Covid più grave con la variante inglese, ma forse primi segnali di immunità di gregge Cerchiamo conferma nei dati italiani a due studi condotti in Uk, indagando parallelamente sui motivi della mancata esplosione dei nuovi casi e sulla frenata improvvisa dell'epidemia
La diffusione della variante inglese, ormai prevalente in Italia, mostra segni di un chiaro peggioramento delle manifestazioni cliniche della malattia: che coinvolgono sempre più spesso pazienti anche al di sotto dei 50 anni. Per contro lo sviluppo dell'epidemia appare frenato rispetto alle cosiddette “ondate” precedenti: senza che una giustificazione possa essere trovata (a meno di non ricorrere a quello che abbiamo chiamato “il paradosso del denominatore fantasma”) nelle misure di contenimento scattate come sempre in ritardo, o nell'effetto delle vaccinazioni che sono ancora troppo poche per avere ricadute sul numero dei contagi.
Analizzeremo la situazione focalizzandoci, per la parte relativa alla manifestazione clinica della varianti, su due elementi base:
1) I nuovi ingressi in terapia intensiva e la loro variazione rispetto al totale dei contagiati nel corso del tempo.
2) La distribuzione percentuale delle manifestazioni dell'infezione nei positivi rilevati (asintomatici; paucisintomatici; con forma lieve; con forma severa; con forma critica).
Per quanto riguarda invece la crescita del contagio utilizzeremo i confronti con le fasi espansive precedenti (in assenza della variante inglese) che, anticipiamo, potrebbero giustificare un numero di contagiati molte volte superiore a quello che abbiamo registrato con i dati ufficiali. E, di conseguenza, un possibile primo effetto di una parziale immunità di gregge ritenuta ancora molto lontana prendendo come validi i numeri finora disponibili.
La situazione epidemiologica attuale
Iniziamo come sempre da una rapida analisi della situazione attuale dell'epidemia in Italia: mentre scriviamo, i primi 5 giorni (20-24 marzo) della settimana epidemiologica in corso segnalano 97.869 nuovi casi, con una media giornaliera di 19.573, contro 106.099 e una media giornaliera di 21.219 dei primi 5 giorni (13-17 marzo) della settimana precedente. La riduzione (-7,7%) segnala per la prima volta dopo 4 settimane consecutive un'inversione di tendenza: inversione attesa, come avevamo anticipato nel commento quotidiano dello scorso 15 marzo.
Per gli appassionati della caccia al momento di picco, potrebbe essere arrivato: anche se questa epidemia ci ha insegnato che, dopo la prima fase dello scorso marzo, le riprese del contagio hanno disegnato lunghi plateau invece di picchi veri e propri. Vedremo nei prossimi giorni come si svilupperà la curva del contagio in questa occasione.
Segnaliamo subito un'anomalia, che tratteremo meglio nella parte dedicata al paradosso del denominatore, che differenzia l'ultima ripresa dell'epidemia dalle precedenti: la fase di crescita è stata repentina, ha sviluppato numeri largamente inferiori a quelli che sarebbe stato logico attendersi e, non ultimo, ha iniziato a ripiegare in modo apparentemente autonomo e indipendente dalle misure di mitigazione.
Questi segnali positivi non possono far dimenticare altri due elementi critici, che condizionano la valutazione della fase epidemica e sconsigliano un rapido allentamento delle misure in atto:
1) La pressione sugli ospedali resta a livelli di allarme: secondo i dati ufficiali di Agenas alla sera del 24 marzo l'occupazione dei posti letto in terapia intensiva, a livello nazionale, era del 39%. Quindi oltre la soglia di allerta del 30% indicata dal ministero della Salute. Oltre soglia anche l'occupazione dei posti letto in area medica, che raggiungono il 43% contro un livello di allerta fissato al 40%.
2) Il numero dei decessi resta molto elevato: 2.098 nei primi 5 giorni della settimana in corso, con una media giornaliera di 419 che se confermata porterebbe a 12.570 decessi nell'arco di 30 giorni.
Stiamo “giocando” con questi numeri, quando parliamo di riaprire tutto e il più rapidamente possibile: lo abbiamo sottolineato più volte, è bene non dimenticarlo.
A proposito dei due punti precedenti aggiungiamo due considerazioni:
1) Per quanto riguarda le terapie intensive ricordiamo che il dato di occupazione media dei posti letto fotografa una situazione migliore (molto migliore) di quella che si vive negli ospedali nella realtà quotidiana. Infatti è impossibile distribuire i pazienti Covid su tutti i posti letto disponibili: un singolo soggetto positivo, che non può essere ricoverato insieme a pazienti non-Covid, di fatto causa la saturazione di un intero reparto di intensiva e obbliga i sanitari a trasferire tutti gli altri pazienti in una struttura critica Covid-free. È facile capire come questo gioco di incastri si complichi al crescere dei numeri, mettendo in crisi i reparti di terapia intensiva molto più di quanto non dica il dato medio di occupazione.
2) A proposito dei decessi continuiamo a sottolineare la pesantezza del dato italiano nel contesto internazionale: nell'ultima settimana, a causa della Covid-19, abbiamo registrato una media di 4,7 morti per 100.000 abitanti, contro i 2,7 della Francia, l'1,6 della Germania e lo 0,9% di Uk. Solo in quest'ultimo Paese possiamo rilevare una situazione diversa dalla nostra, legata all'alto numero di vaccinati rispetto alla popolazione totale.
Quindi non stiamo facendo male, ma malissimo. E la situazione delle terapie intensive potrebbe essere una delle spiegazioni all'attuale eccesso di letalità rispetto ad altri Paesi, oltre che all'eccesso di mortalità nella popolazione generale: ricordiamo infatti che l'ultima indagine Istat/Iss registra un'eccedenza di 34.019 decessi, nel solo periodo marzo dicembre 2020, rispetto ai 74.159 ufficiali attribuiti alla Covid-19.
La variante inglese è più letale del ceppo originario di Wuhan?
La domanda, per essere posta correttamente, dovrebbe essere: la variante inglese (o del Kent) è più letale di quella chiamata DG614? Anche se potrebbe sembra un dettaglio tecnico di poca importanza, in realtà non lo è. Perché quella sigla, DG614, ci ricorda che in Europa non abbiamo avuto a che fare con il ceppo originario di Wuhan, bensì con una sua variante più aggressiva: chiamata, appunto, DG614. Insomma, abbiamo convissuto per mesi con una variante per poi prendere quella inglese come se fosse la prima in assoluto.
Dettagli, o forse solo una corretta informazione che sarebbe bene conoscere.
In ogni caso la risposta sembra essere affermativa: la variante inglese è più grave e più letale. Al proposito citiamo due differenti e interessantissimi studi recentemente pubblicati su British Medical Journal (10 marzo 2021) e su Nature (15 marzo). Rimandando alla lettura integrale chi fosse interessato, ne riassumiamo il contenuto.
Dal primo, condotto su due gruppi statisticamente significativi, emerge un incremento del rischio di morte del 64% (intervallo di confidenza 95%: 32-104%) legato alla variante inglese rispetto a quelle circolanti in precedenza: da 2,5 a 4,1 decessi per 1.000 casi individuati.
Dal secondo, condotto analizzando i dati derivati da 2.245.263 test diagnostici positivi e 17.452 decessi tra il 1° settembre 2020 e il 14 febbraio 2021, emerge un incremento del rischio del 55% (intervallo di confidenza 95%: 39-72%).
Risultati molto simili, che offrono un'indicazione importante sulla reale pericolosità della variante inglese. Nel nostro Paese non sono state condotte analisi simili, che in Uk sono state rese possibile dall'altissimo numero di sequenziamenti virali che vengono costantemente effettuati ormai da mesi: solo attraverso il sequenziamento virale, infatti, è possibile determinare con precisione da quale ceppo il singolo soggetto sia stato infettato.
Abbiamo quindi cercato di capire se tra i pochi dati disponibili nel nostro Paese (e quasi mai con le serie storiche interamente ricostruibili) ce ne fossero alcuni in grado di restituirci una possibile risposta alla stessa domanda. Ci siamo dunque focalizzati su due indicatori differenti:
1) Il numero dei nuovi ingressi giornalieri in terapia intensiva.
2) La distribuzione percentuale, per fasce di età, delle manifestazioni cliniche della malattia.
Procediamo con ordine.
Nuovi ingressi in terapia intensiva: in crescita rispetto al passato
In questo caso il presupposto di base è che l'ingresso nei reparti di terapia intensiva avvenga 14 giorni dopo il momento dell'infezione, calcolando un periodo di 4-7 giorni perché si verifichino le prime manifestazioni cliniche e altri 7-10 giorni prima che l'aggravamento del paziente ne richieda il ricovero in area critica. Intervalli temporali che abbiamo ricavato dalla media comunemente accettata in base alle esperienze cliniche sul campo.
Abbiamo quindi individuato tre diversi periodi di rilevazione. Il primo a inizio dicembre, quando la variante inglese non era ancora stata rilevata: si tratta anche del primo periodo in cui (a partire dal 3 dicembre) i dati ufficiali hanno iniziato a riportare il dato giornaliero dei nuovi ingressi in terapia intensiva, che in precedenza non venivano comunicati. Il secondo periodo tra fine gennaio e inizio febbraio, quando la circolazione della variante inglese veniva stimata intorno al 20% sul totale dei positivi. Il terzo nella settimana epidemiologica 15-21 marzo: la variante inglese, secondo l'ultima rilevazione condotta dall'Iss, era ormai prevalente e aveva raggiunto il 54% del totale dei nuovi casi già alla data del 18 febbraio.
Vediamo il dettaglio dei risultati ottenuti:
1) Nuovi ingressi in terapia intensiva nella settimana epidemiologica 5-11 dicembre 2020: 1.289. Il dato riflette i contagi avvenuti nel periodo 21-27 novembre 2020: 192.474. Ha richiesto un trattamento di terapia intensiva lo 0,6% dei soggetti positivi. Variante inglese assente.
2) Nuovi ingressi in terapia intensiva nella settimana epidemiologica 30 gennaio - 5 febbraio 2021: 944. Il dato riflette i contagi del periodo 16-22 gennaio: 89.328. Ha richiesto un trattamento di terapia intensiva l'1,0% dei soggetti positivi. Variante inglese stimata al 20%.
3) Nuovi ingressi in terapia intensiva nella settimana epidemiologica 15-21 marzo 2021: 1.854. Il dato riflette i contagi avvenuti nel periodo 1-7 marzo: 142.388. Ha richiesto un trattamento in terapia intensiva l'1,3% dei soggetti positivi. Variante inglese prevalente, stimata già al 54% due settimane prima della nostra rilevazione.
Per ottenere il dato reale dobbiamo a questo punto effettuare una correzione al ribasso, perché con questo metodo abbiamo attribuito tutti gli ingressi a un arco di tempo preciso: escludendo sia quelli precoci (prima dei 14 giorni considerati) sia quelli tardivi (oltre le due settimane dal momento dell'infezione).
Tuttavia dalle evidenze cliniche la concentrazione maggiore si ha sicuramente in quel periodo, per cui possiamo stimare che il dato reale oscilli tra il 70 e l'80% dei valori ottenuti. In altri termini, siamo passati da uno 0,46-0,52% della prima settimana di dicembre, in assenza della variante inglese, a un valore intermedio di 0,73-0,84% di fine gennaio, quando il nuovo ceppo virale rappresentava il 20% dei contagi. Fino ad arrivare a un valore attuale di 0,9%-1,04% con la variante prevalente.
Possiamo quindi concludere questo punto dicendo che la variante inglese genera un numero più alto di pazienti con forme cliniche gravi, destinati a un trattamento di terapia intensiva. Passiamo al secondo indicatore preso in analisi.
La manifestazione clinica della malattia: come è cambiata
Anche in questo caso ci scontriamo con la scarsa disponibilità di dati, e soprattutto con la mancata disponibilità delle serie storiche relative a quelli comunicati. L'archivio delle infografiche sulla Sorveglianza integrata Covid-19, all'interno delle quali sono ricavabili i dati sulla distribuzione per fasce di età e per gravità clinica della malattia, si fermano inspiegabilmente al 22 giugno 2020.
Ci affidiamo quindi ai dati ufficiali che abbiamo riportato periodicamente nel commento quotidiano ai dati dell'epidemia (Cosa dicono oggi i numeri) che ci accompagna ininterrottamente da oltre un anno.
Partiamo dalla situazione più recente, che viene fotografata dall'Iss con l'infografica web dedicata ai “Dati della sorveglianza integrata Covid-19 in Italia” e visualizzabile sia come periodo mobile di 30 giorni (aggiornato quotidianamente) sia come dato complessivo da inizio epidemia. Per la nostra analisi useremo inizialmente il periodo mobile di 30 giorni, confrontando i dati con quelli di periodi analoghi nel recente passato. Per poi passare a un confronto tra gli ultimi 30 giorni e il dato complessivo da inizio epidemia.
Se osserviamo la distribuzione delle diverse forme di Covid-19 (asintomatica, paucisintomatica, lieve, severa e critica) nel mese mobile chiuso il 24 marzo 2021, notiamo immediatamente una importante discontinuità con il passato. La percentuale dei soggetti asintomatici è infatti drasticamente diminuita, scendendo al di sotto del 50% in tutte le fasce di età a partire dai 30 anni. Solo la popolazione più giovane, fino a 29 anni, mantiene un numero di asintomatici superiore al 50%: ma i valori, anche in questo gruppo, sono in discesa rispetto ai picchi (vicini al 75%) che si registravano fino a metà febbraio.
Ricostruendo le serie storiche riportate nei nostri commenti abbiamo inoltre notato come nel periodo compreso tra ottobre 2020 e fine gennaio 2021, con la variante inglese assente o poco diffusa, tutte le fasce di età evidenziassero un numero di asintomatici superiore al 50%: il dato più basso (53%) era relativo a quella 70-79 anni, che fino a oggi è stata colpevolmente trascurata nella strategia vaccinale pur essendo una delle più a rischio di sviluppare forme gravi e letali. La fascia degli ultranovantenni, ora sotto al 50% come tutti gli over 30, era al 65% di asintomatici: rappresentando una vera e propria anomalia ed esprimendo valori sovrapponibili a quelli della popolazione tra i 30 e 40 anni di età.
In estrema sintesi: siamo passati da una situazione nella quale oltre un paziente su due era asintomatico, a una in cui oltre un paziente su due presenta sintomi. Quindi il primo effetto visibile della variante inglese è quello di aumentare le manifestazioni cliniche della Covid-19.
Altrettanto importante è osservare la gravità delle manifestazioni stesse. Anche in questo caso si nota un aumento delle forme lievi, severe e critiche (queste ultime trovano conferma nei dati sulle terapie intensive) in particolare a partire dai 40 anni di età. E le forme sintomatiche severe, fino a inizio anno praticamente non rilevabili al di sotto dei 50 anni, negli ultimi 30 giorni esprimono valori statisticamente significativi (1,3% del totale) anche nella fascia di età compresa tra 30 e 39 anni.
Come ultima e ulteriore prova di questa dinamica in atto possiamo confrontare i dati degli ultimi 30 giorni, con variante inglese prevalente, con quelli complessivi da inizio epidemia: che in larghissima parte riflettono la situazione senza la variante del Kent.
Anche in questo caso si nota come la percentuale di asintomatici sia chiaramente superiore al 50% in tutte le fasce di età: inclusa quella 70-79 che si conferma la più esposta alle forme cliniche con appena il 51% di asintomatici da inizio epidemia.
In altri termini: non solo la variante inglese si dimostra più diffusiva rispetto al ceppo originario di Wuhan e alla successiva variante DG614 che aveva preso il sopravvento in Europa, ma sta chiaramente modificando in peggio le ricadute cliniche dell'infezione.Passiamo ora all'ultima parte della nostra analisi, relativa alle anomalie che abbiamo osservato durante l'ultimo mese di recrudescenza del contagio, altrimenti indicato come “terza ondata”.
Epidemia frenata, ma da cosa? Il paradosso del denominatore fantasma
I punti su cui dobbiamo focalizzarci sono tre:
1) L'epidemia si è “accesa e spenta” molto rapidamente, passando in un solo mese da una fase di crescita a una riduzione del numero dei nuovi casi.
2) I nuovi casi che sono stati riscontrati, soprattutto considerando i valori di partenza, sono stati largamente inferiori a quelli che sarebbe stato logico attendersi.
3) I due punti precedenti non trovano una giustificazione possibile né nelle misure di mitigazione, né nella campagna vaccinale.
Ovvero, l'epidemia ha iniziato a ripiegare precocemente, e non è possibile stabilirne il motivo. Per questo proponiamo, in via del tutto ipotetica, quello che abbiamo chiamato “paradosso del denominatore fantasma”. Andiamo con ordine.
Dopo un lungo periodo di relativa stabilità la ripresa del contagio si è manifestata, improvvisa, nella settimana epidemiologica 20-26 febbraio, chiusa con 108.136 nuovi casi e una crescita del 29,2% sulla settimana precedente (+24.484 nuovi positivi).
A cavallo tra fine febbraio e inizio marzo (27 febbraio - 5 marzo) l'epidemia ha proseguito la sua corsa con un incremento leggermente più modesto in termini percentuali (+24,2%) ma più consistente in valori assoluti (i nuovi casi sono saliti a 26.217). La media giornaliera dei positivi (19.193) era molto elevata e costituiva la base ideale per generare una nuova impennata del contagio come già avvenuto nelle fasi precedenti, sia a marzo, sia a ottobre 2020.
Invece la settimana 6-12 marzo registra (inspiegabilmente come vedremo più avanti) un chiaro rallentamento: 152.963 nuovi casi (+13,8%) con un incremento di 18.610 positivi rispetto al periodo precedente. La crescita, di fatto, ha iniziato a rallentare dopo sole due settimane.
Nel periodo 13-19 marzo osserviamo una ulteriore frenata, che porta a una sostanziale stabilizzazione del contagio: 156.769 nuovi (+2,4%) e soli 3.806 positivi in più sulla settimana precedente.
I valori della settimana epidemiologica in corso, come abbiamo visto riassumendo la situazione in atto, mostrano nei primi 5 giorni una riduzione del 7,7%. Ripresa, stabilizzazione e calo: tutto in sole 5 settimane.
Se confrontiamo questo dato con la cosiddetta seconda ondata vediamo come i primi segnali di rialzo, anche se molto timidi, avevano iniziato a manifestarsi nella seconda metà di luglio: dando il via a una serie di ben 17 settimane di crescita consecutiva e arrivando a metà novembre prima di poter osservare un segno meno davanti al numero dei nuovi casi (-2,5% nel periodo 14-20 novembre 2020).
Veniamo dunque a cosa “non può” aver causato questa rapida inversione di rotta:
1) Non le misure di mitigazione, che a causa del ritardo ormai noto tra il periodo epidemiologico considerato e il momento della decisione (quasi due settimane) sono scattate con le restrizioni attualmente in vigore solo quando l'epidemia iniziava a esprimere un chiaro rallentamento. In particolare a chiusura della prima settimana di forte espansione, come abbiamo visto 20-26 febbraio (+29,2%) le misure erano rimaste blande in quanto rispecchiavano la situazione epidemiologica stabile del 6-12 febbraio (+3,7%); ed altrettanto è accaduto dopo la seconda settimana di espansione dell'epidemia (27 febbraio - 5 marzo, +24,2%) quando le misure riflettevano un altro periodo di stabilità: quello 13-19 febbraio, chiuso con i nuovi casi in calo del 2,3%.
La zone rosse su larga scala, e quindi le restrizioni in atto che sono quelle davvero efficaci nel frenare l'epidemia come abbiamo verificato più volte nel corso dell'ultimo anno, sono state decise il 12 marzo: prendendo atto, solo a quel punto, dei dati relativi alla settimana epidemiologica 20-26 febbraio, in cui si era manifestata la prima crescita importante dei nuovi casi. Ma mentre, in assenza di contromisure efficaci, l'epidemia aveva già ripiegato e chiudeva un periodo mobile con un incremento ormai ridotto al 13% (6-12 marzo).
Come abbiamo scritto nell'analisi elaborata pochi giorni dopo, “può sembrare incredibile, ma almeno per una volta dobbiamo ringraziare il ritardo con cui da sempre vengono prese le decisioni su restrizioni e allentamenti. La decisione di mettere gran parte dell'Italia in zona rossa, infatti, è stata presa sulla base dei dati di forte crescita di fine febbraio-inizio marzo: proprio quando gli ultimi dati già disponibili manifestavano il rallentamento che abbiamo verificato in precedenza”.
In sintesi, non possiamo attribuire il merito della rapida inversione della curva epidemica alle misure di mitigazione: che agiscono, e stanno agendo, in modo sicuramente benefico ma solo in una fase successiva.
2) Allo stesso modo non possiamo attribuire il rallentamento dei casi e la rapida inversione della curva alla campagna vaccinale. Troppo poche ancora oggi le persone vaccinate con due dosi (2.706.381 alle ore 6.01 del 25 marzo) per avere influenza sulla popolazione generale. E troppo poche, alla stessa ora, anche le persone vaccinate con almeno una dose (5.799.896) per poter pensare a una almeno parziale immunità di gregge. A questo link si possono visualizzare i dati aggiornati.
Eppure, in assenza di altre motivazioni individuabili, si arriva proprio a ipotizzare una possibile parziale immunità di gregge, spiegandola con il paradosso del denominatore fantasma. Così soprannominato perché, di fatto, è invisibile: non riusciamo a individuarlo con precisione, perché un alto numero di soggetti positivi sfugge alle campagne di testing.Quanto sia alto questo numero non lo sappiamo: l'ultima indagine sierologica condotta a luglio 2020 aveva individuato 1 milione e mezzo di italiani venuti a contatto con il virus, contro 240.000 effettivamente individuati. Un rapporto di circa 1 a 6 che dovrebbe essersi abbassato, e di molto, nei mesi successivi grazie all'aumento dei test effettuati.
Ma più volte in questi mesi, effettuando il calcolo inverso a partire dalle terapie intensive, abbiamo dimostrato come anche in tempi recenti si riesca a individuare all'incirca il 40% dei positivi presenti sul territorio.
Ai 3 milioni 440.000 positivi finora individuati possiamo sottrarre i 240.000 di fine giugno, arrivando a 3 milioni 200.000. Già così, se sommiamo il valore ottenuto al milione e mezzo che abbiamo ricavato dall'indagine di sieroprevalenza condotta da Istat e Iss lo scorso anno, arriviamo a 4 milioni 700.000 italiani venuti a contatto con il virus. Ma sappiamo che sono pochi, perché i 3 milioni e 200.00 rappresentano nella migliore delle ipotesi il 40% dei positivi reali: li ricalcoliamo e arriviamo a un (ipotetico) dato reale di 8 milioni.
Se a questi aggiungiamo i quasi 6 milioni di vaccinati con almeno una dose arriviamo a circa 14 milioni di italiani che dovrebbero avere una memoria immunitaria in grado di contrastare l'infezione. Il numero così ottenuto è in realtà grossolano, perché tra i vaccinati ci sono soggetti che hanno avuto l'infezione, e rientrano quindi anche nella categoria dei positivi totali, così come tra i positivi totali ci sono sicuramente soggetti che non hanno sviluppato una risposta anticorpale adeguata, o l'hanno vista diminuire al di sotto del minimo in grado di offrire protezione. Così come dobbiamo togliere dal conteggio dei positivi totali i soggetti deceduti, oltre centomila. Ma come ordine di grandezza il valore ottenuto (14 milioni) potrebbe essere attendibile.
Questo è il paradosso del denominatore fantasma: non conoscendolo non riusciamo a stabilire con buona attendibilità il numero dei soggetti in grado di frenare la corsa del virus. Il dato dei 14 milioni potrebbe essere sottostimato, perché fino a pochi mesi il numero dei tamponi eseguiti sulle fasce più giovani della popolazione era ridotto e quasi sempre limitato a casi sintomatici. Quanti asintomatici, per esempio, abbiamo perso nei soggetti al di sotto dei 20 anni nel periodo estivo?
Se il nostro denominatore fantasma raggiungesse i 18-20 milioni di italiani avremmo già oggi, senza saperlo, circa un terzo della popolazione italiana in grado di fare argine alla diffusione del Sars-CoV-2. Ma anche con i 14 milioni frutto della prima stima conservativa siamo al 23,3%: nello slalom speciale che il virus sta correndo in Italia iniziano a esserci un buon numero di paletti di cemento… Che giustificherebbero la manifestazione epidemica dell'ultimo mese, che abbiamo visto esprimersi in modo insolito e a prima vista ingiustificabile.
Sarebbe stato possibile avere qualche certezza in proposito? Assolutamente sì. Per esempio costituendo un campione rappresentativo dell'intera popolazione italiana, come più volte suggerito dalla comunità scientifica in questi mesi, per monitorare su base statistica i principali parametri dell'epidemia. Non è stato fatto, come in moltissimi altri Paesi: ma quando tutti sbagliano non significa che, come conclusione, possiamo pensare di essere nel giusto. Semplicemente, abbiamo sbagliato in buona compagnia.