Secondo il Finnish Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), il tetto sul prezzo del barile costa alla Russia 172 milioni di dollari al giorno; con il secondo embargo, relativo ai prodotti della raffinazione di cui in Asia la richiesta è inferiore, le perdite salgono a 280 milioni di dollari.
È soprattutto il calo dei ricavi dalla vendita di gas e petrolio la ragione per cui a fine 2022, con una brusca accelerata, il bilancio della Federazione si è ritrovato in deficit per 3,3 trilioni di rubli, pari al 2,3% del Pil e a 44,5 miliardi di dollari, dopo aver retto bene i primi mesi di guerra.
Un deficit che minaccia di peggiorare, ostaggio delle quotazioni dell'Urals, la principale varietà di greggio russo: il ministero delle Finanze guidato da Anton Siluanov prevede infatti per quest'anno un calo delle entrate oil&gas, dagli 11,7 trilioni di rubli del 2022 a 8,9 trilioni.
Calcolati però sulla base di un prezzo medio di 70,2 dollari al barile per l'Urals, tutt'altro che certo: in dicembre, a causa dell'embargo e delle incertezze future, il barile russo aveva già perso il 24% su novembre, scendendo a 50,47 dollari. In gennaio era venduto a 49 dollari.
Per tenere in pareggio il bilancio 2023, Siluanov avrebbe bisogno di un prezzo medio di 110 dollari il barile. La brutta notizia, scrive The Bell, un sito indipendente russo di informazione economica, «è che anche in queste condizioni Putin ha mezzi sufficienti a continuare la guerra per altri tre anni. Purché le circostanze esterne non cambino».
Per circostanze esterne si intende soprattutto il prezzo dell'Urals: «Se il prezzo medio non scenderà in modo drammatico, agli attuali livelli di spesa le riserve in oro e yuan (la principale valuta straniera rimasta, ndr) possono bastare per tre anni circa». E se sarà necessario ridurre le spese in bilancio, conclude The Bell, «quelle militari saranno le ultime a finire sotto la scure».
Rotta sull’Asia
Dal punto di vista di Mosca, il bilancio del primo anno di guerra ha diverse voci positive, attribuite al rapido adattamento dell'economia nazionale alla nuova realtà, sotto la regia della Banca centrale che ha vegliato sulla tenuta del sistema bancario e del rublo blindando i mercati da interferenze esterne, imponendo restrizioni a prelievi e trasferimenti in valuta per evitare corse agli sportelli e fughe eccessive di capitali.
Ma è soprattutto l'andamento delle esportazioni che ha contenuto il calo del Pil, accompagnato dal crollo delle importazioni per tradursi in un avanzo record delle partite correnti: 227,4 miliardi dollari, +86% sul 2021.
Un risultato difficilmente ripetibile nel 2023. In gennaio, con il bando europeo sul petrolio a regime, il settore oil&gas ha visto una riduzione delle entrate del 46% rispetto al gennaio 2022. A conferma che l'embargo è in grado di creare problemi seri.
La Russia è costretta ad affidarsi all'Asia.«Combatteremo le sanzioni riorientando il commercio e le rotte dell'energia – assicura Putin -; rafforzeremo la cooperazione con nuovi partner, aumentando sensibilmente le esportazioni di gas alla Cina. L'Occidente cerca di spingerci ai margini dello sviluppo, ma non imboccheremo la strada dell'auto-isolamento”.
Di fatto, ora Pechino ha scavalcato l'Unione Europea, diventando il primo partner commerciale per Mosca, il primo acquirente di energia. Ma se i russi sperano di vendere ai cinesi 48 miliardi di metri cubi l'anno (meno dei 59,2 miliardi trasportati dal solo Nord Stream-1) arrivando a 88 miliardi di metri cubi nel 2030, nel 2021 la UE ne aveva comprati 154 (dati Eurostat).
Per russi e cinesi non è mai stato facile trovare un linguaggio comune: la Cina è nota per sapersi muovere con grande prudenza, calibrando alle prese di posizione pubbliche sull'amicizia con Mosca un attento esame dei vantaggi che può ricavare da questa situazione, senza ignorare del tutto le sanzioni e soprattutto le possibili ritorsioni americane.
La nuova geografia degli scambi
«Cinesi, indiani, fondi mediorientali subentrano ai gruppi occidentali che partono - spiega una seconda fonte europea da Mosca -: c'è tutto un mondo di potenziali acquirenti interessati a garantirsi il futuro dell'energia. Per affrontare l'embargo (che vieta accordi alle compagnie di assicurazione europee con chi non accetta il tetto sul prezzo del petrolio, ndr) i russi si stanno muovendo per costituire compagnie loro, comprano navi per creare una flotta per poter attraccare e trasportare greggio a chi lo vuole».
Ci vorrà tempo per creare le infrastrutture, continua il nostro interlocutore ricordando che la maggior parte dei gasdotti russi è rivolta verso l'Europa: «E con i cinesi non è semplice negoziare. Però la Cina, come l'India, ha puntato su questo Paese. Studiano il mercato e progettano acquisizioni mirate. È una nuova, forte alleanza».
«L'apporto di chi non è “nemico” sarà cruciale per sviluppare certe produzioni, come quella dell'automobile - osserva una terza fonte -. Lì giocherà un ruolo lo scambio, diciamo materie prime contro tecnologia, chiamiamolo così, con “potenze amiche”. Ce ne sono, sono aumentati. Qui a Mosca si vedono in giro più turchi, più cinesi. Mentre si vedono sempre meno europei».
Import “non ostile”
Ai Paesi “non ostili” la Russia si appoggia sempre di più non soltanto come fornitori alternativi, ma come base per alimentare lo schema dell'import parallelo: meccanismo che permette alle dogane russe di accettare le merci in arrivo anche se prive di autorizzazione del produttore europeo o americano.
Una strada tortuosa, naturalmente, ma che ha riportato brand occidentali nei negozi russi o componenti - almeno le più semplici - nelle fabbriche. «Con l'import parallelo si cerca almeno di rompere l'assedio - dice la nostra prima fonte -. La Turchia sta facendo grossi affari. Ha forti legami con la Russia, ma anche con la Ue con cui ha un'Unione doganale: non dimentichiamo che l'economia turca è fortemente integrata a quella europea».
All'incrocio tra i due mondi, la Turchia è diventata un hub cruciale in cui le compagnie russe – scrive il giornale turco Dünya in un servizio sulle possibilità di aggiramento delle sanzioni – aprono uffici e stabiliscono partnership con enti turchi per agevolare gli scambi: nei primi dieci mesi del 2022 gli scambi tra Russia e Turchia sono raddoppiati rispetto al 2021, da 30 a 60 miliardi di dollari. In un mercato sempre più opaco, le triangolazioni sembrano destinate a moltiplicarsi per aggirare l'embargo petrolifero.
A caccia di risorse
Alcuni analisti stimano in 200 miliardi di dollari il costo del primo anno di guerra per la Russia: il dato reale è segreto, naturalmente, ma nel budget 2023 il ministero della Difesa ha preventivato 9,5 trilioni di spese militari, più di 128 miliardi di dollari.
Dove trovarli, se non ci sono più le certezze di un tempo su fronte dell'energia? Un primo “cuscinetto” per lo Stato russo sono le riserve non congelate: tra le valute principali, solo lo yuan è rimasto accessibile.
Mosca ha già iniziato ad attingere ai suoi 310 miliardi di yuan, 45 miliardi di dollari: l'unica valuta di rilievo utilizzabile sul mercato dei cambi. Gli yuan fanno parte della dotazione del Fondo russo del benessere nazionale (Fnb), in cui vengono incanalati i proventi del petrolio quando i prezzi superano una certa soglia: in origine avrebbe dovuto sostenere il sistema pensionistico.
Ora è una delle principali fonti di finanziamento su cui conta il Cremlino, che nel 2022 ha attinto al Fondo per sostenere compagnie in difficoltà come Aeroflot. A dicembre il Fondo aveva in cassa 186,5 miliardi di dollari, in febbraio 174,9.
Senza essere alimentato, il “fondo per i giorni di pioggia” rischia di esaurirsi in fretta. Il ministero delle Finanze è così tornato sui mercati interni del debito (quelli internazionali sono preclusi dalle sanzioni).
Nel 2022 ha emesso buoni del Tesoro (in russo Ofz, bond governativi) per 3,3 trilioni di rubli. I principali acquirenti sono le grandi banche di Stato a cui la Banca centrale aveva trasmesso crediti: stampando denaro, di fatto, per finanziare il deficit.
Alcuni economisti lo considerano un “Quantitative Easing alla russa”, altri criticano un'emissione monetaria nascosta che aumenta le pressioni dell'inflazione e costringe la Banca centrale a tenere elevati i tassi di interesse, ai danni della crescita.