa discussione

0 utenti, 0 ospiti, 0 utenti anonimi