Riguardo al punto 2: il paragone con fenomeni naturali come terremoti e pandemie mi sembra del tutto fuori luogo; ed anche quelli con fenomeni sociali diffusi come la corruzione funziona fino a un certo punto. Anche laddove si tratta di decisioni umane, come nel caso della corruzione, c'è un'evidente distanza tra il calcolo individuale del singolo corrotto/corruttore e il calcolo su scala macroscopica di chi combatte la corruzione. L'effetto macroscopico è quasi assimilabile a un fenomeno naturale e non si può negoziare con un fenomeno naturale.
Tratto essenziale della guerra tra stati invece è che l'agente che intraprende l'azione bellica è capace di calcolo e lo esegue allo stesso livello di chi si difende: c'è quindi possibilità di negoziazione. Nonostante l'uso di metafore 'naturalistiche' come forza o potenza e la (per me incorretta) tendenza a parlare delle potenze coinvolte nel sistema internazionale come di entità monolitiche e impersonali, mi pare che il presupposto del realismo nelle relazioni internazionali sia quello di giocatori che eseguono lo stesso tipo di gioco, sono sullo stesso piano di calcolo e possono, ad esempio, riconoscersi sconfitti (a volte persino prima di combattere).
Ad essere una inquietante via di mezzo tra un fenomeno sociale come la criminalità e la guerra tra stati, è la varia gamma delle guerre asimmetriche, dalla guerriglia al terrorismo. Ecco, qui ammetto di conoscere poco la elaborazione concettuale del realismo in questi ambiti, ma se devo giudicare dai riflessi nel dibattito politico, devo dire che noto una enorme difficoltà a non pensarla in termini di relazioni tra potenze. Voglio dire che noto una certa confusione sia nel concepire la propria relazione con la minaccia ad esempio terroristica, sia nelle aspettative di un confronto bellico (Ius ad bellum e Ius post bellum). Non si da abbastanza peso alle cause endogene (per me preponteranti) del fenomeno del terrorista o del guerrigliero, trattandolo come una 'potenza' già esistente con una sua politica estera bellicosa; e si sottovaluta il problema di come terminare la guerra. Dove eleggi a 'nemico' una entità che non può arrendersi in rappresentanza di una intera popolazione, ipotecando le azioni future di questa, la guerra può concludersi solo con lo sterminio della popolazione. A meno di non cambiare del tutto il paradigma.
Trovo un po' incorretto da parte tua definire il pacifismo solo come un generico 'rifiuto' della guerra, laddove invece dai al realismo anche una bella bibliografia. Pure il pacifismo comprende elaborazioni concettuali molto raffinate, con uno spettro di posizioni molto vario, da un pacifismo 'assoluto' o 'etico' a uno 'contingente' o 'realista' (cito un libro anch'io: David Cortright Peace: A History of Movements and Ideas). Lo spettro è anche più ampio perché il pacifismo può essere una posizione etica individuale, un ideale educativo (vedi Aldo Capitini), un contesto di lotta politica interna ( Gandhi e i movimenti di resistenza non violenta) e non solo una posizione in politica internazionale.
In questo ambito, poi, non è tanto un semplice rifiuto della guerra quanto un tentativo di creare le condizioni perché, nei rapporti internazionali, venga disincentivato il ricorso alla guerra. Attraverso l'idea, ad esempio, che i rapporti economici creano degli interessi condivisi tra le nazioni al mantenimento della pace. Il wilsonismo, in una parola. E pace che questo si sia dimostrato un fallimento, per tutta una serie di ragioni, la principale delle quali è la decisione degli Stati Uniti di ritornare al suo isolazionismo. Esistono esempi virtuosi di stabilità internazionale ottenuta per via dell'interesse condiviso: dall'imperialismo britannico del libero mercato di metà Ottocento al Piano Marshall. E se mi rispondi che questi hanno avuto successo perché spalleggiati da una potenza militare (la Royal Navy, le bombe atomiche americane), sono d'accordo. Ma c'è differenza tra dire che una certa potenza militare ha protetto i tentativi di creare cooperazione internazionale, e l'attribuire tutto il merito alla potenza militare. In altre aree e in altri momenti gli Stati Uniti hanno tentato di creare stabilità o con la 'tradizionale' politica di spalleggiare dittatori e caudillos (Caraibi) o con la pura e semplice forza militare (Sud-Est asiatico); risultato: due dei peggiori fallimenti della loro politica estera, Cuba e Vietnam.
In ogni caso, quali che siano i meriti intellettuali della posizione realista, esiste a mio avviso il rischio che, come ideale politico, crei profezie che si autoavverano. Conoscerai il libro di Norman Angell "La grande illusione": è abbastanza sintomatico della distanza esistente tra la realtà di un mondo sempre più interdipendente e la percezione di una politica internazionale come gioco a somma zero e destinata alla lotta per la sopravvivenza. E difatti la Prima Guerra Mondiale è stato un suicidio delle stesse potenze che l'hanno intrapresa. Ed è ancora sintomatico il fatto che la strada che ha condotto al 1914 è stata dominata dalla paura dell'attacco altrui e dalla prevalenza di una risposta di tipo militare come deterrenza. Classico esempio di paradosso della sicurezza. Quel che voglio dire è che esiste il pericolo concreto, se il realismo da 'analisi' si tramuta in 'ideologia', di autoalimentare l'instabilità internazionale nel tentativo di allontanarla (un po' come la repressione violenta può creare la stessa opposizione eversiva che voleva estirpare). Oltre al pericolo ancora più concreto che diventi il comodo alibi di irresponsabili 'falchi' e guerrafondai con problemi edipici.
C'è da riflettere sul fatto se un wilsonismo realistico non debba essere uno strumento della diplomazia tanto quanto la potenza bellica.