Senza farne per forza una ragione di vita, penso che trasformare una cosa che ci piace in passatempo sia la morte di qualunque passione.
Detto questo, non penso che Satantango sia diventato un culto grazie all'azione di un manipolo di radical chic depressi: è un'esperienza che se affrontata per intero non può lasciare uguali a prima. Sono affascinato dalle opere che si sostituiscono alla vita, ti assorbono per un tempo così lungo da fartene perdere del tutto la cognizione. È la stessa sensazione che ho provato ascoltando dal vivo il secondo quartetto di Feldman: circa sei ore ininterrotte di armonie flebili, fuori dal mondo reale; è come entrare in uno sistema parallelo di geometrie piane e imperfette, dove si smette di cercare significati e si ascolta il tempo stesso che scorre, come materia appena palpabile.
Nel caso di Satantango (e di tutto il cinema maturo di Béla Tarr) si tratta di creare un'opera-mondo nella quale addentrarsi come in un progressivo stato di ipnosi, camminando e strisciando nel grigiore e nel fango di un'Ungheria idealizzata, metafora universale della condizione umana e del ripetersi ciclico di infamie, inganni, soprusi e indifferenza. Se sopraggiunge la noia è perché, in un certo senso, fa parte anch'essa del tessuto narrativo – come già scrissi, è "una realtà immota e immutabile, se non per il suo lento e inevitabile dissolversi".
esoteros
I have spoken softly, gone my ways softly, all my days, as behoves one who has nothing to say, nowhere to go, and so nothing to gain by being seen or heard.
(Samuel Beckett, “Malone Dies”)