Avendolo rivisto recentemente in tv, ho potuto confermare l'impressione positiva al cinema: film bellissimo.
Se nella prima parte l'hanno vinta certi vezzi del nostro, il fuoco mi sembra diverso da quello degli ultimi lavori. Via l'upper class di Manhattan, via quei ritratti incerti di borghesucci che coprono col tintinnio dei flutes il vuoto dei loro discorsi, via quella satira in fondo bonaria, via il sorriso complice, via la battuta memorabile già pronta per wikiquote. Non più distolta dal forzato innesto delle consuete griffe, la scrittura di Allen procede con scioltezza e le scene, appena un po' faticose all'inizio, si concatenano con fluidità sempre maggiore sino a esplicitare la natura teatrale del soggetto nella bellissima ultima mezz'ora, quando gli echi di O' Neil e Tennessee Williams si fanno più limpidi.
Sarà che amo quel tipo di teatro barocco, quelle fantasie sempre pronte a mutarsi in opera lirica, ma il terzo atto mi ha lasciato incantato. La differenza è che Allen vola un po' più basso dei suoi numi tutelari. Harold Bloom diceva di Blanche DuBois che era una whitmaniana fallita - come il suo autore - ma il nostro Woody ha sempre preferito vivere nel suo appartamento piuttosto che nei cuori degli americani e infatti il tormento dei suoi personaggi non eccita affatto la vitalità del loro desiderio, ma li lascia inerti vittime di un male, che non è atavico, ma sociale: la perdita dell'ordine interiore, della moralità. Incapaci di reagire secondo buon senso, imboccano una strada per rabbia, paura o desiderio: è un istante, ma il fatto è compiuto e la tragedia ha preso il suo La.
Se questo abbassa un po' il tono del discorso, non intacca la qualità sopraffina di una scrittura che non trovavo così intensa e partecipe da molti anni a questa parte. Siamo dalle parti di "Blue Jasmine", ovviamente, ma c'è anche dell'altro. Riconosco i meriti di Storaro, che ha svecchiato una certa tendenza da tempo presente in Allen alla pigrizia dello sguardo, ma la bellezza de "La ruota delle meraviglie", o, diciamo, i suoi meriti, non credo vadano ricercati nella cangiante tavolozza del direttore della fotografia; piuttosto credo siano nella partecipazione della scrittura e soprattutto nella resa attoriale - grandiosa la Winslet, ma in generale tutti in parte e ben diretti.
Ci sta che il perenne ripetersi dei temi possa stancare, però capisco una simile obiezione più verso film come "Irrational Man" - rivisitazione un po' stanca dei modi alleniani - o "Café Society" - fin troppo pigro, quasi una prova del nuovo digitale - ma qui mi lascia perplesso, perché l'accordo tra scrittura e mdp è nuovo e ottimo e la tensione al (melo)dramma, liberata dal peso dei soliti meccanismi, amalgama con grande scioltezza le nevrosi alleniane con la nostalgia di un immaginario che è sempre meno memoria culturale e sempre più fantasia letteraria.
In "Midnight in Paris" il protagonista, pienamente alleniano, incontra Hemingway e Fitzgerald, che parlano e si comportano secondo i modi del comune immaginario che le loro opere hanno imposto; qui è Allen stesso che incontra non le ombre di Arthur Miller, Tennesse Williams e Eugene O' Neil, ma direttamente il loro mondo interiore, mescolandolo col suo in ottimo equilibrio.