Chi pensa che i film nipponici siano fatti da scene lunghe, inquadrature fisse, gente col kimono...beh, lo continui pure a pensare, si perderà una cinematografia composta da autori immensi che hanno fatto la Storia, tanto quanto i maestri occidentali.
Uno di questi è naturalmente Akira Kurosawa, forse il più occidentale tra i registi giapponesi o, comunque, quello che ha avuto una più vasta influenza sul cinema occidentale.
"Cane randagio" è un poliziesco con un inizio modernissimo che, tra le tante cose, mi ha ricordato il maestoso "PTU" di Johnnie To (ma non è una novità che il regista di Hong Kong sia influenzato dall'Imperatore e difatti "Throw down" rappresenterà un esplicito omaggio a Kurosawa), uno sviluppo che è un'analisi della società piuttosto cruda (e c'è chi addirittura ha parlato di neorealismo, anche se c'entra ben poco) e conclude con un climax superlativo e una sfida fisica (meravigliosa quell'inquadratura, poi ripresa da Leone) dopo un'estenuante rincorsa a distanza.
Montaggio terribilmente moderno (siamo ancora nel '49), pieno di dissolvenze incrociate e di immagini che si sovrappongono, arguzie visive che saranno poi sfruttate largamente.
Aspetto interessantissimo di "Cane randagio" è anche la rappresentazione della città: fotografata durante un'ondata di caldo sembra un girone infernale, la cinepresa sta incollata a quei corpi che sudano maledettamente, e pur essendo girato anche all'aperto imperano gli spazi stretti, si soffoca, i fisici sono fiaccati, e le psicologie che si costituiscono sono oppresse da risentimenti e sensi di colpa, in una relazione indissolubile.
Grandissimo Toshirô Mifune nel ruolo del poliziotto giovane e idealista e altrettanto bravo Takashi Shimura, archetipo del poliziotto esperto e saggio che non può che beccarsi una pallottola
