Lasciamo fuori la dogmatica idea di frankie secondo cui più un pezzo/libro/film è lungo più è bello.
Vi riporto il testo che cominciai a scrivere quando andai a sentire di persona il quartetto - per dire che non parlo tanto per. Avrei voluto finirlo e pubblicarlo da qualche parte, temo che non accadrà quindi lo incollo qui. Spero aggiunga qualcosa al mio discorso, altrimenti mi ci rimetto appena ho tempo.
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Sono uscito dall'ufficio venti minuti prima del solito, sono scattato fino alla fermata dell'autobus nonostante sia poi arrivato all'ora che voleva lui. In balia dei trasporti pubblici non posso in alcun modo accorciare le distanze, ma proprio qui ha origine il paradosso: corro da fermo contro il tempo per andare a rimanervi bloccato dentro per quasi sei ore.
Oggi il Quartetto di Torino esegue integralmente uno degli inarrivabili monstra della musica del Novecento, il secondo quartetto per archi di Morton Feldman. Si comincia alle 18, si finisce – sperabilmente – entro la mezzanotte. Emergo dalla metropolitana già col fiato corto, l'esofago ancora intasato da un hot dog che ho preparato nella pausa pranzo e ingurgitato in pochi minuti nel tragitto della linea MM1. Attraverso il piazzale costeggiando l'intera facciata del Duomo, mi massacro i piedi sui sampietrini che portano a Palazzo Reale; col poco di autonomia respiratoria che mi rimane chiedo a un custode dove si svolge il concerto, supero il colonnato e galoppo sulla gradinata che porta a una reception; chiedo ancor prima di vedere le frecce che indicano la sala del concerto, sinistra poi destra, dritto e poi a sinistra, varco la soglia mentre si spegne l'applauso all'ingresso del Quartetto. Completamente senza fiato, cerco di incamerare qualche metro quadrato di ossigeno senza dare troppo nell'occhio, la testa mi scoppia, svolgo la sciarpa e la poso in cima alla giacca con la quale ho riempito il posto di fianco al mio.
Ce l'ho fatta. Riesco a sentire anche le note del primo cellulare che squilla, per fortuna pochi momenti prima dell'attacco, che viene pazientemente ritardato dal quartetto che, lo ricordiamo, ha davanti a sé quasi sei ore di mobilità limitata e totale concentrazione su un voluminoso spartito. È uno dei motivi che mi ha convinto a partecipare, e non per una sottoforma di sadismo musicofilo: se questi quattro cristi accettano di suonare per così lungo tempo (inversamente proporzionale al numero di note) davanti a poche decine di persone che nel corso della serata torneranno comode alle loro case e si sazieranno quanto gli pare, perché sprecare così un'intera serata è davvero folle – allora io lì devo esserci e rimanerci per un piccolo, estremo atto di rispetto verso questi eroi.
La mia bottiglietta d'acqua, non tanto per inumidire la bocca quanto per mandare ossigeno al cervello, ritrovare concentrazione.
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Ad ogni modo, se si decide di affrontare un'esperienza come questa, è bene farlo dall'inizio alla fine. Non so in quanti tra il pubblico – scarno già in partenza – avessero intenzione di fare altrettanto: sta di fatto che oltre la metà aveva lasciato la sala, in punta di piedi (o di tacco, mortacci loro) poco dopo quella che dev'essere stata un'ora abbondante di concerto. La reale cognizione del tempo si perde del tutto se ci si impone di non guardare l'ora ad ogni accenno di stanchezza.
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Ma più pensavo alla mia fatica, più mi immedesimavo in quella dei musicisti, che si facevano forza tra un cambio pagina e l'altro, riposizionandosi sulla sedia, distendendo le gambe e le braccia, guardandosi con complicità – nelle ultime due ore anche qualche sorriso di solidarietà.
per questo ho deciso di non spostarmi, rinunciando a vedere e ascoltare il quartetto più da vicino
E così sembrano aver fatto altri tre individui, gli unici rimasti come me per l'intera durata: due circa della mia età, un terzo decisamente anziano – un profilo e una camminata da Monsieur Hulot – che verso le nove (sempre una stima) ha ceduto controvoglia ad una pausa toilette/spuntino, vergognandosene anche, a giudicare dal capo chino.
Il termine della composizione si manifesta in un incrocio di note sussurrate, ripetute in maniera sempre più inconsistente fino al silenzio totale. Sei le persone rimaste in sala (me compreso), di cui solo quattro applaudono, cosa che noto con un certo sgomento. I battiti delle mani risuonano nella sala vuota come singoli rumori gettati lì per caso: il minimo che possa fare è ringraziare uno ad uno i musicisti, stringendo loro la mano. Il mio gesto porta uno dei due anziani signori che non hanno applaudito a chiedermi se io fossi il compositore. Completamente spaesato dall'assurdità della domanda – che logicamente ne implicherebbe molte altre – gli rispondo che no, il buon Morton Feldman è deceduto parecchi anni fa. Ribatte con fare altezzoso che, nel qual caso, mi avrebbe strangolato volentieri.
“Non ho mai sentito nulla di più lungo, banale e noioso in vita mia”.
[No comment]