Ma non mi pare che le obiezioni fossero queste. Si faceva solo presente che, così come il film di Argento presta agevolmente il fianco a critiche di coerenza narrativa, quello di Guadagnino fa altrettanto con ciò che è stato detto "ridicolo involontario". E nello stesso modo in cui lo smantellamento della logica è il quid del cinema di Argento, la scomposizione dei codici dell'orrore lo è del film di Guadagnino, che cerca costantemente un pertugio per infilarsi nelle trame di Suspiria (1977), osservandolo, studiandolo, dissezionandolo, cogliendone i temi sottesi, i riflessi di contemporaneità, le deliziose lungaggini, le pulsioni squisitamente pacchiane e, in generale, tutto ciò che sta - o può stare - dietro sopra sotto al capolavoro argentiano. E lo fa, beninteso, con la passione del critico, col piglio di Tom Stoppard che fa un buco nelle pareti di carta del castello di Elsinore e vi intrufola costantemente i poveretti Rosencrantz e Guildenstern. Sul fatto che il lavoro sui materiali dell'orrore pecchi di visionarietà sono parzialmente d'accordo, ma, non essendo questo il punto del film (così come la coerenza o il buon gusto non lo sono di quello di Argento) mi pare pretestuoso battere sul tasto.
In ogni caso, più che antipatia preconcetta credo sia una pura questione di inclinazione. Mi pare si sia tutti d'accordo che Guadagnino abbia voluto fare un film d'Autore, ossia intelligente, ossia consapevolmente artistico, ossia legittimamente antipatico [*]. Non vedo, però, come questo punto possa volgersi in critica al film - che a me, per inciso, è piaciuto - quando tutte le cose buone che lo abitano trovano la propria origine appunto in questo atteggiamento preliminare. E' in qualche misura il film di un critico, di un teorico del cinema, più che di un regista ed è, del resto, cosa che si potrebbe dire dell'opera omnia di Guadagnino, ma in questo trasferimento di ruoli mi pare che il film, giovandosene, vada ad ammantarsi di una superficie alquanto seducente. Come ha detto Tom, questo Suspiria è (innegabilmente?) affascinante nella resa di una Berlino uggiosa, di interni lugubri e spazi dissezionati da un montaggio ben curato.
Detto questo, il film ha pure (innegabilmente?) i (molti) difetti che gli avete trovato - la coreografia, però, no, quella è splendida ed è uno degli ingressi a gamba tesa sull'originale che ho preferito - ma vorrei tentare l'esercizio di vedere in quest'abbondanza di apparenti imperfezioni una delle ragioni alla base del suo fascino. In ciò, parto ovviamente dal presupposto che il film mi ha incuriosito e stimolato sin dall'incipit e se ora mi impegno a difenderlo non è per pagar dazio all'intellighenzia del cinema italiano, ma per salvare (e spiegarmi) quell'originaria impressione. Ora, il numero di segn(al)i che Guadagnino lascia cadere qua e là per tutto il film è stupefacente: gli stacchi argentiani sul dettaglio, le plongée, le zoomate anni 70, gli innesti zulawskiani, il corto fassbinderiano in Germania in autunno, il Muro, il terrorismo, la Banda Baader-Meinhof, il nazismo, la psicanalisi, Freud, Jung, l'inconscio collettivo, LTI: Lingua Tertii Imperii, i giochi di ruolo (la Swinton una e trina). Se dicessi che ognuno di questi riferimenti sia ben calibrato e trovi il suo preciso posto nell'architettura filmica mentirei, senz'altro. A ben vedere, però, è proprio nell'affastellarsi senza tregua dei richiami, nel loro rimare internamente l'uno con l'altro e nel continuo prodursi in forma di riflessi che si scopre quella vertigine che ci coglie durante la visione. Il gioco di mettere ordine in questo flusso di coscienza temo che non porterebbe da nessuna parte o, comunque, non produrrebbe alcuna epifania, perché il valore del film è proprio nel suo non essere componibile: un labirinto da cui non si esce. Rimane, ora, da capire come un affastellarsi casuale di elementi spuri possa ragionevolmente generare questo fascino. La ragione è che, al netto della confusione e della probabile impossibilità di comporre un quadro, gli elementi messi in gioco non sono casuali e si rispecchiano l'uno sull'altro in un gioco di rimandi e connessioni terribilmente fitto. Perché la psicanalisi? Perché l'inconscio è in qualche misura l'ammesso substrato delle fantasie argentiane e allora il dottor Klemper e allora la Swinton che si triplica e si fa ego/es/super-ego. Perché il terrorismo? Perché è il dichiarato sfondo delle pellicola originale - non nel senso che ve ne si trovi traccia internamente al film, ma per dichiarazione dello stesso regista lo stato di inquietudine e allerta vissuti a Monaco durante la preparazione gettava ombre di sospetto "circa la maledizione delle streghe che sembrava aleggiare su tutti noi" [**] - e allora l'autunno caldo tedesco diviene il riflesso di una crisi politica interna alla congrega stregonesca. Un archetipo junghiano? E via di psicoanalisi.. Ribadisco che in questo calderone di risonanze credo sia difficile trovare una soluzione soddisfacente che ricomponga univocamente il quadro: è il difetto e al contempo il pregio del film, che riesce, incrociando teoria e immagine, a stimolare continui tentativi di esegesi. Legittimo rifiutarlo, ma, tenuto conto che questa era la scommessa di Guadagnino, mi sembra difficile dire, al netto dei molti e innegabili difetti, che non l'abbia vinta.
[*] Non credo, però, vi sia in questo della boria precostituita.
[**] Paura, Dario Argento, pag. 208: che il riferimento sia reale o inventato, compresa la trovata kinghiana di sospettare una vera maledizione stregonesca sul film, è abbastanza irrilevante. Guadagnino guarda certamente alla storia, ma soprattutto al racconto di questa nella prospettiva di Argento.