Bel topic e bella discussione. Ho letto tutto e trovato un sacco di spunti interessanti; ora però non mi ricordo già più niente quindi vado a braccio. E magari anche un po' OT.
Per me l'espressione "respiro internazionale" un senso ce lo ha, e a me è pure piuttosto chiara la categorizzazione che produce. Parliamo di Italia: i Port-Royal hanno respiro internazionale. Gli Aucan. Gli Ufomammuth, gli Zu, i Morkobot, i Uochi Toki, Touane, gli In Tormentata Quiete, gli Janvs, gli Höstsonaten, i Calibro 35. Non hanno invece respiro internazionale: i Cani, Lo Stato Sociale, Brunori SAS, Benvegnù, Edda, i Perturbazione; probabilmente anche i Musica per Bambini.
È facile osservare tra i due raggruppamenti differenze in termine di genere e di lingua utilizzata, ma non credo si possa risolvere la divisione solo in quei due elementi. I Uochi Toki usano l'italiano e potrei fare diversi esempi di gruppi (perlopiù orrendi) di casa nostra che cantano invece in inglese. Similmente facile sarebbe farne un discorso di qualità, fantastici i primi e merdissima i secondi, ma anche qui mi sembrerebbe di rendere il discorso troppo partisan (certo, se uno dei criteri di qualità è proprio il respiro internazionale... ma è un serpente che si morde la coda).
No, il punto credo sia un altro. Un conto è la musica che si inserisce in un discorso musicale che è mondiale, un altro che guarda solo al cortile di casa nostra. Ci sono band che se non conosci l'italiano - e non solo la lingua, anche le sottoculture, il modo di vivere, il microclima musicale - gna puoi fà ad apprezzarle, a meno proprio di volertici mettere (con approccio un po' "alla gozer", magari). Altre invece sono più accessibili - o se vogliamo meno autoreferenziali - perché si pongono un orizzonte diverso, volenti o nolenti fanno una musica di coordinate meno settarie - almeno sul piano geografico.
Questo non significa per forza, a mio avviso, che essi debbano essere "indistinguibili dagli analoghi anglosassoni". Certo, è una possibilità, ma non un obbligo. Esistono, deo gratias, "scene locali", stili peculiari che - sì - risultano perfettamente inseriti nel contesto musicale globale/anglocentrico, ma al tempo stesso mostrano una peculiarità specifica, non per forza "etno/folkloristica". Il French Touch è uno stile eminentemente francese - certo non c'entra una mazza col jazz manouche o la baguette sotto il braccio, ma è comunque una scena locale, con caratteristiche sue. Similmente, l'Italia ha prodotto negli ultimi facciamo dieci anni scene hardcore, jazzcore, post-metal con tratti specifici propri: non imbracceranno il mandolino e non ricorderanno per niente i grandi della nostra canzone, ma comunque sono uno sviluppo geograficamente connotato, un qualcosa che c'è da noi e non c'è altrove.
Il discorso si fa ancora più evidente se ci muoviamo verso nord e parliamo di metal. La Scandinavia ha prodotto praticamente ex nihilo un intero genere di respiro internazionale, il black metal, che ora è suonato da migliaia di band in tutto il mondo. La possiamo chiamare sterile imitazione dei modelli anglofoni? Non direi. È invece un esempio lampante di quella che definirei ormai la dialettica musicale globalizzata, a cui alcune band scelgono di far riferimento (per stare a casa nostra, quelle del primo gruppo che citavo) e altre invece no (magari poi imitano pure di più, ma rivolgendosi a un orizzonte diverso).
Chiudo con una riflessione indipendente, e più personale. Io ammiro lo spirito di Gozer nel cercare di "entrare" nelle musiche pop di altri paesi - che sono poi, a mio avviso, quelle fatte dalle band del secondo gruppo che citavo, ampliandolo ovviamente anche al di fuori dell'ambito indipendente. Non riesco tuttavia a farlo mio, perché faccio fatica a disinteressarmi al testo in musiche in cui questo elemento è centrale.
Qualcuno sopra faceva l'esempio dei Sigur Ros, che cantano in islandese. Al di là del fatto che questo è vero e non vero (v. hopelandic e blablabla), non credo di sbagliare se affermo che la voce nei Sigur Ros è a prescindere dalla lingua intesa soprattutto come "strumento musicale", facilitatore emotivo e non vettore di messaggi.
Nella musica pop comunemente intesa invece - e anche nei più "canzonistici" dei generi non-mainstream - il testo ha un ruolo molto più centrale e le canzoni sono intese proprio come connubio tra musica e testo, "pacchetti" di emozioni sonore e messaggi vocali che veicolano una visione delle cose, un approccio al mondo (parrà un'esagerazione, ma io penso sia così anche se le parole sono "Ma com'è bello andare in giro per i colli bolognesi" o "I took her out. It was a Friday night, I wore cologne to get the feeling right"). Rinunciare in partenza al 50% di questo sposalizio è per me un handicap grave, qualcosa che mi tiene lontano dall'approfondimento.
Non a caso, le uniche scene in cui riesco ad apprezzare "appieno" la musica sono quelle anglofone, italiana e francese. Mi capita di ascoltare anche cose in spagnolo, e lì quantomeno non mi sento del tutto zoppo perché quantomeno una parte del "quid" verbale mi arriva nonostante non capisca tutto (d'altra parte non capisco tutto manco dell'inglese o del francese, ma diciamo che lo "spirito" riesce comunque ad arrivarmi). Le rare volte che però metto su qualcosa in giapponese, in polacco, o anche solo in una lingua celtica, mi sento invece un mezzo daltonico, sento troppo che mi sto perdendo qualcosa per riuscire ad apprezzare allo stesso modo della musica cantata in lingue che capisco. Potrò magari capire che si tratta di musica di primissima fattura, potrò apprezzare "intellettualmente", ma emotivamente sento che non basta. È come guardare "Solaris" in russo: posso dire "bellissima fotografia", ma lo so che non è tutto lì e che una parte sostanziale mi sta sfuggendo.