GUCCINIADE OTTAVA
OVVERO, A PENSARCI UN ATTIMO, IL PER NULLA SCONTATO FATTO DI METTERE IL PROPRIO INDIRIZZO COME TITOLO DI UN ALBUM E POI ABITARE VERAMENTE A QUELL'INDIRIZZO"Nel 1976 via Paolo Fabbri entra nel mondo della canzone. Forse perche' ispirato da un nuovo amore, il disco venne fuori esattamente come lo avevo immaginato, bello ed entusiasmante. Ancora oggi mi piace moltissimo, compresa la copertina, mentre quella di STANZE era orrenda. Curiosamente, la mia foto sulla copertina di Via Paolo Fabbri 43 e' la stessa, solo piu' sgranata, che era stata precedentemente inserita sul retro di STANZE: uno scatto preso da mia moglie a Santorini, in Grecia, nel 1971. Quella foto sarebbe diventata, tra le tante cose, anche un po' il mio simbolo[...]” (Come dunque alla settima sortita discografica arriva un disco che finalmente soddisfa anche il poco soddisfabile autore.)
1976
Via Paolo Fabbri 43 No, sul serio: un cantante di gia' affermata fama che mette il proprio vero indirizzo come titolo di un suo album. Scelta come minimo azzardata oggi, ma pure in quegli anni li', che saranno stati mediaticamente anni piu' semplici, ma erano pure gli anni dei "processi" ai cantautori e dei tanti grilletti facili, di ogni colore politico. Una scelta in cui c'e' tutta l'ambivalenza che rende affascinante il personaggio Guccini. Da una parte l'anti-divismo, quel proporsi schietto e senza filtri stile
"toh, io sono esattamente qui, se mi cercate", dall'altra la coscienza di poter trasformare a colpi di musica e poesia anche il proprio anonimo indirizzo in racconto, icona, mitologia.
Il consolidarsi dell'immaginario gucciniano passa anche per la ben nota copertina. Immagine diventata uno dei simboli di quegli anni, anche se e' solo uno sfocato primissimo piano, il faccione dell'autore che fa un po' effetto Guevara e un po' effetto foto segnaletica. Vien da chiedersi quanto sia involontario e quanto consapevole quell'effetto pop art dovuto all'ingigantimento della retinatura per via dell'ingradimento: il Guccini un po' come le Marilyn di Warhol? Come raccontato qui sopra dall'autore, l'immagine e' infatti un particolare ingrandito di uno scatto estemporaneo, quindi la foto di una foto, un ricordo privato di una vacanza che, attraverso una rielaborazione e una selezione, diventa un'icona pop: niente di piu' specificatamente e intimamente gucciniano, in effetti.
(Essendoci in fondo cresciuto con quell'immagine li' sotto gli occhi, per me fa
"quei fantastici giorni all'asilo" almeno quanto il fruscio dei pantaloni a zampa e l'odore delle moquette dai colori improbabili. Anche se poi proprio di questo disco mio padre possedeva solo la musicassetta e non il vinile, e a causa delle parolacce de "L'avvelenata" non la metteva mai su in presenza di noi figli.)
"Via Paolo Fabbri 43" e' un po' l'album-luogo-comune di Guccini, quello che piu' lo rappresenta in tutto e per tutto. Insieme a "Radici" il suo piu' famoso, con tre canzoni su sei che sono dei classici assoluti e le altre tre appena sotto nell'immaginario degli appassionati. L'album che, trascinato dallo scandalo de "L'avvelenata", sancisce la definitiva esplosione della vera fama e del piu' solido successo commerciale. E' anche l'album in cui, con suo gran sollievo, mettera' definitivamente da parte le gia' per altro vaghe tendenze "rock" degli anni precedenti. Niente piu' influenze prog, esoterismi strumentali, timide sfumature psichedeliche, ma un folk-blues prosaico e terreno, adeguatamente avvicinato alla tradizione popolare italiana, con frequenti puntate in pertinenti e austere atmosfere francesi.
Lato APiccola storia ignobile 6:55
Mentre la' fuori infuriava, incandescente, il dibattito sull'aborto legale (in attesa della legge e del successivo referendum) nel piccolo cosmo notturno di questa canzone assistiamo invece a un doloroso e disincantato dialogo tra un uomo e una donna, amici, dove ognuno verifica nell'altro la propria impotenza sulle cose della vita. Niente prediche, ma un umano ritratto di famiglia in un interno, il graffiante affresco di un universo piccolo borghese, imprigionato dalla ristrettezza delle proprie stesse vedute, avvelenato da un'ipocrisia che rende vittime prima di tutto i carnefici: il padre
"che mise via quella bottiglia per il giorno del tuo matrimonio", la madre che
"l'ha fatto quasi sempre per dovere" (dove quel "quasi" e' uno di quei tocchi che rendono Guccini speciale), il Lui che
"ha trovato i soldi". La denuncia finale (
"i politici han ben altro a cui pensare") e' disinnescata dall'ammissione che oltre a
"qualche frase usata" non e' possibile andare. Lo stato di grazia che illumina tutto il disco e' fin da subito verificabile da come quest branoo, il piu' potenzialmente databile dell'album, resti ancora vibrante e sentito. Sul piano musicale e' un bizzarro e azzeccato mix tra una base cool alla Lou Reed (esplicita la citazione inziale di "Walk on the Wild Side") e una melodia popolaresca da cantastorie di paese.
Canzone di notte n. 2 4:59
La canzone che meglio spiega come in quell'italico 1976 il Guccini fosse uno dei personaggi piu' cool sulla piazza. Il manifesto filosofico in punta di chitarra, lieve/pesante, ironico/arrabbiato, "happy/sad", di un gigante gentilmente barbuto e moderatamente cappellone, con il suo "eskimo innocente", i suoi maglioni e i jeans. E quella bottiglia di vino che tanti equivocheranno: non simbolo di sfascio e vita spericolata alla Steve McQueen, ma di ebrezza rimuginante alla Philip Marlowe. C'e'
una scena in "I giorni cantati", mediocre film del mediocrissimo Paolo Pietrangeli, che con rozza efficacia fotografa bene il momento: il protagonista (lo stesso Pietrangeli) si imbatte in un solitario Guccini che suona, appunto, "Canzone di notte n. 2" fuori da un'osteria e sogna di essere al suo posto, li' a cantare, sotto lo sguardo della sua donna. E chi, soprattutto sotto gli occhi di una donzella, non vorrebbe dare identico sfoggio di grandezza paroliera, disincantata saggezza e fascino tabagista? In mezzo a una pioggia di versi da imbottigliare e mettere via, uno quanto mai attuale:
"Purtroppo, non so come, siete in tanti e molti qui davanti, che ignorano quel tarlo mai sincero che chiamano Pensiero". L'avvelenata 4:41
Uno dei suoi due o tre brani piu' famosi e quello che fece esplodere la guccini-mania. Un bel paradosso se si considera che il brano era nato anche come polemica nel veder compromesso dal successo lo spirito bohémien dei cantautori, e invece da qui in poi soldi e successo cominciarono a piovere anche sulla testa dell'incolpevole Guccini: quando si dice la malasorte. Alla lunga brano poco sopportato dall'autore, che lo vedeva come un pezzo figlio di una sua incazzatura estemporanea e di un'epoca ben precisa che non aveva senso replicare. Prima di abbandonarla negli ultimi anni, nei concerti ne eseguira' sempre versioni ironicamente svogliate o apertamente comiche: da scompisciarsi la versione che gli vidi fare a Trento davanti all'Arcivescovile, con continue interruzioni per "scrutare" se dalle finestre del pio edificio dessero segni di reazione davanti al celebre torpiluquio. La storia e' nota: canzone/sfogo nata per i concerti, che inizialmente neanche doveva essere incisa, scaturita da una velenosa recensione dell'immortalato Bertoncelli ai danni di "Stanze di vita quotidiana", ulteriormente invelenita dal clima di perenne contestazione durante i concerti e da episodi come il "processo" al Palalido di De Gregori. Quattro minuti di memorabile e rabbioso sarcasmo, uno sfogo totalmente personale, ma talmente efficace da diventare universale, applicabile alle incazzature quotidiane di chiunue, anche non corredate dell'artistcita' del Nostro. Allegerisce una coda strumentale finto-trionfale, un po' "Arancia meccanica”, un po' filmetto scosciato con la Fenech.
Lato B Via Paolo Fabbri 43 8:15
Una canzone per
"party con gatti e poeti", ambientata all'alba, come un po' tutto il lato B, che ha un'atmosfera mattutina, cioe' quando il Nostro andava a dormire, visto che faceva vita rigorosamente nottambula. Autoritratto dal sapore pop (anche se - scandalo ondarockiano! - dal genere prende le distanze nella canzone stessa) tra "krapfen e boiate", libri, fumetti, giullari e gatti. Frecciatine a colleghi (De Andre', De Gregori, Venditti) e al mondo musicale delle "elettriche", omaggi a Borges e ad antichi poeti persiani (Khayyam). Un continuo, ironico ma inamovibile, chiamarsi fuori dalla modernita' e del "nuovo" a tutti i costi, con tutto il loro corollario di chiassosita', velocita' e retorica:
"Gli eroi su Kawasaki coi maglioni colorati van scialando sulle strade, bionde e fretta, personalmente austero vesto in blu perchè odio il nero e ho paura anche d'andare in bicicletta". Coerentemente non prendera' mai neanche la patente della macchina. Musicalmente e' un blues "biondo" ed elegantemente decorato, probabilmente l'effetto che si voleva forse ottenere sul disco precedente. L'ispirazione di base arriva dai due piu' celebri brani-fiume di Dylan: "Desolation Row", da cui riprende l'idea di una strada affollata di icone e citazioni culturali, ma con i piu' - appunto - l'ambizione, la faccia tosta, il rischio e l'ironia di mettersi al centro di quell'immaginario, con tanto di vero indirizzo di casa, e "Sad Eyed Lady of the Lowlands", da cui riprende le invocazione trobadoriche ad un ideale femmineo, a cui pero' fa sempre da contraltare una notazione autoironica (
"che mamma mi trovi pulito qui all'alba in via Fabbri 43!") con quel
"quarantatre" calcato con prosopopea fantozziana.
Canzone quasi d'amore 4:13
Dove nel titolo la parola piu' importante del titolo e' logicamente quel
"quasi". Sarebbe divertente prenderla davvero come una canzone d'amore, che non ci si imbatte tutti i giorni una canzone romantica la cui ultima parola e' "grattarsi". Ma se lo spunto di partenza e' indubbiamente l'inizio della storia d'amore con la nuova compagna (anni piu' tardi "Farewell" e "Quattro stracci" ne racconteranno la fine), nei fatti e' un'altra prosaica e disillusa esplorazione esistenziale, che l'amore e' bello e' caro, ma non c'e' mica tanto da ridere, dato che alla fine
"siam tutti soli ed è nostro destino tentare goffi voli d'azione o di parola, volando come vola il tacchino". In allegria ci si inoltra dunque in un'atmosfera lattiginosa e velata, eppure pardossalmente positiva, che
"il vuoto" e il
"tedio a morte del vivere in provincia" si sopportano meglio in piacevole compagnia. Le nebbie del testo galleggiano sull'arrangiameto minimale, un sottofondo di tastiere e clavicembalo che crea un clima onirico e sfocato. La melodia, che rispovera l'antico e poi sempre piu' importante amore per Brel, mi pare piu' elaborata del solito, di aromi quasi settecenteschi o chesso' io. La parte cantata e' un'unica indolente tirata, in cui forse si cristalizza definitivamente uno stile e un modo di cantare che e' solo di Guccini, con quella peculiare miscela di canto, recitazione e dialogo, praticamente impossibile da coverizzare e riprodurre. Guccini ci arrivera' solo molti anni dopo a scrivere la sua prima vera canzone d'amore senza "quasi", la prima delle due da lui scritte: "Vorrei" e "Certo non sai".
Il pensionato 4:26
Il mondo si divide in due categorie, chi considera questa canzone uno dei piu' amari e struggenti capolavori della storia della musica e chi non l'ha mai sentita. Ci sarebbe anche una terza categoria, ma gia' deve essere brutto vivere una vita senza un'anima e un cuore, quindi non infierisco. Il protagonista della canzone e' il signor Mignani, sarto in pensione che davvero abitava in un monolocale a pianterreno della casa di via Fabbri. Personaggio casualmente importantissimo per la carriera di Guccini, dato che oltre ad ispirare questo suo classico era stato lui a raccontare a Guccini il dimenticato fatto storico alla base de "La locomotiva". Nonostante la differenza d'eta' tra i due c'era una profonda amicizia. Si incrociavano la mattina, quando l'anziano pensionato si alzava e il giovane nottambulo rincasava. Si narra che una della rare volte in cui Guccini ha cacciato di casa dei suoi fan fu quando alcuni di questi lo criticarono dopo averlo visto salutare in modo troppo "borghese" il Mignani dandogli del lei. Mi sono sempre chiesto che effetto facesse a persone come Mignani o il Frate sentirsi ritrarre in canzoni cosi', splendide, ma anche spietate. Altro brano ispirato alla piu' aristocratica scuola francese, e' uno dei suoi massimi ritratti-specchio, in cui partendo dalla desrizione dalla luce di una
"lampadina fioca, quella da trenta candele" arriva a creare un buco nero universale, fatto dei dubbi di chiunque si ponga quel paio di domande sulla vita.
Probabilmente la canzone colpevole di aver innescato in me la passione per l'autore, anche perche' mi impressionava e continua a impressionarimi come descriva con inquietante precisione una situazione che ho vissuto da bambino: la presenza a casa mia del signor Billi, un anziano miliare in pensione a cui i miei nonni avevano affittato un monolocale. Pur avendolo avuto sotto casa per dieci anni e averlo visto quasi ogni giorno, di lui ricordo il fortissimo odore di acqua di colonia che proveniva dal suo appartamento e quasi nient'altro, davvero
"soltanto un'impressione che ricorderemo appena".