Posted 27 November 2013 - 11:32 AM
Per il mio blog ho provato a riordinare le mie idee in una specie di rece (ci ho preso gusto). Per non spammare, copio-incollo:
Antiviral è il primo film di Brandon Cronenberg, figlio d’arte, ma è solo l’ultimo film della nuova carne, filone horror sci-fi inaugurato dal padre ormai quasi quarant’anni fa (da Il demone sotto la pelle a eXistenZ il cinema di David Cronenberg ruota attorno a questa definizione). La nuova carne intesa come adattamento e mutazione del corpo e della mente dell’essere umano, esperimento e campo di battaglia evolutivo all’interno della società odierna o (più spesso) di società futuribili e molto vicine a quella attuale.
Esattamente in questi termini si presenta Antiviral, ambientato in un mondo dove per essere più vicini e in simbiosi con le star gli innumerevoli fan si fanno iniettare i virus dei vip, opportunamente prelevati e conservati. Le cellule di queste star vengono conservate anche per riprodurne i corpi e la carne, mangiata e assimilata da orde di ammiratori, simbolo di una nuova comunione. Il tutto presentato all’interno di un bianco asettico che avvolge ogni cosa, attraverso inquadrature algide e geometriche. La feroce analisi (critica) sociale lascia spazio al thriller, seguendo le disavventure di uno di questi venditori che finisce per iniettarsi un virus mortale, prelevato dalla star di turno (Sarah Gadon, Brandon eredita anche gli attori, non solo le paranoie dal padre). Il film va così ad avvitarsi in un thriller che perde progressivamente la tinta ospedaliera di quel bianco onnipresente, macchiato ora dal sangue e da un’oscurità dilagante. Lo stesso bianco agghiacciante torna verso il finale e preannuncia la conclusione che chiude il cerchio attorno alla nuova carne e alla sua adorazione. Il tutto passa attraverso una scena già cult dove viene preconizzato il finale, ma soprattutto attraverso la quale si cita esplicitamente il lavoro del padre, in una celebrazione non troppo forzata all’interno del film, ma evidente.
Brandon Cronenberg aggiorna quindi le paranoie del genitore portando avanti il cinema della nuova carne, attraverso una rappresentazione più pulita e geometrica rispetto al padre (soprattutto degli esordi). I mezzi tecnici a disposizione sono diversi, il budget evidentemente non è affatto limitato nonostante sia un’opera prima (ma d’altronde il figlio di David Cronenberg non è proprio mister nessuno). Proprio come miglior opera prima viene premiato al Toronto Film Festival l’anno scorso, presentato anche a Cannes l’anno scorso e a Sitges un mese fa.
Le principali critiche che si possono muovere al film sono l’incompiutezza della critica sociale che si perde un po’ per strada, la lunghezza leggermente eccessiva (108′, ma forse ne bastavano meno) e un po’ di autocelebrazione, o meglio celebrazione dell’opera paterna. Resta il fatto che per me è un film bellissimo, proprio per la geometria della regia, per l’uso minaccioso del bianco, per i temi del padre portati avanti, per la messa in scena tutta.
Consigliato a tutti gli amanti di David Cronenberg e non solo.