1993 Superpinkymandy
Reperto sonoro pieno di vezzi e tic tipicamente inglesi di quegli anni, ma come gia' processati nella ruggine dell'indie-folk ''sgangherabile'' che da li' a poco avra' Beck come suo profeta. Il disco di una squinzia da dancefloor che trova la poesia tra echi baggy, fiorellini dance e spazzatura elettropop. Tutto fico e avanti, anche se poi il mio cuoricione batte per l'episodio piu' tradizionale: la strappacuori ''Where Do You Go''. A 23 anni la Orton dava gia' prova di sostanza, ma anche di un'ironia che poi forse un po' perdera'.
1996 Trailer Park
Nel video della rinnovata ''She Cries Yor Name'' appare come una splendida magretta trasandata e la foto di copertina trasmette naturalezza senza orpelli. Segnali che sembrano in contrasto con la note sperimentazioni elettro dell'album e con gli arrangiamenti ricchi e curati anche dei pezzi piu' tradizionali. Ma la magia dell'album nasce proprio dall'approccio adorabilmente ''innocente'' della Orton, che con apparente semplicita' e persino fragilita' fa stare perfettamente una fianco all'altra canzoni che sembrano provenire da almeno tre dischi diversi. Il che inizialmente puo' spiazzare, come accaduto a me, finche' non si coglie la poetica da disco ''bazar'', dove le cullanti e argentine vibrazioni dei pezzi folk e contry pop si dilatano negli spazi astrali dai tre lunghi raga elettronici che segnano l'inizio, la meta' e la fine dell'opera. Un classico di dorata atemporalita'.
1999 Central Reservation
“Ma eri consapevole di star registrando uno dei dischi più importanti della storia?” dice di averle chiesto una volta, con la sua consueta melensaggine, quel trombone di Paolo Vites, “No, ero fuori di testa e incasinata come al solito”, avrebbe risposto lei, dandogliela buona e smarcandosi dal probabile imbarazzo. Ma la domanda suona meno retorica e la risposta meno finto-modesta una volta ascoltato il disco. Perche' non sara' uno uno dei dischi più importanti della storia, ma un disco di una bellezza devastante lo e' di sicuro, o comunque uno dei piu' belli di quella fine milennio. E in effetti sembra anche una di quelle opere figlie di un'anima incasinata, tanto si percepisce la confusione creativa da cui puo' nascere un disco cosi', con ogni canzone che sembra un'isola rispetto all'altra. Vivere e sapere cogliere l'attimo presente e' uno dei temi ricorrenti dell'album, e infatti a unire queste ''isole'' in un unico mappamondo folk-rock e' quella quasi sempre inafferrabile bellezza che nasce nei momenti in cui il caos diventa armonia. A farlo girare, quel mappamondo, e' un'ispirazione in totale stato di grazia, mentre l'intensita' delle interpretazioni e' la lampadina che lo illumina da dentro. E mannaggia a me che c'ho messo 21 anni ad arrivare ad ascoltarlo.