Infine Ride on Time (1980), che sbilanciandomi un po' direi che è il disco da avere di Yamashita se quello che piace del genere è più l'aspetto chic-jazz che quello neo-Beach Boys. Qua tutti gli elementi sono a fuoco e i brani sono più sgargianti che mai; l'inglese (o un grammelot probabilmente indistinguibile dall'inglese alle orecchie dei nipponici) inizia a farsi onnipresente e il basso è il re incontrastato della sezione ritmica, vero cardine compositivo dei brani. Andrebbero linkati circa tutti i pezzi, ma per farsi un'idea del taglio più grintoso (e al tempo stesso più melenso) di questo disco rispetto al più celebrato "For You" dovrebbero bastare le fantastiche sbruffonate chitarristiche e il ritmo pestone di "Silent Screamer" e le smancerie da lume di candela di "My Sugar Babe". Quella bomba della title track, che riesce nel prodigio di unire le due anime, la lascio scoprire a voi.
Devo però dire che il mio autore preferito è al momento Makoto Matsushita, e visto l'interesse suscitato nell'ultimo mese dal suo primo album First Light (1981) direi di partire da lì. First Light è un capolavoro, e mi fa piacere tanti se ne siano rapidamente accorti senza bisogno di particolari opere di convincimento (di cui non sarei stato capace). Al di là di presentare al massimo grado tutti gli elementi distintivi del genere, credo che l'elemento più rilevante dell'album sia l'assoluta perfezione sonora: il sound è ricco e stratificato, ma sempre coeso, compatto, come se anziché essere il lavoro di una fitta schiera di turnisti si trattasse del prodotto del più oliato dei power trio. Matsushita è prima di tutto un chitarrista, e infatti l'elemento più iconico dell'intero blend è proprio il suono tagliente e millimetrico dei suoi frequenti assoli e abbellimenti. Ma notevolissimo è anche il piglio movimentato e notturno delle ritmiche, così come una certa allure di eleganza per nulla esibizionista, decisamente lontana dal carattere estivo e ultramondano di altri autori. Un'allure che nei dischi successivi si farà più definita, e diventerà elemento di grande originalità e personalità.
The Pressures and the Pleasures (1982) è l'opera seconda e segna la virata della proposta verso un sound più intellettuale e di frontiera, al tempo più stesso più svuotato e più sfrontato come scelte sonore. Matsushita lascia un po' da parte l'eleganza dei timbri e l'equilibrio pop-jazz delle composizioni, sbilanciandosi su un coraggioso gioco di contrasti tra melodie introspettive e momenti strumentali, poderose sferzate ritmiche e soffusi paesaggi di synth e arpeggini. Immagino sia prevalentemente per la mia inguaribile fissa per i King Crimson, ma la lunga title-track a me porta molto presto la mente al periodo Discipline e a certe follie di Belew; "The Garden of Walls" invece si sposta molto di più sui vuoti, con "Carnaval" a farle da contraltare col suo funk astratto virato fusion. Altri pezzi si mantengono su una formula più affettata e ricercata, allontanandosi anch'esse dal perfetto bilanciamento dell'esordio, ma in una direzione meno interessante per quanto ancora di classe. Nel complesso, si tratta di un disco di transizione, con alcuni episodi davvero eccezionali.
L'album più peculiare è l'ultimo, Quiet Skies, per la cui descrizione davvero fatico a trovare le categorie adeguate. Penso che mi converrebbe sbrigarmela con due parole, un po' di namedropping per stuzzicare i palati adatti, e il linkino integrale piazzato a tutto campo in modo tale che chi vuole possa ascoltare e valutare da sé... Non fosse che Youtube il linkino non ce lo ha mica (però -<---<-@). Tenterò dunque l'impossibile: Talk Talk, Dif Juz, Durutti Column, però... però no, non c'entra una fava. E' svuotato, è etereo, è astratto, piovigginoso, impressionistico, ma dentro e dietro c'è ancora la roba di prima, jazz fusion altolocata con troncamenti funk, fioriture prog e allagamenti elettronici. E' musica strana. E' musica molto bella. Ascoltatela, ma sappiate che potrebbe annoiarvi a morte. Per me è stupenda.
Proseguiamo. L'altro pezzo grosso in cui mi sono imbattuto è Toshiki Kadomatsu, di cui è piuttosto noto Sea Is a Lady, 1987. Qua siamo di nuovo dalle parti di un pop molto variopinto e molto di classe, ma interamente strumentale, con una dose piuttosto elevata di syntheggiamenti e retto da una perizia e una fantasia chitarristica che spostatevi. Bastino "Sea Line 'Rie'" col suo portamento da Lunedifilm o la fiammeggiante "Midsummer Drivn' 'Reiko'" o la quasi videoludica "52nd Street 'Akiko'" a dare un'idea della maestria melodica del Kadomatsu, capace di realizzare canzoni strumentali anziché suite o esercizi di stile o pezzi d'atmosfera.
Negli album precedenti, comunque, la voce c'è. Non ho sentito tutto, ma qualche disco un po' qua e un po' là l'ho pescato. Weekend Fly to the Sun, dell'82, presenta un sound più sunshine, animato dal consueto pot pourri funky-fiatistico-barocco-jazzy leggerino e sciccoso a cui ormai dovremmo esserci abituati. Il disco è indubbiamente piacevole, e faccio fatica a trovare brani non riusciti: è tuttavia molto "standard" e rischia di essere messo in ombra dalle altre vette del genere. Nondimeno, beccatevi "Space Scraper" e "Rush Hour", che spero possano aiutare a capire che non si sta comunque parlando di robetta.
Saltando all'84, pervengo a After 5 Clash, ovvero un signor discone. Qua il suono è più energico, più urbano (c'è pure il sax ), lo sbruffoneggiamento strumentale che sarà la condicio sine qua non per permettere il sound miracoloso di Sea Is a Lady inizia a farsi avanti. Ciononostante, resta un album di canzoni - canzoni con la voce, intendo. I synth iniziano a reclamare un certo ruolo nella costruzione del suono, e anche la carica ritmica è enfatizzata dall'uso di un suono nettamente elettronico. Diversi pezzi sono assai sbilanciati sul lato synth-funk (vedi "116.39 BPM/Step into the Light") e lasciano un po' perdere tutto il lato raffinato-solare-mondano della faccenda City Pop, ma chissene. Tanto poi ci sono sempre le "Maybe It's a Love Affair" a ripareggiare.
Ok, mi avanzano le briciole. Nomi sparsi, che non ho avuto modo di approfondire al di là di singoli dischi. A Long Vacation di Eiichi Ohtaki sembra godere di una certa fama e direi che la fama è meritata: barocchissimo, westcoastissimo, si tratta di un disco che esprime al massimo grado il versante sunshine pop e caramelloso del genere, rivisitando la musica sessantiana in veste solo moderatamente funky-synthosa e mettendo sostanzialmente da parte quell'anima jazz-fusion che è invece per me l'elemento di richiamo del genere. Io non ci esco pazzo, ma mi è difficile non riconoscere che brani come "Velvet Motel" o "Funx4" abbiano il loro perché.
Anche coi Seaside Lovers siamo in territori piuttosto sunshine: nel loro unico album Memories in Beach House (1983) però gli accenti sono più lounge/exotica che pop canzonettaro. Il sound complessivo è a mio avviso assai interessante, intriso di coolness da immaginari mari del sud e nostalgia un po' futuristica e un po' retrò (qualcuno potrebbe trovare parallelismi con robe chillwave odierne). E' un disco che sto sentendo da poco, quindi non mi spreco in gran paroloni: mi limito a droppar giù "Melting Blue", che secondo me è un gran pezzo.
Chiudo coi Casiopea, band più che altro jazz-rock/fusion; che però mi pare rispecchiare comunque il medesimo milieu stilistico. Ho sentito Cross Point, 1981, molto melodico, molto leggero e ben suonato, decisamente "da sottofondo". E' strettamente strumentale, e pare roba per sigle e sonorizzazioni varie. Francamente non ne ho idea, ma vi lascio qualcosina per dare un live in studio che dovrebbe dare l'idea (l'album è più pulitino, ma insomma le idee sono quelle).
Fine del giro turistico. Mi spiace non poter dare grossi inquadramenti generali e ricostruzioni storiche anche solo velatamente soddisfacenti. Non mi sono approcciato al genere con sguardo enciclopedizzatore (altrimenti forse avrei ascoltato anche i lavori di Ohtaki e Yamashita a nome Niagara Triangle, che comunque prima o poi recupererò), non conosco la musica giapponese precedente, successiva e a ben vedere pure contemporanea, e non sono in grado di interpretare il giapponese in cui il grosso delle fonti è scritto. Prendetela dunque giusto come una panoramica del tutto idiosincratica a delle robe che ho sentito e mi sono piaciute. Se avrete voglia, potremo parlarne e magari aiutarci a vicenda a conoscerne contesti, orizzonti, personaggi e via dicendo.