Per molto tempo, devo ammettere di essere stato vittima del pregiudizio dominante, secondo il quale il western italico degno di nota si esaurirebbe grosso modo con i 5 film di Leone, per cui visti e amati quelli, la storia può anche finire lì.
E invece. Nulla di più sbagliato: in mezzo alla sterminata produzione - che, senz'altro, ha dato i natali a molte pellicole trascurabili, talora orrende - si celano grandi e a volte grandissimi film, girati da signori registi, che possono tranquillamente essere considerati tali non solo dagli appassionati del genere.
Premesso sin d'ora il dovuto timore reverenziale nei confronti del Maestro Tom (competere con i contenuti del suo blog sul western sarebbe sintomo di follia incontrollata), e specificato che la lista di film a seguire non ha valenza organica né, tanto meno, pretese di completezza, vado ad elencare un po' di titoli, alcuni dei quali chiosati da qualche mio scarabocchio, già esternato su altri lidi, nella speranza di innescare una discussione che possa essere costruttiva ed utile all'approfondimento dell'argomento.
1965
Una pistola per Ringo (Duccio Tessari, 1965)

Il plot è ripreso da un vecchio poliziesco con Bogart, che adattato all'ambientazione western funziona benone.
Unica pecca, abituato come sono al marciume tipico dei western maccheronici e/o crepuscolari, sono le scenografie (eccessivamente posticce) e i costumi (lindi ed indossati da attori troppo "puliti"), che sanno un po' di carnevale di borgata. Se poi ci si aggiunge la "faccia d'angelo" di Giuliano Gemma (qua accreditato come Montgomery Wood), che risulterebbe acqua e sapone anche se abbondantemente cosparsa di sterco, il gioco (non) è fatto.
Va beh, tanto dopo un quarto d'ora di visione ci si fa l'occhio.
Il ritorno di Ringo (Duccio Tessari, 1965)
1966
Django (Sergio Corbucci, 1966)
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Che dire: un fumettone eccezionale, certamente tra gli spaghetti western migliori e più originali, con tutto quel fango, quella sporcizia, quelle ambientazioni al limite del gotico, e l'idea geniale del pistolero solitario che, anziché viaggiare a cavallo come i suoi colleghi, se ne va a zonzo a piedi, trascinandosi con indolenza una bara (con sorpresa).
Per l'epoca, ultra-violento (il picco, nella scena dell'orecchio, al limite dello splatter).
Noto, leggendo i pareri sul film in giro per la rete, che la meretricia zuffa fangosa è rimasta impressa a fuoco nelle menti un po’ di tutti.
La resa dei conti (Sergio Sollima, 1966)

Solidissimo spaghetti western di Sergio Sollima, con due grandi protagonisti: Lee Van Cleef (che a detta dello stesso regista, non aveva bisogno di recitare: bastava metterlo davanti all’obiettivo, et voila, les jeux sont fait. Certo, non si poteva fargli fare l’Amleto, ma per il western era perfetto, fenomenale) e Tomas Milian, reinventato per l’occasione nel suo ruolo naturale di latino americano (molti non lo sanno, ma è cubano).
Il paradosso del film è che, nonostante sia stato letto ed etichettato dai più come eminentemente “politico” (come un po' tutti i c.d. "tortilla western"), Sollima abbia in realtà operato un cospicuo lavoro di decontaminazione politica rispetto al soggetto originale, che disegnava il personaggio del fuggiasco messicano come un uomo di mezza età, più maturo e rivoluzionario convinto (si era pensato inizialmente a Gian Maria Volontè per il ruolo).
Proprio l’introduzione del Cuchillo, che alla fine, per quanto possa essere visto come un personaggio positivo, non è certo un eroe o un maître à penser, ma un semplice “rubagalline”, giovane, un po’ truffaldino ed infedele del sottoproletariato messicano (che manco sa usare la pistola: quasi una bestemmia in ambito western), aveva la funzione di mitigare l’attenzione del pubblico verso gli elementi più dichiaratamente ideologici della sceneggiatura, atteso che a detta dello stesso Sollima i film smaccatamente politici perdono di efficacia, politica innanzitutto.
Da evidenziare poi una serie di gustosissime peculiarità del film, a partire dal fatto che il Cuchillo, che non sa usare la pistola, se la cava sempre unicamente con il coltello (cuchillo in spagnolo, per l’appunto), al punto che il duello finale sarà un apparentemente impari pistola contro lama, assolutamente inedito e fuori dagli schemi. Poi, il personaggio del Barone Von Schulenberg, nato dal cinefilo gusto per la citazione di Sollima (è esplicito il riferimento e l’omaggio ad Eric Von Stroheim), ma anche la colonna sonora, eccezionale, di Morricone, che nel duello finale mescola senza pudore e con incredibile efficacia Beethoven con gli spaghetti western.
Insomma, un gran bel film.
Quién sabe? (Damiano Damiani, 1966)
Tempo di massacro (Lucio Fulci, 1966)
Navajo Joe (Sergio Corbucci, 1966)
Yankee (Tinto Brass, 1966)
1967
Se sei vivo spara (Giulio Questi, 1967)

Western assolutamente atipico e sui generis, molto violento (Giulio Questi dice di aver attinto per la rappresentazione delle scene più cruente ai suoi ricordi di partigiano durante la seconda guerra mondiale), che ammicca in più di un’occasione al genere horror, se non nella sostanza, certamente nella forma e nello stile.
Ma non solo: essendo il nostro uno dei registi più originali ed innovativi del periodo, convinto sostenitore del cinema come manifestazione della pop art, vari elementi del film possono essere letti in questa chiave. A partire dalla citata commistione di generi normalmente distanti da loro o dalla presenza di elementi bislacchi - come ad esempio il gruppo di cowboy omosessuali o le pallottole fatte d’oro - all’utilizzo molto peculiare del montaggio, del fuori fuoco e della fotografia, a tratti luminosissima, al limite della sovraesposizione, in piena dicotomia con il buio morale della maggior parte dei personaggi.
Epocale la scena iniziale, quando la mano di Tomas Milian, ferito ma ancora vivo, spunta a mo’ di zombie dalla buca che lui stesso si era scavato sotto minaccia (Kill Bill Vol. 2?), così come la colata aurea sul finale…!
Faccia a faccia (Sergio Sollima 1967)
I giorni dell'ira (Tonino Valerii, 1967)
10.000 dollari per un massacro (Romolo Guerrieri, 1967)
Da uomo a uomo (Giulio Petroni, 1967)
El desperado (Franco Rossetti, 1967)
1968
Corri uomo corri (Sergio Sollima, 1968)

L'episodio più debole della trilogia western di Sollima. Anche perché reggere il confronto con due filmoni come "Faccia a faccia" e "La resa dei conti" non è certo affare di poco conto.
Il film - che è tutt'altro che brutto, ed è magistralmente diretto dal bravissimo "terzo Sergio" degli Spaghetti Western, sia chiaro - forse patisce un po' il non perfetto equilibrio tra le parti più scanzonate e quelle più cruente e drammatiche, che certo non mancano.
Il mercenario (Sergio Corbucci, 1968)
Ognuno per sé (Giorgio Capitani, 1968)
...e per tetto un cielo di stelle (Giulio Petroni, 1968)
I Quattro dell'Ave Maria (Giuseppe Colizzi, 1968)
Se incontri Sartana prega per la tua morte (Gianfranco Parolini, 1968)
Tepepa (Giulio Petroni, 1968)
1969
La collina degli stivali (Giuseppe Colizzi, 1969)
Ehi amico... c'è Sabata, hai chiuso! (Gianfranco Parolini, 1969)
Cimitero senza croci (Robert Hossein, 1969)
La notte dei serpenti (Giulio Petroni, 1969)
Sono Sartana, il vostro becchino (Giuliano Carnimeo, 1969)
La taglia è tua... l'uomo l'ammazzo io (Edoardo Mulargia, 1969)
1970
Buon funerale, amigos!... paga Sartana (Giuliano Carnimeo, 1970)
E Dio disse a Caino (Antonio Margheriti, 1970)
Mátalo! (Cesare Canevari, 1970)
Vamos a matar, compañeros (Sergio Corbucci, 1970)
1971
Testa t'ammazzo, croce... sei morto! Mi chiamano Alleluja (Giuliano Carnimeo, 1971)


Il titolo da solo vale il prezzo del biglietto. Fatta questa doverosa premessa, il film è un onesto spaghetti western, ben diretto, con una marcata componente comica, che affiora a tratti con alcune trovate davvero esilaranti (la macchina da cucire, l'operazione con il cavatappi, la presenza di un personaggio improbabile come il cosacco, et cetera).
Promosso con riserva.
1972
Il grande duello (Giancarlo Santi, 1972)

Mezzo punto in più per il tema musicale ricorrente, composto da Bacalov, non a caso ripreso da quella vecchia volpe di Tarantino nel suo capolavoro citazionista Kill Bill.
Per il resto, il film mi pare davvero sottovalutato, essendo diretto con buonissima tecnica (che ha l'unico "difetto" di essere troppo leoniana, essendo stato Santi aiuto regista di Sergione in almeno un paio di film della trilogia del Dollaro), interpretato da ottimi attori (Lee Van Cleef su tutti, che sa fare solo un personaggio ma qua lo fa alla grande, e che dire dei fratelli Saxon? Fantastici) e corroborato da una solida sceneggiatura, che sembra rifarsi per certi aspetti più al genere poliziesco che non al western tout court.
L'unica stonatura, a mio avviso, è rappresentata da un paio di scene eccessivamente acrobatiche nei primi minuti del film, più consone a un Trinità che a un film come questo.
Il mio nome è Shangai Joe (Mario Caiano, 1972)
Una ragione per vivere e una per morire (Tonino Valerii, 1972)
1975
I Quattro dell'apocalisse (Lucio Fulci, 1975)
1976
Keoma (Enzo G. Castellari, 1976)

Ultimo colpo di coda del genere. In un'epoca in cui il western all'italiana è ormai decotto, sul viale del tramonto e ostaggio della più becera e insulsa comicità da osteria, Castellari se ne esce con questo grande film, colmo di simbolismi, che, a onor del vero sembra rifarsi più al western crepuscolare americano per le ambientazioni e a Peckinpah per lo stile registico (uso del ralenty, montaggio frenetico, al limette del convulso), che non agli "spaghetti" d'antan.