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Francesco Guccini


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187 replies to this topic

#51 Greed

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Inviato 27 luglio 2008 - 09:28

Ok, grazie dei consigli..

[quanto è un genio quando fa l'Avvelenata live ?]
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#52 Guest_BillyBudapest_*

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Inviato 27 luglio 2008 - 10:13

cyrano è molto a presa rapida, però è anche abbastanza ruffianetta. Alla fine si, ci sta tra quelle da sentire proprio per quello. Non è tra quelle profonde, però è sicuramente d'impatto (non è sua tra l'altro, come venezia del resto)


Come no. Solo che l'ha scritta insieme a Dati & Bigazzi quelli che hanno composto i classici di Marco Masini.
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#53 Guest_materasso-divino_*

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Inviato 27 luglio 2008 - 11:09

tre meravigliose canzoni d'amore:
Quattro stracci
Vorrei
Farewell [per me la più bella scritta dal guccio]
Piccola Storia Ingnobile [non d'amore ma sull'aborto]
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#54 dick laurent

    ...

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Inviato 27 luglio 2008 - 11:38


cyrano è molto a presa rapida, però è anche abbastanza ruffianetta. Alla fine si, ci sta tra quelle da sentire proprio per quello. Non è tra quelle profonde, però è sicuramente d'impatto (non è sua tra l'altro, come venezia del resto)


Come no. Solo che l'ha scritta insieme a Dati & Bigazzi quelli che hanno composto i classici di Marco Masini.


gli autori sono quelli che ricordo anche io, solo che io so che praticamente Guccini modificò una canzone preesistente. Poi può darsi benissimo che mi ricordi male. Su Venezia invece sono certo
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dai manichei che ti urlano o con noi o traditore libera nos domine


#55 dick laurent

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Inviato 27 luglio 2008 - 11:40

tre meravigliose canzoni d'amore:
Quattro stracci
Vorrei
Farewell [per me la più bella scritta dal guccio]
Piccola Storia Ingnobile [non d'amore ma sull'aborto]


Quattro stracci piace molto anche a me. Farewell è considerata un classico, ma faccio eccezione, mi è sempre piaciuta poco (così come Eskimo)
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dai manichei che ti urlano o con noi o traditore libera nos domine


#56 Guest_BillyBudapest_*

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Inviato 27 luglio 2008 - 11:44



cyrano è molto a presa rapida, però è anche abbastanza ruffianetta. Alla fine si, ci sta tra quelle da sentire proprio per quello. Non è tra quelle profonde, però è sicuramente d'impatto (non è sua tra l'altro, come venezia del resto)


Come no. Solo che l'ha scritta insieme a Dati & Bigazzi quelli che hanno composto i classici di Marco Masini.



gli autori sono quelli che ricordo anche io, solo che io so che praticamente Guccini modificò una canzone preesistente. Poi può darsi benissimo che mi ricordi male. Su Venezia invece sono certo


Non so come sia stata la dinamica di composizione, so solo che ho visto gli autori nei crediti del disco e ho esclamato "oh, santi numi".
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#57 Greed

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Inviato 27 luglio 2008 - 21:32

In "La Genesi" quando dice "Mentre pensava a se' stesso pensante" è un riferimento al Dio di Aristotele?
Perchè ero sulla pagina di Opera Buffa su wikipedia e l'ho aggiunto  :D

EDIT: Dio è morto è solo nei live?
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#58 Tom

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Inviato 28 luglio 2008 - 08:17




cyrano è molto a presa rapida, però è anche abbastanza ruffianetta. Alla fine si, ci sta tra quelle da sentire proprio per quello. Non è tra quelle profonde, però è sicuramente d'impatto (non è sua tra l'altro, come venezia del resto)


Come no. Solo che l'ha scritta insieme a Dati & Bigazzi quelli che hanno composto i classici di Marco Masini.



gli autori sono quelli che ricordo anche io, solo che io so che praticamente Guccini modificò una canzone preesistente. Poi può darsi benissimo che mi ricordi male. Su Venezia invece sono certo


Non so come sia stata la dinamica di composizione, so solo che ho visto gli autori nei crediti del disco e ho esclamato "oh, santi numi".


Copio incollo, direttamente da Guccini:

[...]Cyrano, che di partenza non è mia, come Keaton era di Claudio Lolli. Me la fece ascoltare in prima battuta Beppe Dati, senza dirmi che la musica era di Bigazzi, contro il quale, sia chiaro, non ho nulla, sebbene lui sia spesso criticato per le canzonette che compone per Masini e compagnia bella. Trovai la musica di Cyrano molto bella e il testo di Dati molto interessante, anche se troppo "storico" e filologico. Cambiai perciò molte cose, attualizzandola e personalizzandola, insomma. C'era un verso, ad esempio, che diceva: "Mia madre non mi amava, sorelle non ne ho avute". Non avrei mai potuto cantare una cosa del genere.

Qui Guccini è diplomatico, ma ricordo una sua intervista ai tempi del boom di Masini in cui era piuttosto infastidito dei numerosi "prestiti" che la coppia Bigazzi/Masini si prendeva dalla sue canzoni a livello di testi (una delle più famose di Masini all'epoca - non chiedetemi il titolo -  era praticamente un remake di "Piccola storia ignobile").   

Dio è morto è solo nei live?


Sì, non l'ha mai incisa in studio.  
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#59 clapat71

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Inviato 28 luglio 2008 - 16:54

Per cominciare con Guccini, io prenderei 'Dalla via Emilia al West'. C'è tutto l'essenziale, arrangiato egregiamente. E preferisco sempre i live alle raccolte, perché sono musicalmente più coerenti.
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#60 Greed

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Inviato 31 luglio 2008 - 16:43

Per cominciare con Guccini, io prenderei 'Dalla via Emilia al West'. C'è tutto l'essenziale, arrangiato egregiamente. E preferisco sempre i live alle raccolte, perché sono musicalmente più coerenti.


Ho trovato un Guccini Live Collection tra i dischi di mio padre, e ci sono quasi tutte le canzoni che mi avete consigliato.

A parte ciò, penso che 3-4 dischi interi li ascolterò. Ho anche qualche LP e "Stagioni"
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#61 Syddharta

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Inviato 06 dicembre 2010 - 13:15

Riprendo un attimo questo topic per esprimere un parere personale. Stasera devo andare a vedere una casa in via Paolo Fabbri. Ieri pomeriggio, dopo aver preso appuntamento con il proprietario, mi sono reso conto di non avere mai ascoltato la celeberrima canzone di Guccini e di conocere del cantautore emiliano giusto un paio di pezzi (forse è l'antipatia nutrita nei confronti del personaggio che non mi ha mai fatto avvicinare alla sua musica). Così ho deciso di ascoltare quelli che sono ritenuti i suoi dischi fondamentali, "Radici" e "Via Paolo Fabbri 43". Solitamente ci si affeziona ai cantautori italiani perché sono quelli che mamma e papà ti facevano ascoltare da piccolo. Ecco, a casa mia di Guccini non c'è un disco. E adesso posso dire con certezza "per fortuna". Mi sono domandato tutta la notte come abbia fatto ad avere un tale successo uno così: voce sgradevole, musica inutile, testi autoindulgenti e spesso privi di un messaggio compiuto. Anche quando vuole spararla grossa e impressionare usando termini tabù come sperma e masturbazione, il Guccio mi dà l'impressione di suonare banalotto, finto-intellettuale, come l'eterno impegnato che però se la tira troppo per non mandare affanculo quelli deliberatamente impegnati. Flussi di coscienza privi totalmente di piglio, scarso senso della metrica. Musica muffosa, mai una bella melodia, sempre la solita acustica accompagnata da musicisti più (Tempera, Rizzi) o meno (Tavolazzi, Vandelli) tamarri. Pezzi di otto minuti di seghe mentali ma mai gusto negli arrangiamenti (penso al De Andrè di "Creuza de Ma", "NADNAANAC", "Tutti morimmo a stento" o anche solo, per volare più basso, allo squisito De Gregori di "Rimmel"). Insomma, forse è proprio il caso di dire è tutto una merda.


M.
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M.

 


#62 vrummel

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Inviato 06 dicembre 2010 - 16:33

Non volevo dire nulla sull'intervento qua sopra, perchè mi sembravano onesti pareri personali a cui nulla si può rispondere se non un inutile "io la penso diversamente"; poi però mi sono imbattuto in "scarso senso della metrica" attribuito a Guccini, di fronte al quale non si può tacere: se le canzoni di Guccini hanno un pregio, questo risiede proprio nella metrica perfetta...
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#63 Tom

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Inviato 21 agosto 2014 - 22:46

*
POPOLARE

GUCCINIADE PRIMA
OVVERO COME CON TUTTA LA NUOVA MUSICA CHE AVREI LÌ DA ASCOLTARE MI VADO A RIASCOLTARE ROBA CHE CONOSCO A MEMORIA E CI SCRIVO PURE SOPRA UN ROMANZO


1967c.jpg

Milano, inverno 1966. Studi di registrazione della EMI.
"[...]Andammo a Milano a registrare molto intimoriti. L'impatto fu devastante. I tecnici del suono indossavano tutti camici bianchi e parevano dottori. Noi assolutamente fuori posto, sembravamo i malati. La loro prima domanda fu: "A quante piste volete incidere?" "Quante ne avete?" replicai io. "Due o quattro." Sapendo che i Beatles ne usavano otto dissi che mi accontentavo di quattro. E uno dei tecnici, il loro capo: "E cosa pensate di registrare, un'opera lirica?" Incoraggiante. Sempre lo stesso capotecnico, dopo aver ascoltato Auschwitz disse: "Ma a lei piacciono davvero queste canzoni?". Risposi timidamente di sì, che ci credevo. "Ascolti me, cambi mestiere oppure, se proprio vuole ostinarsi a cantare, cambi genere, perché mi mette addosso una tristezza che mi viene voglia di suicidarmi." Per tiragli su il morale composi In morte di S.F. [...]."

1967 Folk Beat n.1

Un disco poco ascoltato pieno di canzoni ascoltatissime. Trascurato dallo stesso autore, che ne ha sempre trovato un po' da patacca anche il titolo, ma poco sentito anche dagli appassionati, che in genere conoscono altre versioni delle canzoni più (stra)famose e magari ignorano (miseri loro) l'esistenza di altri gioielli misconosciuti ivi contenuti.
Però, in effetti, bisogna dirlo, Folk Beat n.1 presenta un Guccini che non è ancora esattamente "il" Guccini.
Intanto la dizione è sgraziatissima ("e capirai" dirà qualche insensibile al fascino guccinano), con la famosa erre blesa che risalta in maniera davvero tragica (si "PIU' tragica", rispondo già all'insensibile di cui poco fa) e quasi priva di quel tono... boh... baritonale? Ma sì, "baritonale" che la renderà inconfondibile. Poi gli arrangiamenti sono praticamente inesistenti (e no, questo, caro il mio insensibile e anche un poco ignorante, per il Guccini non è affatto la norma) e il tutto è registrato in modo men che pessimo.

E però... che il però doveva arrivare naturalmente, se no che guccinano del cazzo sarei?... "però" è una di quelle opere i cui i difetti diventano pregi. Originale come difesa, no? Però (e dai) è così, e se uno non ci sta fa meglio a smettere di leggere, che sarà un profluvio di notazioni stile "la confezione noncurante trasmette un'irresistibile aria di presa diretta" o "l'involontario lo-fi da al tutto un che di segreto e fuori dai giochi canori del tempo". Tanto fuori dai giochi che venderà meno di 500 copie. Che Guccini si era montato la testa e si credeva meglio dei Velvet Underground.

1967a.jpg

Lato A

Noi non ci saremo 5:15
La prima canzone del primo disco dell'autore che più di tutti rimuginerà su memoria, passato e autobiografia è una canzone sul tristo destino universale e su un futuro post-umano di inconcepibili distanze. Ma non è - non sarà - un paradosso, perché il verso grandioso e terribile "MA noi non ci saremo" è il punto di partenza imprescindibile di tutte le elucubrazioni a venire sulla vita e sul passato, ciò che rende la poetica di Guccini tra le più profonde, vaste e inesauribili di significati. Provvista di uno dei rari e più riusciti ritornelli guccinani, è ispirata (oltre che da una balorda interpretazione di Mr. Tamburine Man di Dylan) all'incubo atomico, ma la componente "di protesta" è ampiamente superata e relativizzata, tanto che la canzone può essere anche letta in senso ottimistico, con il mondo e la vita che vanno avanti nonostante l'uomo. La fragile resa su disco della canzone, con le chitarre strimpellate alla bell'e meglio e la voce incerta e acerba, enfatizza per contrasto l'enormità della tematica. Per me, meglio di così non poteva cominciare.

In morte di S. F. (Canzone per un amica) 3:41
Una delle canzoni "luogo comune" dell'autore, in Italia conosciuta e orecchiata da chiunque. Buona sia per funerali di giovani incidentate che per chitarrate in amicizia attorno falò sulla spiaggia o in campi scout. (Io che son simpatico la canto sempre a squarciagola a morosa e amici appena tipo imbocchiamo un'autostrada - questo se è giorno: di notte canto "e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi e' tanto difficile morire" e spengo i fari per un secondo... dio che simpatico che sono.) Una canzone tanto celebre fu composta quasi sul momento, un paio di giorni prima di essere incisa, sull'onda emotiva della morte di un'amica del cantante. Anche per questo è una delle composizioni più semplici e trasparenti di Guccini, ma anche una di quelle che funzionano alla grande. Prego infatti notare la descrizione quasi cinematografica del viaggio e dell'incidente, la serie di dubbi angosciosi che portano all'eterna domanda che tornerà cento altre volte in cento altre sue canzoni ("a che cosa è servito vivere, amare, soffrire?"), l'unica consolazione legata alla memoria e al ricordo. E' uno dei pezzi cantanti in modo più sbilenco e incerto dell'album, ma anche per questo è per me uno dei brani più sentiti, con la voce resa incerta come dall'emozione, accompagnata da un semplice e soffuso arpeggio di chitarra e il tamburello, per una volta quasi graziati dalla cagnaggine dei "dottori" della EMI.

Venerdì santo 4:19
L'unica del lato A non passata alla storia in alcuna maniera è un bozzetto d'atmosfera che adoro. Con i suoi otto versi è senza dubbio e di gran lunga il testo guccinano più breve di sempre, probabilmente un'operina giovanile come altre canzoni dell'album. La descrizione di una timida e commovente "prima volta" si mescola con la descrizione di un venerdì pasquale per le strade modenesi. La melodia malinconica, un liquido valzerino folk probabilmente debitore di Fourth Time Around di Dylan, dipinge l'atmosfera di un presente che è già nostalgia nel momento in cui accade. Persino l'espediente di ripetere due volte lo stesso testo, probabile trucchetto per dare alla canzone una durata accettabile, trova un suo senso nell'idea di circolarità che viene a crearsi. Una piccola struggente canzone sul piccolo mistero struggente dell'adolescenza.

L'atomica cinese 2:37
Classico minore, reso noto dal famoso live con i Nomadi. L'atomica è cinese perché le atomiche russe e americane ai tempi erano un luogo comune che aveva rotto. Ovviamente è la benaugurante descrizione della fine del mondo tramite olocausto nucleare, che il Guccini esordiente difettava di tutto tranne che di talento, ottimismo e ambizioni. L'ombra che aleggia sul brano è ancora e sempre quella di Dylan, in questo caso quello di A Hard Rain's a-Gonna Fall. E' insomma un'allegra parata di visioni di morte e distruzione, con ogni strofa che culmina con il ritornello fatalista "che va / e va" (sottinteso: il vento nucleare). Il canto è insolitamente distaccato per Guccini e quindi molto dylaniano. Come è molto dylaniana anche l'atmosfera sospesa e priva di catarsi. Non lo si fosse capito: è un brano molto dylaniano. Nell'economia dell'album la collego inevitabilmente a Noi non ci saremo, di cui oggi, noi moderni, potremmo dire che è una specie di prequel.

Auschwitz (La canzone del bambino nel vento) 4:40
Un'altra canzone scolpita nell'immaginario collettivo delle italiche genti. Scritta nel 1964, è una delle primissime composizioni dell'autore ispirate al folk americano. Il vento citato nella canzone è ovviamente lo stesso che spira in Blowin' In The Wind, di cui è probabilmente debitore anche il modo in cui la canta Guccini, mentre la melodia mi pare ancora abbastanza debitrice degli amati autori francesi (l'amatissimo Brel in particolare). Mi è sempre sembrato particolare il contrasto tra la lentezza del cantato e il rapido ritmo della chitarra, che vuole richiamare una cadenza militaresca. Quando mio padre la metteva su (nella versione live con i Nomadi, però) da bambino era una delle sue canzoni che mi affascinavano, nonostante la notevole e inevitabile cupezza. Intanto perché era una delle poche di cui capivo il senso, poi perché mi colpiva comunque l'atmosfera da favola nera evocata dalla neve che "cadeva lenta" e dei bambini passati "per un camino". Con la sua nitidezza e le sue semplici parole, scritte nello stile asciutto tipico del primissimo Guccini, avvolge e commuove ancora, nonostante l'usura.

1967b.jpg

Lato B

Talkin' Milano 5:30
Forse il primo talkin' blues mai inciso in Italia. Che roba eh? Il primo degli INNUMEREVOLI talkin' blues incisi in italia. Un brano ispirato indovina un po' a chi? Sì lui. Per altro stavolta Dylan è citato esplicitamente nel testo. E' il brano più bislacco dell'album, praticamente improvvisato da Guccini insieme a un tizio americano che, boh, passava di lì... tal Alan Cooper, che sembra imitare - male - proprio Dylan, anche se poi nel brano vuol fare l'originale dice di voler essere Barry McGuire. Brano naturalmente ironico stracolmo di riferimenti criptici riguardanti a tutto quanto faceva scandalosamente giovane all'epoca, tipo la marijuana, l'LSD (il sobrio Guccini non proverà mai ne una ne l'altra cosa), i preservativi... e queste sono tematiche che sono quasi sicuro nessuno aveva ancora cantato in Italia. Peccato soltanto che i riferimenti fossero talmente criptici che non li colse nessuno all'epoca e si fa un po' fatica anche oggi. Anche perché il brano è talmente registrato da culo, che in più punti non si capisce manco cosa i due interpreti stiano dicendo. Reperto d'epoca, dai, tanto trascurabile quanto in fondo perfettamente calato nell'atmosfera del disco. Prima citazione guccinana per gli amati fumetti (Snoopy), che tra quelli e la passione per i gatti è sempre stato dalla parte buona e giusta dell'umanità.

Statale 17 3:12
Tanto il Lato A è apocalittico e da mani sugli zebedei, tanto il lato B è in gran parte all'insegna dello scazzo. Come in quest'altro brano diventato poi famoso grazie al solito live con i Nomadi. E' uno standard blues, in cui, assecondato dalla sua metrica scrupolosa, Guccini riesce a muoversi agevolmente e con intelligenza. Peccato che non abbia poi frequentato più spesso il blues classico, perché per me è stato uno dei pochi che hanno colto e saputo italianizzare il carattere indolente e pigro del genere, quando in Italia quasi tutti hanno sempre preferito riprendere il lato sensuale e aggressivo, insomma quello facilone. Omaggio ironico, ma sentito, alla vita on the road, altro vizietto giovanile dell'epoca che Guccini si guarderà bene di mettere mai in pratica nella vita. Comunque seriamente riuscito l'adattamento italiano di un immaginario legato a spazi in genere ben più vasti e disabitati di quelli che può fornire il nostro sovraffollato paesello.

Il 3 dicembre del '39 3:44
Gli ultimi tre brani dell'album rompono la fin lì uniforme atmosfera "americana" e dylaniana dell'album. Questo in particolare. Che appartiene al repertorio goliardico e teatrale legato all'esperienza dell'Osteria dei Poeti, un piccolo locale - teatro bolognese dove per anni Guccini e alcuni amici misero in scena rappresentazioni tra il comico e il satirico. Tutto molto italiano, sia il testo, con la presa per il sedere dell'eterno trasformismo politico degli italiani, che la melodia da vecchia fiaschetteria (sinonimo di osteria - grazie tasto destro di Word). Satiricamente efficace e potenzialmente ancora attuale, solo a dare un seguito ai trasformismi dell'albertosordesco protagonista. A me un po' infastidisce la sua estraneità rispetto al resto dell'album. Meglio sarebbe stata anni dopo su Opera buffa, che appunto raccoglieva parte del repertorio dell'Osteria dei Poeti.

La ballata degli annegati 2:28
Per toccarsi gli zebedei un po' anche col lato B. Il primo brano "serio" composto dall'autore appena ventenne nei primissimi anni 60. Quindi un brano pre-dylaniano, ma comunque influenzato dalla cultura americana, dato che prende ispirazione (molti anni prima di De André) da Antologia di Spoon River di E.L. Masters. Che, come si diceva, fin da subito a Guccini non era mancata certo l'ambizione. Dunque un brano giovanile e acerbo, ma dal fascino trobadorico, a cui è impossibile non voler almeno un po' bene e non essere inteneriti dal lugubrume adolescenziale di cui è intrisa (Guccini dark!). Bello e già molto guccinano il contrato tra il tono un po' aulico e la prosaicità della materia: il fiume è il poco mississippesco e molto provinciale Limentra e gli annegati hanno nomi tipo Gianni. Un anticipo di quella epica del ricordo che sarà fondamentale nel suo lungo romanzo musicale.

Il sociale e l'antisociale 5:33
Due canzoni in una. L'antisociale è un altro brano giovanile scritto nei primi anni 60, sempre ispirato ai francesi (Brassens ragionevolmente). Incisa per un lato B di non so che dall'Equipe 84 nel 1965. Wikipedia dice persino prima di Auschwitz, quindi immagino sia stato il primo brano guccinano in assoluto ad essere stato pubblicato. Sapevatelo. Peccato che la resa vocale dell'Equipe fosse parecchio moscia. Mosciaggine che non è certo della versione del suo autore, che invece ci da dentro con gusto a farsi l'autoritratto scazzato, che è anche la sua prima piccola Avvelenata. E' la canzone di una cicala che se la prende con tutti i simboli dell'Italia da formiche ipocrite del boom economico. Considerato che tutt'oggi non hanno ancora del tutto perso la loro efficacia, dovevano essere notevoli per l'epoca le bordate misantrope contro lavoro, matrimonio, verginità femminile. D'altra parte la versione su disco è pure censurata, visto che in originale se la prendeva pure con religione, sbirri e doganieri (evidentemente il farsi bastonare e sbattere in galera è un'altra delle mode giovanile dell'epoca a cui Guccini non teneva partecipare). Il sociale è una specie di risposta a L'antisociale, in cui l'autore da voce a quello che presumibilmente è la sua nemesi sociale: il fighetto.


To be continued*

*avverto i più facilmente impressionabili e minori di anni 18: sono intenzionato a commentare tutta la discografia, canzone per canzone.


  • 29

#64 100000

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Inviato 22 agosto 2014 - 08:02

Operazione estremissima ma bellissima e gradita, Tom.
Tra l´altro anch´io faccio parte di quelli che avrà sentito miliardi di volte queste canzoni, ma credo mai da questo fantomatico album (per quanto non ci giurerei che la maggior parte delle volte non ricordo o non ritrovo i vinili dei miei che partivano e finivano magicamente, e io stavo lí e dovevo solo ascoltarli).
  • 1

#65 clapat71

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Inviato 22 agosto 2014 - 14:57

Attendo anch'io con curiosità il seguito
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#66 mueller80

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Inviato 23 agosto 2014 - 09:26

complimenti a tom, il sito dovrebbe dare più visibilità a certe penne.

ps meraviglioso il meno di bullgozer al suo enciclopedico post, che brutta cosa l'invidia
  • 0

#67 Tom

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Inviato 23 agosto 2014 - 12:51

*
POPOLARE

GUCCINIADE SECONDA
OVVERO COME MI SONO GIÀ PENTITO DI ESSERMI IMBARCATO IN QUEST' IDIOZIA FORUMISTA, MA VADO PURE A CONSIDERARE LE CANZONI FUORI DAGLI ALBUM

“Sapeste quante scopate che ci ho dato sulla schiena quando invece di studiare si metteva a suonare in camera sua."
Ester Prandi, Guccini's mother

bonvi.jpg

Essenzialmente il Guccini sixties era un perdigiorno che non sapeva che fare nella vita. Un po' il giornalista. Può darsi il prof. Magari il poeta. Meglio lo scrittore. Persino forse il fumettista*. Di sicuro non è che smaniasse per fare il cantante e il musicista. All'inizio gli fregava tanto di essere un autore di canzoni che manco era iscritto alla SIAE e faceva firmare i suoi pezzi ad altri. E non era mica roba da niente, considerato che dalla sue manone fatate erano già usciti, così come niente fosse, due o tre pezzi diventati degli standard e anche altre belle cosine. Cosone e cosine che secondo me finivano nelle meno capaci mani di gente che non sapeva spesso bene cosa farsene e che quindi spesso smorzava o esagerava o proprio equivoca tono, stile e senso delle canzoni. Meglio, sempre, quando era la vociona dell'autore a prendersi cura dei suoi brani. E qui si aprirebbe - ma non lo apro che non c'ho voglia - un lungo discorso sul Guccini interprete, molto più sofisticato di quanto, non solo tanti suoi detrattori, ma pure molti suoi sostenitori, ritengano. Comunque sia, quel vocione purtroppo non le inciderà tutte, quelle cosine: di seguito le secondo me più interessanti, non necessariamente le migliori...

1967 Dio è morto
Questo ovviamente è il caso più clamoroso. Come sanno anche i sassi (o forse no), Guccini non inciderà mai una sua versione in studio di una delle sue canzoni più famose (se non fuori tempo massimo, un po' svogliatamente e quasi di nascosto nel 2008), recuperandola solo e anche troppo spesso nei dischi live. Melodia e afflato epico, per una volta, sono più in odor di Barry McGuire che del solito Dylan, il tutto corredato dal celeberrimo testo, tra i più trasparenti e facilmente memorizzabili del suo repertorio, nonostante le erudite citazioni di Nietzsche e Ginsberg. Non che purtroppo voglia dir molto, dato che i problemi in cui sguazziamo sono sempre quelli, ma per certi versi ancora attuale e efficace la parte arrabbiata, invece irrimediabilmente inchiodata a quegli anni la prospettiva di rivalsa generazionale. Quell'ingenuo ottimismo finale potrebbe essere un indizio per spiegare la mancata incisione. Complicata giudicarla oggi, tanto è usurata dalla sovraesposizione. Direi che mi piace, ma forse mi piaceva più una volta, oggi magari non ci impazzisco. Durante i concerti la faceva sempre, ma come per La locomotiva, la sensazione è che la facesse quasi più per dovere che altro. Bella la versione dei Nomadi, uno dei pochissimi pezzi veramente da ricordare di quella cosa un po' farlocca che fu secondo me il beat italiano.

1967 È dall'amore che nasce l'uomo
1967 Per un attimo di tempo
Il Guccini che si fingeva impasticcato, che all'epoca non era groovy non esserlo. Sono due pilloline psichedeliche per l'Equipe 84, amabilmente datate, con testi simpaticamente naif e stereotipati, in cui si avverte che l'autore scriveva più basandosi sui testi delle coeve canzoni di quei fattoni degli anglofoni che per esperienza personale. Entrambe un po' byrdsiane e piene di idee molto gucciniane: nella prima, lato B della battistiana 29 settembre, c'è l'immancabile riferimento all'inalterabile trascorrere delle stagioni ("le nubi che sono nel cielo sono le stesse nubi di una volta / i fiori che sono nei prati da quando esiste il mondo sono nati") e la somma ossessione per l'implacabile scorrere del tempo ("il nostro tempo che è nato ieri è già lontano sull'orizzonte e non tornerà"), mentre la seconda è proprio un bozzetto allucinogeno ("Sono a cavallo dell'universo, non sono più nella mia camera, ma un atomo di polvere nel sole"), peccato che lo stile vocale per me sempre un po' ottuso dell'Equipe non renda giustizia al colore dei testi che al bell'arrangiamento lisergico.

 

1967 Per fare un uomo
1967 Noi
Altre due affascinanti "pillole", questa volta per i Nomadi, che continuano i "trip" iniziati con l'Equipe 84, col gruppo di Daolio, piu' figliofioresco, piu' puntuale e sensibile nell'interpretare le composizioni gucciniane. Due pezzi staripanti buone vibrazioni sixties, che diverranno dei classici del beat 12 anni dopo, grazie alle versioni cantante anche da Guccini in "Album concerto" insieme ai Nomadi. Nella versioni d'epoca la prima e' una meditazione esistenzialista sul classico tema dell'autore del tempo che passa, giocata su un aria popolare e condita da cori floreali alla Mamas & Papas, la seconda e' scampanellante pezzo simil-byrdsiano di visioni psico-giovaniliste ("C'è bisogno di gente molto forte per fare insieme il viaggio / che inizia non sai dove e passa cento porte"), con sotto un tremolante tappetino sonoro che la carica di una sottile tensione.

1967 Il disgelo
1968 È giorno ancora
Misconosciuti gioiellini interpretati dai Nomadi. Non ho mai troppo digerito lo stile sempre vagamente retorico del gruppo e della voce di Daolio, ma alle prese con questi due brani minori beccano il giusto tono distaccato e lieve. O almeno il mancato confronto con le inesistenti versioni dell'autore le favorisce. Il disgelo è l'ennesima canzone di Guccini con riferimenti al variare delle stagioni. Ha una doppia lettura, da semplice canzone d'amore e d'attualità (era appunto l'epoca del "disgelo" tra USA e URSS). Graziosa melodia all'inglese e arrangiamento fantascienzioso per l'Italia dell'epoca con quei tocchi di elettronica. "È giorno ancora" è davvero una perla di pop onirico, meno di due minuti per descrivere la giornata di una ragazza, dal risveglio trasognato al grigiore del quotidiano. Melodia incalzante e arrangiamento suadente, con probabili spezie arrivate della Frisco psichedelica.

1967 Per quando noi non ci saremo
Probabilmente ispirato ai memorabili rompicapi poetici che affollavano le buste dei primi vinili dylaniani, è un recitato musicato dai Nomadi e goffamente declamato dall'attore Luigi Paoletti. E' una roba tipo così: "Per quando i nastri di pietra finiranno nel sogno e i secoli davanti e dopo saranno nel momento in cui le cose sono". Probabilmente interpretato con un consono tono vitreo alla Dylan poteva anche funzionare, ma Paoletti declama i versi manco fossero di D'Annunzio e il tutto suona come minimo buffo.

1967 Le biciclette bianche
1967 Incubo n.4
1968 Cima Vallona
Tre brani scritti per la Caselli che faccio un po' di fatica ad ascoltare. Lei Guccini un po' lo scoprì e sicuramente lo ammirava parecchio, ma come interprete delle sue canzoni era obbiettivamente la meno indicata. Ad esempio il tema ecologista del primo brano, ispirato al movimento dei provos olandesi, è triturato dall'atroce musichetta ye ye della cantante. All'inverso gli altri due affogano in un'enfasi drammatica talmente esagerata da essere ridicola. Più interessanti comunque, almeno per via dei testi insoliti ed eccentrici, tanto che Cima Vallona (l'unica di cui Guccini firma anche la musica), riguardante il terrorismo altoatesino, non verrà mai pubblicata, se non trent'anni dopo.

1968 Mrs. Robinson
Non è l'unica traduzione di Guccini di una canzone anglofona, moda tipica e un po' fastidiosa dell'epoca, ma la trovo molto significativa della sua poetica. Slegandosi dalle immagini del film, pur rispettando il senso dell'originale, al disegno allusivo e anti-borghese di Simon il Nostro sostituisce il ritratto a tutto tondo di una patetica vecchietta molto italiana, di cui descrive con rapidi tratti lo smarrimento davanti alla vita scappata via: "La gioventù se n'è andata via / non cè più che un po' di vuoto ormai". Suonata non malaccio da tali Royals (anzi "I" Royals), ma la versione migliore è quella di - gulp - Bobby Solo.

1969 ...e tornò la primavera
Che peccato che Guccini non abbia mai inciso una sua versione di questa bellissima e dimenticata ballata baeziana, anche se forse è un motivo in effetti adatto a voci auliche e femminili. Fu infatti scritta per la grande amica Deborah Kooperman e poi incisa anche da Patty Pravo. Torna nuovamente il senso dello scorrere delle stagioni, un sentimento allo stesso tempo tra il rassicurante e l'angosciante, tipica dicotomia gucciniana.


*ci provò in coppia con il fraterno compare Bonvi e gli riuscì anche da dio, visto che il duo se ne venne fuori con quel gioiello di serie che è Storie dallo spazio profondo e che c'era la manona di Guccini anche - tenersi forte - nelle primissime strisce delle Sturmtruppen. Ma la collaborazione non durò tanto, con un Guccini innamorato che se ne partiva per le Americhe dietro a una sua studentessa americana e il Bonvi abbandonato in patria a scrivere e disegnare tutto da solo. Così che il Bonvi ebbe da dire che il Guccini non era un tipo affidabile. E mi dispiace per i moltissimi, non sufficientemente edotti sull'epica figura bonviana, che non capiranno quale abissale paradosso si apre nel momento che uno come Bonvi dice di chiunque altro che non è affidabile.


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#68 dick laurent

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Inviato 23 agosto 2014 - 13:31

Confesso che molte di queste non le conosco. Ma e "La tua libertà" te la sei dimenticata?
Comunque sulla questione voce a proposito del primo album, è una vita che non lo sento ma non ricordo tutta questa differenza, o forse semplicemente non mi disturbava così tanto (di sicuro non ai livelli di una cosa per me tuttora inspiegabile come la patata in bocca con accento svedese di Fossati su "il grande mare che avremmo attraversato")
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#69 Tom

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Inviato 23 agosto 2014 - 13:50

Ma e "La tua libertà" te la sei dimenticata?


Son le robe solo dei 60 (e non tutte, manca ad esempio Una storia d'amore scritta per la Cinquetti a Sanremo asd).
De La tua libertà mi sa che ne parlo insieme a L'isola non trovata (se ci arrivo).
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#70 Giovanni Drogo

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Inviato 24 agosto 2014 - 10:03

Post stupendo:

Ho ascoltato quasi esclusivamente Guccini per svariati anni della mia vita. Periodicamente, ancora ora amo riscoprirlo e perdermi per qualche minuto, ora o giorno nelle sue parole. Se oggi sono la persona che sono e vedo il mondo come lo vedo, Guccini ha una discreta parte della responsabilita'. Dovrei odiarlo, per questo.

"Radici" e' il disco che considererei senza pensarci due volte come il vero e proprio capolavoro, soprattutto a livello musicale: e' il suo lavoro piu' a fuoco, perche' anche a livello di suoni si respira un'"anima" propria dell'album, cosa che non avviene per molti altri, anche dove i singoli pezzi sono eccellenti.
Come altri dischi da avere, senza dubbio consiglio "L'Isola Non Trovata", forse il disco in cui piu' emerge il cuore della "filosofia Gucciniana". Non e' vero che Guccini e' un autore sostanzialmente politico: i suoi pezzi "schierati" rappresentano un'esigua minoranza della sua produzione, e se certo sono i piu' noti, da grande appassionato mi sento di dire che non sono ne' i migliori ne' i piu' interessanti. Forse i piu' accattivanti. Guccini e', come scrive l'amico Vecchioni, un "cantadubbio": la grande maggioranza dei suoi pezzi riflette una disillusione profonda, un forte senso dello scorrere ineluttabile del tempo, rimpianto per le occasioni perdute, incapacita' di agire. E poi il tema centralissimo e trasversale della Verita', che emerge in quelli che sono i pezzi che preferisco: "L'Isola Non Trovata", "Canzone della Bambina Portoghese", "L'Orizzonte di KD", "Shomer Ma Mi-Llailah?", "Gulliver" e la bellissima "Bisanzio", forse la canzone in cui piu' mi riconosco in assoluto. La Verità di Guccini e' un qualcosa di lontano, irraggiungibile ma che ama mostrarsi per qualche breve istante, come un'intuizione che svanisce in un istante senza lasciare nulla se non la sensazione di aver perso per sempre l'unica occasione di coglierla:

Appare a volte avvolta di foschia, magica e bella,
ma se il pilota avanza, su mari misteriosi è già volata via,
tingendosi d'azzurro, color di lontananza


Ma Guccini e' anche e soprattutto un incredibile artigiano della parola. Metricamente ineccepibile. Elegante, colto senza risultare aulico, musicale nelle sue continue rime e assonanze interne. La sua capacita' di ritrarre sensazioni con due parole, le meno prevedibili peraltro, sorprende a ogni ascolto. Puo' sembrare paradossale, ma Guccini e' estremamente sintetico, impressionista nei suoi testi, che pure spesso sono talmente lunghi da portare le canzoni oltre gli otto minuti. Va per immagini e analogie, e credo che col tempo la sua abilita' in questo senso sia andata affinandosi, basta pensare a pezzi come "Signora Bovary", "Scirocco", "Quello che non", "Lettera":

In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole,
il quartiere si è presto riempito di neve di pioppi e di parole.
All' una in punto si sente il suono acciottolante che fanno i piatti,
le TV son un rombo di tuono per l' indifferenza scostante dei gatti;
come vedi tutto è normale in questa inutile sarabanda,
ma nell' intreccio di vita uguale soffia il libeccio di una domanda,
punge il rovaio d' un dubbio eterno, un formicaio di cose andate,
di chi aspetta sempre l' inverno per desiderare una nuova estate...


Il principale difetto di Guccini rispetto ad altri cantautori suoi contemporanei e' stato di non essersi saputo affidare alle persone giuste per quanto riguarda l'aspetto musicale, o forse di essersene interessato poco, di aver badato piu' all'aspetto puramente "poetico" che a guardare avanti. Se nei dischi dei primi anni '70 l'alchimia e' perfetta anche a livello di arrangiamenti, da li' in poi la cricca Vince Tempera - Ares Tavolazzi - Flaco Biondini provvedera' a rendere molti suoi pezzi musicalmente mosci quando non di cattivo gusto. Fortunatamente la maggior parte dei pezzi, almeno fino al pessimo "Ritratti", puo' uscire a testa alta anche dopo il mediocre trattamento riservatogli in fase di arrangiamento.

Indispensabile anche "Via Paolo Fabbri 43", e per chiunque voglia approfondire seriamente il suo percorso artistico neppure "Opera Buffa" puo' essere lasciato da parte. E' un disco molto diverso dagli altri, dedicato alla vena piu' caciarona e goliardica di Guccini, e contiene un pezzo esilarante come "La Genesi", a cui solo la voce di Guccini puo' rendere il dovuto onore...
Tra i dischi successivi, mi gioco la carta del live "Fra la Via Emilia e il West", in cui si trovano alcuni dei migliori pezzi del periodo: "Autogrill", "Eskimo", "Incontro". Certo, restano fuori "Bisanzio" e "Gulliver"...
Gli album degli anni '90 sono parecchio sottotono: al di la' di qualche brano eccellente ("Scirocco", "Signora Bovary", "Quello che non", "Farewell", "Nostra Signora dell'Ipocrisia", "Lettera", "Quattro Stracci", "I Fichi") non c'e' molto di memorabile. Un disco a fuoco come "Stagioni" dunque soprende abbastanza, ed e' il suo lavoro recente che piu' consiglierei. Purtroppo con "Ritratti" Guccini sembra mostrare che l'ispirazione del disco precedente era stato solo una coincidenza fortuita...


Ed hai tirato fuori anche uno dei pezzi di Guccini che per me è stupendo, ovvero Bisanzio, tappandosi le orecchie dai soliti arrangiamenti e suoni terrificanti. Che testo magnifico ha questo brano?
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Statisticamente parlando, non lo so.


#71 wago

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Inviato 24 agosto 2014 - 10:38

Visto che ripeschi mi perdonerai se faccio lo spammone e segnalo che il messaggio in questione è di fatto lo "stub" di un articoletto che è stato aggiunto qualche anno fa come "coda" alla scheda di Ondarock su Guccini: http://www.ondarock....escoguccini.htm

Per quanto riguarda Bisanzio, già avevo scritto nel thread della classifica che si tratta in assoluto della mia canzone preferita. Non saprei dire, ora, se le emozioni che mi dà siano causa o conseguenza della fascinazione che ho per l'idea di Impero Bizantino (ammesso che abbia senso parlare di "idea" di Impero Bizantino - boh, per me ne ha), per la scienza antica, l'alchimia, l'esoterismo, le terre di confine, gli "altri passati", "altri presenti", "altri futuri". Il fatto è che aver conosciuto questa canzone negli anni del liceo, assieme a un pugno di altri concetti e opere ("Evangelion", le eresie, "Il pendolo di Foucault", Borges, "Le città invisibili", i racconti di Buzzati, i fumetti di Schuiten) ha inciso profondamente sulla mia diciamo "filosofia personale" e in qualche modo indicato subliminalmente tutta una serie di direzioni per percorsi che avrei seguito in seguito e in larga misura sto ancora seguendo. Non mi importa se ha dei suoni un po' così o risulta tutto sommato un episodio "minore" del canzoniere gucciniano: è legata indissolubilmente a me, mi ci riconosco completamente, le devo troppo.

Io appunto agli arrangiamenti farlocchi ci ho fatto il callo da tempo, ma per chi preferisse una versione più "sobria" e ruspante rispetto all'incisione originali linko questa, tratta dal live alla televisione svizzera peraltro anche riprodotto su disco:
http://www.youtube.com/watch?v=O8pL8lR-49I

Io nonostante tutto preferisco comunque la versione di "Metropolis", più epica e "sofferta".
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"It's a strange world." "Let's keep it that way."

#72 dick laurent

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Inviato 24 agosto 2014 - 11:52

o risulta tutto sommato un episodio "minore" del canzoniere gucciniano


dubito che ci siano gucciniani che la ritengano un episodio minore, per giunta è messa come pezzo di apertura su uno dei suoi dischi migliori. Anche a me comunque è sempre piaciuta molto.
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#73 Giovanni Drogo

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Inviato 24 agosto 2014 - 12:28

Per me è un gran pezzo, e lo dico nonostante trovi insopportabile la sua voce - spesso non solo a livello timbrico, ma anche e soprattutto interpretativo - e gli arrangiamenti. A parte La Locomotiva non ho idea di quali siano i suoi pezzi più famosi, intuisco forse L'Avvelenata che a me per esempio fa schifo.
La Locomotiva non mi piace molto perché l'incedere degli accordi lo trovo molto monotono ed il testo che è scritto con grande maestria comunque mi annoia.

Io appunto agli arrangiamenti farlocchi ci ho fatto il callo da tempo, ma per chi preferisse una versione più "sobria" e ruspante rispetto all'incisione originali linko questa, tratta dal live alla televisione svizzera peraltro anche riprodotto su disco:
http://www.youtube.com/watch?v=O8pL8lR-49I


Questa è forse peggio dell'originale. asd
Quella chitarrina elettrica distorta che ricama assolini e bending con un suono agghiacciante sul tappeto acustico mi irrita, mi lancia diretto in uno scenario anglo-ispanico tipo Eagles, roba che mi fa più male dell'ebola. Eppure la canzone sarebbe stupenda, quando spezza il ritmo con quel "Mago!" detto sbrigativamente e con quell'accordo, chiudendo l'apertura del brano, oppure quel passaggio "là dove si perde la terra dentro al mare fino quasi al niente e poi ritorna terra e non è più occidente", non ce n'è per nessuno. E le sensazioni che comunica, la profondità con cui penetra nella visione del vecchio saggio Filemazio, come mischia la disillusione, il sentirsi inermi di fronte agli eventi, con la nostalgia di una storia mai vissuta e di una città vista solo attraverso i libri di storia e le leggende.
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Statisticamente parlando, non lo so.


#74 wago

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Inviato 24 agosto 2014 - 12:39

Oh, non avevo capito che la canzone ti piacesse "benché non gucciniano". Mi fa piacere, pensavo uno dovesse essere più addentro nella poetica di Guccini per riuscire ad apprezzarla nonostante la scarsa incisività musicale. Secondo me notevolissima come capacità di entrare in una psicologia immaginaria e usarla per veicolare un messaggio di "visione del mondo" è anche "Gulliver", dall'album dopo e sempre dal mio personalissimo punto di vista decisamente più valida sul piano musicale:


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#75 solaris

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Inviato 24 agosto 2014 - 13:16

OT:
È curioso wago come partendo da suggestioni simili (il fantastico, l'immaginario, i mondi e i futuri possibili, la fascinazione per le culture lontane) il mio percorso sia stato completamente diverso dal tuo. Ho sempre prediletto il racconto per immagine a quello per parole, e in musica è stato lo stesso, Bisanzio mi blocca lo slancio fantastico per la sua forma, è "uno di qui" che racconta "di là" coi mezzi "di qui", davvero non riesco a passarci sopra, mentre ci sono delle musiche che –forse perché strumentali e più ricche di timbri sonori esotici– sono in sé una finestra verso altri mondi. Ne parlavamo in una classifica, mi pare Giubbo, riferendosi al Vangelis di Blade runner. Ecco, lui per me (ma oltre a BR, di cui si ha una rappresentazione completa del mondo eccezionale, anche se la musica va persino oltre, anche tutti gli altri album meno correlati a un'immagine specifica) è il simbolo di questo tipo di ricerca artistica.
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#76 Nijinsky

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Inviato 24 agosto 2014 - 13:17

in attesa dei prossimi capitoli di Tom posto pure io un mio culto personale. in un eventuale accoppiamento giudizioso la affiancherei ad Autogrill (o Inutile o altre, è un filone poetico nutrito) per via di quella atmosfera da racconto novecentesco americano: l'attenzione che oscilla tra i gesti e il paesaggio, la forte sensazione di assistere a un episodio minore, defilato, discreto. i luoghi tristi della provincia western diventano periferia urbana e Guccini guarda un po' voyeur un po' profeta disilluso. e il video più brutto di sempre:



ha i suoi difetti, per dirne uno: la ragazza di periferia non può che chiamarsi Samantha. è un Anna e Marco privata della poesia immaginifica di Dalla.
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Siamo vittime di una trovata retorica.


#77 wago

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Inviato 24 agosto 2014 - 17:18

OT:
È curioso wago come partendo da suggestioni simili (il fantastico, l'immaginario, i mondi e i futuri possibili, la fascinazione per le culture lontane) il mio percorso sia stato completamente diverso dal tuo. Ho sempre prediletto il racconto per immagine a quello per parole, e in musica è stato lo stesso, Bisanzio mi blocca lo slancio fantastico per la sua forma, è "uno di qui" che racconta "di là" coi mezzi "di qui", davvero non riesco a passarci sopra, mentre ci sono delle musiche che –forse perché strumentali e più ricche di timbri sonori esotici– sono in sé una finestra verso altri mondi. Ne parlavamo in una classifica, mi pare Giubbo, riferendosi al Vangelis di Blade runner. Ecco, lui per me (ma oltre a BR, di cui si ha una rappresentazione completa del mondo eccezionale, anche se la musica va persino oltre, anche tutti gli altri album meno correlati a un'immagine specifica) è il simbolo di questo tipo di ricerca artistica.


Forse conviene che ne parliamo altrove (via pm, se ti interessa continuare il discorso), ma capisco quello che scrivi e mi piacerebbe saper percepire la musica anche al tuo stesso modo. Purtroppo sono rarissimi i casi in cui "mi bastano le atmosfere" per apprezzare una proposta artistica. In qualche modo, anche quando cercano di essere il più possibile evocative, mi risultano zoppe, capaci di "indicare" ma non di creare del tutto i mondi immaginari che vorrebbero. Cercavo di scrivere qualcosa di simile in questo thread qua, e paradossalmente la sensazione che ho io tante volte è la stessa tua, ma ribaltata: chi cerca di evocare coi soli timbri resta tante volte ai miei occhi terribilmente "di qua", non riesce davvero a staccarsi dalle convenzioni del nostro mondo, e ottiene spesso effetti che trovo irritanti o ridicoli.
Non dico che per me siano sempre necessarie le parole, non è così, però in un pezzo come quello citato sopra è vero che mi bastano.
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#78 Feynman

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Inviato 25 agosto 2014 - 19:24


OT:
È curioso wago come partendo da suggestioni simili (il fantastico, l'immaginario, i mondi e i futuri possibili, la fascinazione per le culture lontane) il mio percorso sia stato completamente diverso dal tuo. Ho sempre prediletto il racconto per immagine a quello per parole, e in musica è stato lo stesso, Bisanzio mi blocca lo slancio fantastico per la sua forma, è "uno di qui" che racconta "di là" coi mezzi "di qui", davvero non riesco a passarci sopra, mentre ci sono delle musiche che –forse perché strumentali e più ricche di timbri sonori esotici– sono in sé una finestra verso altri mondi. Ne parlavamo in una classifica, mi pare Giubbo, riferendosi al Vangelis di Blade runner. Ecco, lui per me (ma oltre a BR, di cui si ha una rappresentazione completa del mondo eccezionale, anche se la musica va persino oltre, anche tutti gli altri album meno correlati a un'immagine specifica) è il simbolo di questo tipo di ricerca artistica.


Forse conviene che ne parliamo altrove (via pm, se ti interessa continuare il discorso), ma capisco quello che scrivi e mi piacerebbe saper percepire la musica anche al tuo stesso modo. Purtroppo sono rarissimi i casi in cui "mi bastano le atmosfere" per apprezzare una proposta artistica. In qualche modo, anche quando cercano di essere il più possibile evocative, mi risultano zoppe, capaci di "indicare" ma non di creare del tutto i mondi immaginari che vorrebbero. Cercavo di scrivere qualcosa di simile in questo thread qua, e paradossalmente la sensazione che ho io tante volte è la stessa tua, ma ribaltata: chi cerca di evocare coi soli timbri resta tante volte ai miei occhi terribilmente "di qua", non riesce davvero a staccarsi dalle convenzioni del nostro mondo, e ottiene spesso effetti che trovo irritanti o ridicoli.
Non dico che per me siano sempre necessarie le parole, non è così, però in un pezzo come quello citato sopra è vero che mi bastano.


E' lo stesso motivo per cui non apprezzi Pollock Wago :D
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Without examples, without models, I began to believe voices in my head – that I was a freak, that I am broken, that there is something wrong with me, that I will never be lovable… Years later I find the courage to admit that I am transgender and this doesn’t mean that I am unlovable… So that this world that we imagine in this room might be used to gain access to other rooms, to other worlds previously unimaginable.”

#79 wago

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Inviato 25 agosto 2014 - 19:54

Beh dai con tutto il bene che gli si può volere Pollock di "fantastico" non ha assolutamente nulla.
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#80 Tom

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Inviato 27 agosto 2014 - 22:45

Dovrebbe arrivare domani se la morosa non mi molla, visto il tempo che sto vergognosamente perdendo per questa cosa.
Ma chi me l'ha fatto fare? Dico io.
  • 0

#81 markmus

    cui prodi

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Inviato 28 agosto 2014 - 08:45

Dovrebbe arrivare domani se la morosa non mi molla


l'avvelenata
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#82 Tom

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Inviato 28 agosto 2014 - 21:32

*
POPOLARE

GUCCINIADE TERZA
OVVERO COME PROVAR A RENDER GIUSTIZIA E TESSER LE LODI DELL'ALBUM-CENERENTOLA DELLA SUA DISCOGRAFIA

In cui mi sono pure stufato di fare il buffone e mi è uscita una cosa stile "l'autore voleva dirci..." da tema della maturità.

1970a3.jpg

1970 "Due anni dopo"

Se la parziale rimozione di Folk Beat anche presso molti appassionati ha motivi intuibili (in particolare l'esistenza di versioni più note delle canzoni più famose), è parecchio più dura spiegarsi perché anche "Due anni dopo" (le virgolette fan parte del titolo) sia così altrettanto poco considerato (se non di più... cioè di meno) nell'immaginario gucciniano. Persino l'ingrato autore, nella biografia scritta a quattro mani con Massimo Cotto (uscita con due o tre titoli diversi - ok la pianto con le parentesi), dove si sofferma a lungo sulla genesi di tutti gli altri dischi, lo tratta come il figlio della serva: quasi non ne parla, se non per dire che sì, che gli capitò di inciderlo, in un momento in cui pensava che la sua carriera di cantante fosse già archiviata. E praticamente morta lì, neanche un mezzo accenno a mezza canzone.

Eppure è il primo album le cui atmosfere si possono appieno definire "gucciniane", in cui si impone come interprete di carattere e inizia a liberarsi dell'ingombrante ombra di Dylan. È persino il suo album in studio con più canzoni: addirittura 12, uno sproposito per il sempre pigro parco Guccini.

Ma soprattutto è un disco adorabile, onirico, segreto.

1970a1.jpg

E stavolta c'aveva pure la barba regolamentare.

Lato A

Lui e lei 3:12
Raccontare come in uno specchio il prima e dopo speculari di una storia di coppia: quando partendo da un'idea di fondo persino scontata si arriva a cogliere qualche verità, sostanziale e amara, riguardante la banalità del quotidiano. C'è qualcosa di molto francese, quel riuscire ad arrivare in profondità delle cose con semplicità e limpidezza. Poi Guccini diventerà qualcosa di enormemente più complesso, ma un po' rimpiango l'asciuttezza e il tono più distaccato, più da narratore e meno autobiografico, dei primissimi album e di canzoni come questa. La quotidianità del testo diventa quotidianità pop nella melodia e nell'arrangiamento, la prima persino vagamente minesca e ardita per l'estensione vocale del Guccini, il secondo con un risuonar di archi e arpe neanche fosse baroque pop anglofono.

Primavera di Praga 3:38
Ballata foschissima e drammatica solo per chitarra e voce, abbastanza isolata rispetto al resto del disco. Una delle due abbastanza famose dell'album, anche se ancora una volta più per via della versione contenuta in quel rompiballe di album concerto coi Nomadi. Le immagini potenti e cupe della Praga invasa dai carro armati sovietici e il devastante sacrificio di Jan Palach (rievocato in modo un po' cervellotico attraverso il parallelo con il teologo Jan Hus, messo al rogo cinquecento anni prima) sono rese come in un cronaca espressionista, un servizio alla televisione che trasmette immagini d'incubo, dove solo alla fine lampeggia un accenno di speranza. La base è ancora il folk americano, ma il pathos è da canzone francese.
A proposito... com'è quella storia? Quella del Guccini sessantottino, del cantautore politicizzato, quello con il pugno chiuso sempre alzato. E infatti. Infatti era uno talmente fedele alla linea che nell'immediato e infuocato post-68 ti tirava fuori un album tutto esistenziale, avarissimo di accenni alla politica, se non in quest'unica canzone "di denuncia", dove però si denunciano i comunisti stronzi che rompevano i coglioni ai comunisti simpatici. E insomma, diciamolo - tanto non serve a niente, ma diciamolo: la bubbola del cantautore militante duro e puro è uno dei grandi fraintendimenti della carriera di un autore politicamente invece parecchio moderato, pacifista e socialdemocratico, con qualche simpatia verso gli ambienti anarchici e dei cattolici riformisti. C'è da dire che lui c'ha messo anche del suo per creare certi equivoci... tipo intitolare un album "Due anni dopo" due anni dopo una data fatidica come il '68.

Giorno d'estate3:47
Anche se sono un invernofilo che ama il freddo, non posso che restare comunque stregato da questo splendido gioiellino che cattura il fascino sospeso di un giorno "fatto di sole". Un flauto lieve a dare il colori estivi, un contrabbasso pulsante a suggerire il senso di calore, le maracas che imitano il frinire delle cicale, un tenue organetto psichedelico che fa lievitare il tutto. Una serie di splendide immagini trasognate espresse con uno stile ormai pienamente letterario e raffinato. Dietro la descrizione realistica una delle tematiche forti dell'autore, la tensione verso un indefinito altrove, la nostalgia per qualcosa che non si riesce a cogliere ma solo ad intuire. C'erano già stati i "quattro gatti grigi e vecchi" della traduzione di Mrs Robinson, ma il "gatto pigro che si stira sul muro sola cosa che vive" e che "brilla al sole d'estate" è il primo esemplare della lunga parata felina che attraversa zampettando tutta la discografia gucciniana.

Il compleanno 3:31
Un altro misconosciuto piccolo tesoro dell'album, un caustico valzerino circense ancora fortemente influenzato dagli autori francesi. Affilatissima e amarissima descrizione di un ambiente borghese, fotografato e sezionato durante il giorno di compleanno di una ragazza. Feroce l'assalto alle mode e ai tic dell'epoca, tanto da essere efficacissimo anche oggi, nonostante la caduta in prescrizione della maggior parte dei bersagli. Le meschine vanità e le sterili illusioni vengono messe davanti all'implacabile fuggevolezza del tempo, sottolineando il senso di vuoto e inutilità dei riti sociali. Ma l'autore non è mai spietato con i suoi personaggi e c'è comunque un'umana partecipazione alle tristezza della ragazza protagonista. Il caustico verso finale "Ed il tuo tempo va e non tornerà" vale ovviamente per chiunque. E' il caso rarissimo, per Guccini, di rielaborazione con un testo completamente diverso di una melodia già esistente. La canzone originale era "Le belle domeniche" che verrà pubblicata anni più tardi in una raccolta di autori vari.

L'albero ed io 2:54
Una piccola canzone per me di ipnotica bellezza. Il cantato assorto, accompagnato da un'arpa e un flauto, creano un tono aulico e fuori dal tempo raro per Guccini, un po' alla De André se vogliamo. Non potrebbe essere diversamente d'altra parte, essendo anche questa pesantemente influenzata dagli chansonnier francesi che tanto avevano insegnato al collega genovese. Sarebbe una canzone a tematica funerea - il protagonista che chiede di essere seppellito vicino ad un albero, per poter diventare un albero a sua volta - ma è funebre solo lo spunto di partenza, per il resto è un malinconico e affettuoso sguardo sulla vita, vegetale o umana che sia. E sullo sfondo il più che consueto tema gucciniano del passare delle stagioni. A me mi commuove.

Due anni dopo 3:43
Un altro dei motivi che mi rende caro e speciale questo album tra gli altri della discografia di Guccini è il clima onirico e sospeso che attraversa quasi tutte le canzoni. Atmosfera sognante che diventa del tutto esplicita nella bellissima title track, che per altro Guccini riscoprì in tarda età, proponendola in qualche concerto a cavallo del 2000 (devo dire con scarsa risposta del pubblico, che in gran parte ovviamente non la conosceva). Climaticamente opposta a Giorno d'estate, dipinge un incerto risveglio in un mattino invernale, con le schegge dei sogni e delle visioni notturne che balenano nell'ancora confusa coscienza del protagonista. Anche qui c'è la ricerca più o meno inconscia di un diverso stato di coscienza, di cui si riesce però a cogliere solo vaghi frammenti. Un essenziale, monocorde, ma efficace tappeto sonoro crea la giusta tensione surreale e trasmette l'atmosfera scolorata di una mattina invernale.

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Lato B

La verità 3:21
Quasi una "Canzone di notte n. 0, se non fosse che - per intuito - parla più di atmosfere serali di una fine estate. Identico però a quella futura serie di canzoni notturne il rimuginare su sensazioni e visioni nate da atmosfere pigre e distratte, da passeggiata solitaria o da partitella a carte al tavolino. Di diverso c'è un approccio ancora debitore dalla poetica sibillina di Dylan, che verrà presto totalmente abbandonato da Guccini. Una serie di visioni e istantanee in cui si tenta di evocare o almeno intuire nientemeno che una Verità universale. O anche una comunque non meno sfuggente verità personale. Un salutare understatement smorza qualsiasi prosopopea filosofeggiante, come anche la melodia dolce e delicata con cui il tutto è proposto.

Per quando è tardi 3:31
Un intenso affresco notturno sul mondo degli ubriaconi, della loro condizione illusoria e precaria, tanto che per i sobri diventano "persone strane, sogni a cui non credi". Ballata scabra, in cui sento un non so che di spagnoleggiante, con la voce solitaria che sembra riecheggiare per strade vuote. Un insolito Guccini, quasi esclusivamente descrittivo, con la morale che deve essere ricavata solo dalla atmosfere narrate. C'è la visione sempre affascinante e felliniana del mondo visto alle prime luci dell'alba, quell'attimo sospeso in cui non è più notte, ma non è ancora giorno. Confondendola con la successiva di identico tema, qualcuno la conosce come "Gli ubriachi".
E dopo l'annotazione politica per Primavera di Praga, metto pure la nota precisina sull'argomento alcolico: dunque, che al Giovane Guccini, come probabilmente al Vecchio Guccini e sicuramente al Guccini Medio, piacesse il buon vino e di sicuro non abbia mai lesinato in tal senso non c'è dubbio. Ma a dispetto di quel che credono molti non è mai stato un avvinazzato, un Bukowski con la chitarra o un Piero Ciampi meno sfortunato. Esatto, il mito del cantautore con il bottiglione al fianco è un altro dei grandi fraintendimenti della sua carriera. Anche se in questo caso c'ha messo di sicuro molto del suo per essere frainteso.

Vedi cara 4:58
L'altra semi-famosa dell'album, comunque un classico di notorietà minore. Dopo la sbornia dylaniana dell'album d'esordio, questa è l'unica di questo chiaramente ispirata all'americano, una specie di rielaborazione di Don't Think Twice It's Alright. Bisogna ammettere che il testo appare abbastanza misogino se preso in senso universale, con l'uomo che rinfaccia alla donna, non solo di non capire la sua sensibilità, ma anzi di non arrivarci proprio. Diventa perfidamente crudele se si realizza che è dedicato, non alle donne in generale, ma alla fidanzata (poi moglie) di allora di Guccini. Quella che qualche anno dopo sarà infatti liquidata con il celebre "ed io ti canterò questa canzone / uguale a tante che già ti cantai / ignorala come hai ignorato le altre". Questa vena sentimentale risentita diventerà un piccolo, crudele filone della sua discografia, improntato ad una dolorosa sincerità, spesso persino imbarazzante. Comunque anche qui ricorre il tema sotterraneo dell'album, l'inafferrabilità dei "fantasmi di una mente". Piuttosto coinvolgente, almeno per gli ascoltatori maschietti.

Ophelia 2:26
Breve e pregiato ricamo anticheggiante, trascurato dall'autore e abbastanza sfruttato dai Nomadi. L'amletica Ophelia è il primo dei numerosi personaggi letterari che Guccini prenderà in prestito per le sue metafore in musica. Ispirata probabilmente a certe dolcezze medioevali che andavano ai tempi, tipo Donovan e simili, è un'altra ballata che parla dei momenti tra veglia e sonno. La sventurata protagonista viene colta al tramonto, ritratta nell'attimo dorato dell'infanzia o del candore della prima adolescenza. La canzone è soave e apparentemente spensierata, nessun accenno alla futura tragedia, ma è un non detto che finisce per gravare su ogni nota e verso del brano, infondendogli una toccante tristezza.

L'ubriaco 2:33
Un altro brano sugli 'mbriaghi, ma questa volta è un ritratto in interno, solitario e desolato. Torna anche il tema allucinatorio e illusorio, stavolta in chiave drammatica e commovente, con l'ubriaco che nel deliro della sbronza immagina di cantare per un pubblico inesistente. Anche in questo caso, come in Per quando è tardi, l'autore lascia fare tutto ai fatti cantanti ed evita di inserire una sua qualche tipica chiosa filosofeggiante. Magistrale il modo in cui a Guccini bastano poche pennellate per dare il senso delle cose. Ad esempio l'ambiente di una vecchia osteria è reso solo con un paio di sapienti versi "I rumori della strada filtran piano alle pareti / dorme il gatto sulla panca e lo sporco appanna i vetri" (altra pregevole segnalazione gattofila, per altro). Interpretazione di grande pathos, direi di una ballata non più in stile americano o francese, ma ormai perfettamente gucciniana.

Al trist 3:41
Chiusa solo apparentemente scollegata dal resto dell'album. E' un tradizionalissimo blues rurale cantato... in dialetto modenese. Un esercizio di stile, ma non uno scherzo. O un scherzo serissimo. Guccini davvero riesce a far suonare come naturale il prendere un blues del delta del Mississippi (la sparo eh, non ho la più pallida idea di dove si suoni cosa nel blues) "ambientandolo" nello strapaese italiano. In fondo un'altra canzone dell'album che vuole evocare un altrove irreale, dove realtà spoetizzata e mito poetizzante si sovrappongono.


  • 16

#83 dick laurent

    ...

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Inviato 28 agosto 2014 - 21:53

Non sapevo non amasse il disco. Vedi Cara, Due anni dopo e Giorno d'estate (anche se le ultime due le preferisco nella versione live) sono tra le mie preferite.
Piccolo dettaglio, cantare quel crescendo in L'ubriaco non è facile per nulla, ci vuole una discreta estensione vocale.
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dai manichei che ti urlano o con noi o traditore libera nos domine


#84 clapat71

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Inviato 01 settembre 2014 - 14:26

Nell'attesa delle prossime puntate, ho riascoltato Radici, questo weekend, e per quanto sia un'eresia criticare Francesco sulla metrica, e confermando che i suoi testi sono tra i più belli della canzone italiana, mi è rimasta l'impressione che avevo quando ero più giovane e lo trovavo musicalmente poco interessante. Dirò che tra i cantautori più noti mi sembra quello musicalmente invecchiato peggio.
Se all'inizio degli anni '70 bastava che cantassi i temi "giusti" anche con una chitarra un po' così e arrangiamenti un po' così e una voce un po' così, il tutto è veramente invecchiato male.
Devo dire che mi tengo stretto il live "Fra la via Emilia e il West" che preferisco anche agli arrangiamenti dei Nomadi (gruppo che ho sempre tollerato poco), però rimane la sensazione che ora come ora il Guccio non sia invecchiato benissimo...
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#85 100000

    Enciclopedista

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Inviato 05 settembre 2014 - 06:46

Due anni dopo, L´isola non trovata, Radici compongono il mio trittico preferito di Guccini, o quantomeno quello a cui sono piú affezzionato. E sicuramente non ci sono dati oggettivi da riportare, se non i vinili dei miei e la mia età quando li ascoltavo, però L´isola non trovata rimane per me tuttora un album bellissimo, di cui conosco a memoria ogni canzone.
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#86 Tom

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Inviato 24 settembre 2014 - 10:17

Solo ora mi accorgo che il black out del forum ha cancellato il capitolo dedicato a L'isola non trovata...

GUCCINIADE QUARTA
OVVERO LADDOVE IL GUCCINI GIOVANE INCONTRÒ IL GUCCINI MATURO E INSIEME TIRARONO FUORI UNA ROBA CHE LEVATI

"Tempera mi chiama e dice: "C'è da fare un disco per questo nuovo cantautore: è una cosa che potrebbe diventare importante se tutto va bene". L'appuntamento era alle nove del mattino e non alle dieci o alle undici come di consueto, e quindi alle nove eravamo già pronti per suonare. Siamo arrivati e c'era una nebbia pazzesca. Avvolti nella nebbia, ci siamo avviati verso l'entrata della Sax Record di via Borsieri. Davanti all'ingresso vediamo Francesco, un "affare" nero davanti alla porta, incombente come un platano, intabarrato, cappello in testa, barba nera, alto, che aspettava aprissero il portone: una visione piuttosto inquietante"
Ellade Bandini, batterista.

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1970 L'isola non trovata

Ammaliante album manifesto, nucleo programmatico da cui si propagherà praticamente tutto il resto dell'opera, all'insegna di un discorso poetico di coerenza più unica che rara. È l'ultimo della trilogia giovanile, uscito come gli altri due con il solo nome Francesco in copertina, senza l'iconico cognome al fianco. Ancora parecchio 60s a livello di suoni. In molte canzoni c'è come seconda voce il grande amico Victor Sogliani, il bassista dell'Equipe 84, in incognito perché sotto contratto per un'altra casa discografica. Mi sa che le nebbioline psichedeliche di stampo soprattutto inglese che evaporano da numerosi brani hanno qualcosa a che fare con la sua presenza. E finalmente è un album che non dispiace anche all'autore. Che non è che ne parli con chissà che entusiasmo, non sia mai, ma lo sente come il primo in cui si riconosce, il primo a dir suo "legato da piccoli fili rossi", il primo soprattutto con i suoi storici musicisti di fiducia (Tempera, Bandini, Tavolazzi).

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Lato A

L'isola non trovata 2:43
Una ballata di epica assorta per un'alzata di sipario tra le più intense. Nonostante la brevità ha quel senso dei grandi spazi e delle lunghe distanze che sento forte nella miglior musica di quegli anni. Per fare il punto da lì in poi definitivo della propria poetica Guccini ruba la metafora dell'isola non trovata al Gozzano de "La più bella", di cui mette in musica alla lettera il primo verso. L'isola che "nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero" è un'immagine che può sovrapporsi ad ognuna delle sua ossessioni: l'indeterminatezza dei sentimenti, l'inafferrabilità del tempo, l'irrazionalità della nostalgia, la fragilità dei ricordi, l'incomprensibilità dell'esistenza. E il navigare (quante metafore marine nell'opera di un cantautore montanaro) come allegoria del viaggio più importante dell'approdo, del interrogarsi più importante delle risposte - che d'altra parte non arriveranno mai. Musicalmente ci sento un'influenza o comunque qualche vaga affinità d'atmosfera col Donovan di "Atlantis".

L'orizzonte di K. D. 3:00
La fotografia di un istante misterioso e sospeso nella vita di una ragazza, con quell'elemento onirico e mattutino importante per il Guccini dei primi anni. Sonorità psichedeliche, con coretti un po' naif. Un'istantanea leggibile sia come metafora di quell'irrazionale frustrazione che può prendere all'idea che esista da qualche parte un qualcuno ideale che non si conoscerà mai, sia del rimpianto più o meno inconscio verso qualcuno che si è conosciuto senza però comprenderlo. Morale della favola: l'isola non trovata sono gli altri e siamo tutti isole non trovate per qualcun altro. Conoscendo i retroscena della canzone la misteriosità del testo si attenua. E' un Guccini insolitamente reticente sui suoi guai sentimentali (in questo caso rimedierà abbondantemente poi con 100, Pennsylvania Ave), che si rifugia dietro ad un impersonale "noi" e dissimula le iniziali dell'amata perduta: K.D. sarebbe Karen Dunne, sorella incolpevole della vera destinataria della canzone, Eloise Dunne, la studentessa americana che aveva seguito fino oltreoceano, ricavandone un'enorme sconforto sentimentale e soprattutto una delusione culturale, venendo a contatto con un'America per lui deludente e ipocrita.

La collina 3:40
L'isola non trovata stavolta è qualcosa che si è conosciuto e poi perso, l'incanto sognante e indefinito dell'essere bambini. Canzone floreale e quasi-psichedelica, con basso pulsante, chitarre ronzanti e trovate onomatopeiche, ma piuttosto che lisergica la sostanza è puramente letteraria. Ispirato alla metafora di base del Giovane Holden, da cui deriva anche l'intraducibile titolo originale "The Catcher in the Rye": un immenso campo di segale dove corrono dei bambini, ignari di andare verso un precipizio, e Holden che si immagina di essere il "prenditore" che li salva dal cadere. Ovvia metafora della perdita dell'innocenza con il passaggio tra infanzia e adolescenza. Meno ingenuamente (di Holden, ovvio non di Salinger), Guccini non si identica con il prenditore, ma immagina di essere uno dei bambini caduti "al mondo per l'eternità", e alla dolorosa disperazione adolescenziale di Holden Caufield sostituisce la stordita nostalgia dell'adulto maturo, per cui la "magica collina" (che non si fa fatica ad immaginare appenninica o padana) è qualcosa di ormai lontano, di cui sfuggono anche i colori e il ricordo.

Il frate 5:00
Il primo indimenticabile ritratto a tutto tondo di un personaggio guccinano, un ex-frate amico del padre, un mezzo barbone alcolizzato, ma coltissimo, che viveva alla giornata in quel di Pavana. Nonostante la canzone ne parli al passato, all'epoca il Frate era un personaggio ancora vivo e vegeto, tanto che in seguito all'uscita della canzone Guccini doveva svicolare ogni volta che rischiava di incontrare l'entusiasta protagonista, prima che gli attaccasse un qualche terribile bottone. Naturale prosecuzione e dilatamento dei brani sugli ubriachi dell'album precedente, ma questa volta con l'autore che si mette in scena nel quadro. E come tutti i migliori personaggi di Guccini, nonostante la sua eccentricità, il protagonista diventa uno specchio in cui alla fine si riflettono sia l'autore che l'ascoltatore. Tipico il ribaltamento di prospettiva finale in cui si scardina la gerarchia morale tra rattrista e ritratto, "Ma non ho ancora capito, con la mia cultura fasulla, chi avesse capito la vita chi non capisse ancor nulla". La balordaggine e stramberia del Frate è solo la versione più colorata e alcolica della balordaggine e la stramberia della vita di ognuno. Ballata fosca, con vaghi accenni russeggianti che donano al tutto un sapore con un che di ottocentesco e letterario.

Un altro giorno è andato 4:11
"Ancora" dice la bella voce di Deborah Kooperman all'inizio del brano dopo una falsa partenza e "ancora" sul più dolce dei finger-picking parte uno dei brani meraviglia di Guccini. Un country folk che lievita piano piano, da cui gocciolano alcuni dei versi più belli della sua discografia, una lieve pioggia scintillante di metafore sul tempo, il dubbio, il senso della vita. Uno dei suoi componimenti più fluidi e compatti, uno snocciolare di versi tersi e memorabili. Quasi ingiusto sceglierne uno a discapito degli altri, ma quello che forse preferisco é "Negli angoli di casa cerchi il mondo, nei libri e nei poeti cerchi te", che nessun cantante come Guccini ti invoglia di più a prendere in mano un libro. Canzone musicalmente allegra, ma profondamente toccante. O che perlomeno va a toccare tasti che inevitabilmente risuonano in chiunque ogni tanto si faccia anche solo uno straccio di domanda sul perché si sta al mondo. Non era però un inedito, era già stata pubblicata nel 1968, il primo dei poi comunque rarissimi singoli pubblicati da Guccini, autore legatissimo al formato album. Su 45 giri finì una versione decisamente debitrice nell'arrangiamento del Dylan mercuriale di Blonde On Blonde.

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Lato B

Canzone di notte 5:04
Praticamente un sequel della canzone precedente, là il giorno che finisce, qui la notte da passare, medesimi i dubbi. La prima delle quattro "canzoni di notte" che punteggeranno tutta la discografia di Guccini, per altro sempre presenti in album che rappresenteranno un qualche tipo di svolta nella sua carriera, uno dei filoni più amati dagli appassionati. Confermando il carattere metalinguistico del disco, rispetto ai rimuginamenti a ruota libera delle sue future sorelle questa canzone di notte è più la descrizione di un'atmosfera, di un sentimento, una meditazione sul meditare notturno. Identico e già irresistibile, invece, l'avvolgente clima di torpore ovattato e notturno, che toglie pesantezza e retorica a riflessioni spesso poco leggere e quasi sempre parecchio amare. Direi ancora influenze di certo folk esoterico inglese dell'epoca nella parte musicale, con un clavicembalo (o quel che è) a dare l'idea di qualcosa fuori dal tempo e un ritmo dettato da un curioso battimani.

Il tema 4:19
"Canterò soltanto il tempo..." No dico, trovatemelo un altro che a 30 anni scrive una canzone in cui butta lì candidamente cosa ha intenzione di fare per il resto della sua carriera e che poi, nei successivi 42 anni, resterà sempre fedele a quegli intendimenti. Curioso, ma forse non così sorprendente, che un manifesto di propositi tanto esplicativo sia generalmente così poco citato e conosciuto. A ben vedere la canzone è una di quelle uscite gucciniane di disarmante sincerità, solo che qui non ci sono in ballo faccende autobiografiche di beghe con ex varie o stroncature di Bertoncelli vari. Senza farla troppo grossa, ma neanche troppo leggera, Guccini con questa canzone fa qualcosa che in genere nel rapporto tra autore e ascoltatore e, soprattutto, tra autore e recensore non si tende a fare: spiega in prima persona la propria poetica e annuncia apertamente ciò di cui intende cantare. Che è un po' come aprire il giocattolo per svelarne l'ingranaggio, come rivelare un codice d'accesso togliendo all'ascoltatore il ruolo di decifratore di un'opera. In un'epoca in cui i cantautori giocavano ad essere sempre più criptici per per avere più carisma e sintomatico mistero, con questa canzone Guccini rilanciava in senso opposto, mettendo a nudo il suo Messaggio d'Artista e la sua attitudine. Il tutto su un tappeto di vintaggiosissimo beat jazzato, portato probabilmente in dote dagli appena acquisiti soci musicali.

L'uomo 5:23
Una delle perle più preziose e misconosciute della discografia, tra le mie preferite in assoluto. Miscuglio affascinante e riuscito di sonorità mutuate dal rock anglofono, con tanto di ritornello psichedelicheggiante, per raccontare una serie di incisivi e rapidi quadri d'ambiente, italianissimi e provinciali, che potrebbero essere usciti da un racconto di Buzzati. In un'appropriata atmosfera funerea, con piglio impressionista, si raccontano le scene seguenti alla morte di un uomo qualsiasi. La morte, la veglia, il frugare tra i ricordi, le liti tra i parenti, i riti sociali, il funerale, l'indifferenza dei bambini e della natura (la "lieve, pazza danza di mosconi in amore" nella camera del morto), l'annichilente serenità dei vivi che tornano alla vita. E ad ogni verso quel ritornello inquieto e definitivo, "restò solo qualcosa che volò nell'aria calma e poi svanì, per dove non sapremo mai", con il picco di suggestione all'ultima ripetizione, dal ritmo rallentato e la voce che improvvisamente canta solitaria.

Asia 5:12
La più famosa dell'album è una trascinante ballatona, con un memorabile testo carico di irresistibile epica romanzesca e avventurosa, a livello melodico tra le cose più efficaci mai composte da Guccini. L'ultima isola non trovata è un intero continente non trovato. Ovviamente non è del luogo geograficamente tangibile che la canzone parla, ma del suo mito, della sua trasfigurazione in epoca antica, il luogo arcano descritto in cronache leggendarie come quelle di Prete Gianni e in cronache reali come quelle del citato Marco Polo, un immaginario medievale su una "terra di grazie e mali" e "di mitici animali da bestiario". Ancora quindi un paradossale sentimento di perdita verso qualcosa di sconosciuto e imprecisabile, qualcosa che ha a che fare con il fascino malinconico che prende quando si studiano le mappe di epoche in cui esistevano ancora territori inesplorati e avvolti nel mistero. Chiude il cerchio con la canzone iniziale un'ulteriore citazione del Gozzano de "La più bella", la "palma somma" è ripresa dalle "palme somme" citate nella poesia.

L'isola non trovata 0:54
Calata di sipario. Non val la pena rischiar di usare più parole di quante ne usa il breve testo...

"Appare, a volte, avvolta di foschia, magica e bella,
ma se il pilota avanza su mari misteriosi è già volata via,
tingendosi d'azzurro, color di lontananza.


Postilla:



1971 La tua libertà 4:19
Per anni il più noto dei molto pochi inediti gucciniani. Bizzarramente è comunque l'unica canzone di Guccini degli anni 70 per cui era stato girato uno straccio di video. Pubblicata ufficialmente solo nel 2004 come bonus track - a dire il vero parecchio fuori contesto - di Ritratti, per altro contro il parere dell'autore, per cui la canzone poteva restare tranquillamente inedita. Appartiene alla fase giovanile della sua carriera, il che probabilmente spiega il disinteresse di Guccini, spesso insofferente verso le sue prime cose. Si pone sia cronologicamente che stilisticamente tra L'isola non trovata e Radici, con l'impostazione dolce della voce e l'arrangiamento delicato che appartengono decisamente al disco precedente, mentre alcuni spunti del testo verranno ripresi e ampliati nel disco successivo in La canzone della bambina portoghese. Il senso della canzone è semplicissimo, quasi facile per essere di Guccini, ma non banale, con una serie di limpide ed efficaci metafore sulla libertà e la limitatezza umana. La melodia è tra le più morbide e suadenti da lui mai composte. Sono abbastanza convinto che se fosse stata inclusa in un album di allora sarebbe potuta diventare uno dei suoi classici.


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#87 signora di una certa età

    old signorona

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Inviato 24 settembre 2014 - 10:53

mah, non la conoscevo ma sentendola ora mi ha fatto l'effetto di una canzone da messa beat. magari quando andavo all'oratorio mi sarebbe piaciuta :)


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In realtà secondo me John Lurie non aveva tante cose da dire... ma molto belle


#88 Tom

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Inviato 24 settembre 2014 - 11:04

mah, non la conoscevo ma sentendola ora mi ha fatto l'effetto di una canzone da messa beat. magari quando andavo all'oratorio mi sarebbe piaciuta :)


Sì è un po' "nomadesca" stile Io vagabondo (anche se personalmente preferisco di gran lunga La mia libertà), ma proprio per quello credo avrebbe potuto avere fortuna.


  • 0

#89 100000

    Enciclopedista

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Inviato 24 settembre 2014 - 11:11

Grandissimo Tom, non ero riuscito a leggere questa puntata prima del crollo della galassia centrale.

Come dicevo uno degli album a cui sono piú legato e che, per motivi sentimentali e/o non, è anche il mio preferito.


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#90 100000

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Inviato 07 novembre 2014 - 17:49

...ma le gucciniadi?  :unsure:


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#91 Tom

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Inviato 07 novembre 2014 - 18:25

Il blackout del forum mi ha fatto perdere un po' lo slancio e la concentrazione, però neanche a farlo apposta ho ripreso in mano quello che stavo scrivendo su "Radici" proprio ieri sera. Pian pianino...
  • 1

#92 Tom

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Inviato 03 agosto 2015 - 22:31

*
POPOLARE

Dai, c'ho messo solo 10 mesi...

GUCCINIADE QUINTA
OVVERO "IL" DISCO

"La copertina fu una grande idea, almeno credo. Si tratta della foto dei miei bisnonni, con dietro mio nonno, mio prozio[lo zio poi raccontato in "Amerigo"] con le due sorelle. Dietro provammo diversi esperimenti, ma alla fine optai per una foto mia e di Roberta [quella di "Eskimo"], che nel frattempo era diventata mia moglie, con sommo gaudio dei miei genitori. La foto del retro di copertina, scatta in via Paolo Fabbri, era il simbolo della continuità, il ponte tra generazioni, il passaggio tra i vecchi e i giovani legato dalle stesse radici."

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1972 Radici

Il monumento poetico e musicale di Guccini. Sei canzoni su sette diventate classici, con l'unica bizzarra eccezione proprio del brano che da il titolo a tutta l'opera. L'album più epico e fluviale, senza un momento di cedimento, quello più cantabile e facile da memorizzare. L'album del definitivo salto di prospettiva, sia creativa che commerciale. Le canzoni di Guccini diventano un genere a parte, solo suo, senza epigoni ed eredi. I pezzi si dilatano e i testi raggiungono una complessità letteraria che si sposa con una vena musicale matura e consapevole. Da notare che è il primo album in cui in copertina compare il cognome del cantante, in precedenza appariva solo il nome, credo per volere della casa discografica.

Dopo il folk rock dei dischi precedenti fa capolino nelle sonorità il progressive, tra moog e suoni per l'epoca futuristi. Arrangiamenti un po' freak e alla moda - come al solito più subiti che altro dal sempre poco freakettone e ancor meno modaiolo Guccini - oggi facilmente accusabili di essere datati. Ma per me il fascino lunare dell'album è ottenuto anche grazie a quei suoni: un disco pieno di ricordi e intriso di passato, ma con un'atmosfera a tratti quasi da film di fantascienza, da Cronaca Marziana Padana, da Spazio 1999 in provincia. Per me perfettamente funzionale persino il "trapano del dentista" (cit. Guccini) che introduce Il vecchio e il bambino, senza quello non ci sarebbe la stessa atmosfera e il senso della favola un po' cambierebbe.

Disco della vita per chiunque riesca ad entrarci in piena sintonia. Scrigno musicale pieno di dubbi e saggezza, rimpianti e vitalità, ricordi e visioni, autobiografia personale che diventa autobiografia collettiva. Ogni canzone ha significato qualcosa in un'età o in un'altra, con la potenza inesauribile delle sue simbologie, metafore, meditazioni. Per dire, ho sempre associato la prima canzone alla "mia" casa sul confine della sera...
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La casa di montagna dei nonni, un enorme casermone contadino di quattro piani ormai disabitato da anni, in cui ho passato epiche estati infantili e annoiatissime estati adolescenziali. E dentro quella casa quel corridoio con le foto dei miei bisnonni e trisavoli. Che a dire il vero non mi hanno mai ispirato chissà che pensieri profondi, ma appunto la musica serve anche a farti arrivare dove di tuo non andresti.

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Lato A

Radici 7:12
Un pianoforte al posto della consueta chitarra, un canto meditabondo che esplode inseguendo un crescendo morriconiano, un incipit tolstojano che stabilisce subito il clima solenne del disco: "La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta / respiri un'aria limpida e leggera e senti voci forse d'altra età". "La casa" è il mulino di Pavana dei nonni in cui Guccini trascorse i primissimi anni dell'infanzia, all'epoca della canzone un rudere vuoto. E musica e testo evocano nitidamente il senso di una meditazione romantica e solitaria davanti al mistero di una casa vuota, con il turbinio avvolgente delle esistenze andate e inghiottite dalla Storia. Un vento musicale carico di parole, che riempie di dubbi e domande, che materializza la sensazione impenetrabile e opprimente della piccolezza umana davanti all'eternità del tempo e l'indifferenza della materia. Ma alla fine la tempesta emotiva si placa in uno dei suoi rari finali di canzone dolci e rasserenanti: "La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza / e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza." Una delle tante, ma più potenti summe filosofiche della poetica gucciniana. Non è diventata un classico come le altre probabilmente perché è l'unica del disco molto difficile da cantare e con un testo difficile da memorizzare. Purtroppo anche l'autore l'ha sempre trascurata e a quanto ne so quasi mai fatta in concerto.

La locomotiva 8:17
Eccola qua. La più famosa canzone di Guccini. E non si può che detestarla e volerle bene allo stesso tempo per questo.
Impossibile non detestarla perché è assurdamente la canzone con cui troppi identificano l'intera carriera di Guccini. Eppure si tratta di un vero unicum nella sua discografia, isolata sia a livello stilistico che poetico. Un tentativo indubbiamente riuscitissimo di esplorazione delle radici musicali scrivendo un finto inno anarchico ottocentesco stile Pietro Gori (quello di "Addio a Lugano" e altre frignonate simili), una ballata fatta tutta di slogan, un inno lapidario che davvero mal rappresenta un autore che invece ha sempre coltivato il dubbio come unica certezza.
Ma per quanto uno provi a fare lo snob, alla fine vince lei. A volte verrebbe voglia di saltarla, ma più spesso arriva quell'attacco micidiale ("Non so che viso avesse neppure come si chiamava...") e resti inchiodato alla solita vecchia storia sentita mille volte. Grazie o per colpa della forza quasi fiabesca del racconto, dello straordinario impatto emotivo innescato dal semplicissimo ma inesorabile climax musicale, del potere trascinante di una retorica plateale ma di alta scuola popolaresca. Una canzone scritta di getto in una notte, nata come omaggio ai canti popolari, che è diventata lei stessa un canto popolare entrato nell'immaginario collettivo. Non male. Poi anche per me, come per tanti, è stato comunque il biglietto d'accesso all'opera di Guccini, la sua prima canzone ad aver attirato l'attenzione. Anche per via della sua semplicità, certo. Piaccia o meno, è la canzone che ha decretato il primo vero successo commerciale di Guccini, un brano a cui si devono tanti fraintendimenti, ma a cui forse si deve anche buona parte del resto della carriera dell'autore. E lui grato l'ha sempre suonata alla fine di ogni concerto, anche quando tutto sommato capivi che non ne poteva più.
Intrecci gucciniani: il fatto di cronaca alla base della canzone è vero e a raccontarlo a Guccini fu il vicino di casa, il pensionato che in seguito verrà immortalato in - appunto - Il pensionato.

Piccola città 4:38
Ballata folk-rock intrisa di quel senso di nostalgia e lontananza che solo quel certo modo "americano" di suonare le chitarre riesce ad avere, ma con ancora un che di vagamente morriconiano nei momenti più intensi del cantato. La nostalgia è per il tempo che passa, non certo per le miserie dell'adolescenza, quella di una "pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce a toni acuti / casti affetti denigrati cercati invano", descritta anche come "un incubo scuro, un periodo di buio gettato via". Chi ha avuto un'adolescenza triste o anche solo normalmente frustrante non farà fatica a ritrovarcisi. Uno dei testi più belli e toccanti di sempre, con forse il verso più famoso e rappresentativo dell'intera carriera di Guccini, quel "fra la Via Emilia e il West" che sintetizza il suo immaginario mitico, dove il West non era altro che la campagna al di là di uno stradone periferico trasfigurata dall'immaginazione infantile. Un altro degli aspetti fondamentali che l'album va a cristallizzare dell'universo gucciniano sono le costanti geografiche e temporali. Per cui Pavana, il paesino appenninico dei nonni, diventa il simbolo dell'infanzia e dell'Italia pre-moderna, Bologna, la "Parigi minore", la città della maturità e dell'ambiguità del presente, Modena, la piccola città, va a simboleggiare le nebbie dell'adolescenza e il grigiore piccolo borghese da cui scappare. Canzone che segna definitivamente il passaggio da un autobiografismo generico all'autobiografia vera e propria, per cui alcuni versi risultano persino criptici se non si conoscono i retroscena personali dell'autore. A cominciare dal primo verso "Piccola città, bastardo posto, appena nato ti compresi o fu il fato che in tre mesi mi spinse via", quantomeno fumoso se non si conosce la circostanza che Guccini tre mesi dopo essere nato dovette sfollare con la madre a causa della guerra.

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Lato B

Incontro 3:37
Un brano piccolo e intimo è la canzone più intensa e magnetica della carriera dell'autore, il riassunto più completo e definitivo delle sue ossessioni. Tre minuti e mezzo gocciolanti nostalgia universale, cantati su un arpeggio di chitarra tanto semplice quanto immediatamente identificabile, immersi nell'atmosfera liquida creata dalla cantilena ondeggiante della voce e dal suono straniante del moog, che entra nel finale dilatando gli spazi. Il tutto partendo da un ricordo completamente personale dell'autore, il vero incontro con una vecchia amica che non vedeva da anni, raccontato con disarmante e percepibile sincerità: tutto quel che è raccontato nella canzone è vero, compreso l'accenno al suicidio del compagno di lei a natale. Guccini sbobina i ricordi di quella serata e costruisce la sceneggiatura di un piccolo film sonoro, trovando uno stato di grazia lirico assoluto, con un verso che scivola dentro l'altro con naturalezza ipnotica. Tanto è vero che pur non avendo ritornelli o una melodia immediatamente identificabile è una canzone semplicissima da memorizzare. Anche qui d'obbligo citare l'incipit micidiale "E correndo mi incontrò lungo le scale", ma tutta la canzone è tempestata da visioni limpide e toccanti: la nebbia che circonda "come un istante deja vu", le mitologiche "stoviglie color nostalgia", il racconto "assorbito dal buio", la cruciale metafora delle vite come "luci nel buio di case intraviste da un treno". Quando da ragazzo la ascoltavo trovavo un po' assurdo che Guccini avesse scritto un canzone così a 32 anni, un'età per me ancora lontana, ma che mi sembrava comunque troppo precoce per parlare di ricordi lontani e di vita consumata. Non mi pare mi sia servito arrivare a 32 anni per scoprire la velocità con cui il tempo riesce a mutare e far svanire ogni cosa, dando concretezza alla triste/serena chiosa finale "siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno".

Canzone dei dodici mesi 7:03
Il passare dei mesi e soprattutto delle stagioni ancora una volta al centro di una sua canzone, stavolta in forma di una cavalcata epica attraverso il calendario, ispirata alle raffigurazioni simboliche dei mesi contenuti nei duomi medievali. C'è quindi quell'autorità simbolica che ci viene facile (o banale) attribuire a tutte le cose in odor di cultura antica. Canzone lussureggiante, quella che più risente dell'influenza prog del periodo, con un arrangiamento barocco e copioso, che mescola folk, rock, jazz, sintetizzatori, spunti psichedelici. Una sovrabbondanza sonora in linea con un testo lucidamente logorroico, modellato sulla poesia antica, traboccante di riferimenti culturali di ogni natura, compreso anche qualcuno di non facile interpretazione, tipo il brindisi a Cenne e Folgore, due poeti medievali non certo noti ai più. Da ottobrino quale sono ho ovviamente sempre avuto una predilezione per i versi dedicati ad ottobre: "Non so se tutti hanno capito Ottobre la tua grande bellezza [...] Lungo i miei monti come uccelli tristi fuggono nubi pazze /
lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse"
.

Canzone della bambina portoghese 5:33
Nata dall'intreccio di due canzoni diverse, una contenitore dell'altra. La contenente è un blues dalle atmosfere quasi pinkfloydiane, lunari e paranoiche, con il cantato dolente che introduce ogni strofa con un "e poi..." che trasmette l'idea di un discorso già in corso prima della canzone e che potrebbe continuare in un loop infinito. La contenuta ha le sembianze più familiari della ballata folk, ma è una delle cose più moderne mai incise da Guccini, con un tappeto sonoro di sintetizzatori che pulsa e frinisce, creando la suggestione sonora una spiaggia assolata e bollente, con la lieve brezza di una piccola fuga di piano. L'idea della bambina che davanti alla vastità dell'oceano intuisce la sua insignificanza era venuta a Guccini dal racconto di un'amica che era stata in Portogallo, diventata nella canzone una bambina per ragioni di metrica e per sottolineare il lato fiabesco. La cornice contrappone la genuina complessità delle intuizioni della bambina alla banalità semplificatoria delle ideologie e religioni, la complessità della vita alle "formule vuote" delle ideologie, denunciate ancora una volta in blocco e senza distinzioni tra destra e sinistra (anzi il verso "E poi tutti chiusi in tante celle fanno a chi parla più forte / per non dir che stelle e morte fan paura" sembra profetizzare l'immagine dei brigatisti rossi chiusi nei gabbioni ai processi). Pura e illuminante filosofia guccinana il finale "E poi quel vizio che ti ucciderà, non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere..."

Il vecchio e il bambino 4:19
Altro mega-classicone dell'album, una delle rare canzoni scritte di Guccini dopo gli anni 60 ad essere stata più volte coverizzata. D'altra parte a livello tematico è proprio alla produzione degli anni 60 che si ricollega, visto che a dispetto della sua fama di favola ecologica è invece un'altra canzone che ha per tema la guerra nucleare, l'ultima dell'autore. Le "torri di fumo" non sono le ciminiere delle fabbriche come vien facile pensare, ma i roghi pare inestinguibili che causerebbero le bombe nucleari. Da qui il tono da thriller fantascientifico dell'introduzione strumentale e la straordinaria atmosfera dilatata e velata dell'intera canzone. D'altra parte la fama di un testo che parla dell'inquinamento è talmente radicata che l'interpretazione comune ha finito per vincere sul significato originale. La canzone in forma di favola, un'idea molto sfruttata in quegli anni, era invece abbastanza inusuale per Guccini, quindi tutto sommato è un altro brano abbastanza isolato all'interno del suo canzoniere. Il vecchio che descrive al bambino un paesaggio di campagna diventato leggenda è un'immagine entrata nell'immaginario collettivo nazionale proprio come una favola. Una canzone sempre al limite del melodramma, cantata in modo molto sorvegliato e laconico che smorza il lato lacrimoso della canzone (che invece in genere dilaga nelle cover), arrivando al massimo dell'intensità con il minimo patetismo.
  • 16

#93 eugenio_barba

    Groupie

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Inviato 09 marzo 2017 - 15:12

Tom a quando la prossima puntata? Ci sarà mai? :) 


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#94 Tom

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Inviato 10 marzo 2017 - 11:17

Tom a quando la prossima puntata? Ci sarà mai? :)

 

Eh, ci penso spesso... dai, ci provo in questi giorni.

Che poi il prossimo sarebbe Opera buffa, su cui non c'e' poi molto da dire.


  • 2

#95 Tom

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Inviato 13 marzo 2017 - 19:03

*
POPOLARE

GUCCINIADE SESTA
QUASI COME LA GARBO: GUCCINI RIDE

"L'altra sera ho avuto una visione. Avevo mangiato i krapfen... che sono di una pesantezza inenarrabile. Ho avuto una visione, andato a letto, dopo cinque minuti che ero addormentato, sento dire:
"FRANCESCO!"
"Eeh?!" dico "Chi è?"
Dice "Sono il tuo Dio!"
Dico "De Andrè, smettila di fare lo stronzo!"
E in realtà... in realtà era proprio lui. Cioè Lui, dico lassù, non quell'altro là. Cioè, sono ancora separati come attività![...]"

Versione alternativa de "La Genesi".

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1973 Opera buffa

Una raccolta del repertorio cabarettista, che l'autore per anni aveva messo in scena all'Osteria della Dame a Bologna, che, ad oggi, è ancora l'unico live ufficiale del mitologico Guccini degli anni 70. Quello in solitaria, solo lui, la chiatarra e una bottiglia di vino. I pezzi comici erano un passatempo bohémien poi divenuto sfogo goliardico durante i concerti, quando tra una canzone "pesa" e l'altra c'era bisogno di spezzare l'atmosfera. Racconta lui medesimo nell'introduzione del disco: "Mentre un disco "normale" nasce, come canzoni, nel giro di un anno, un anno e mezzo, per mettere insieme queste mi ci sono voluti quasi cinque anni. Proprio una ogni tanto, tolto un breve ma glorioso (per chi ovviamente lo ricorda) periodo da "cabaret", quando tutta Bologna impazziva per il "cabaret". Poi, per uno strano fenomeno, più niente." Materiale quindi abbastanza estemporaneo, reso improvvisamente prezioso dalla notorietà dell'autore dopo il successo di "Radici".

Tanto per cambiare, un disco per nulla amato dal suo autore. "Alle Dame registrai Opera Buffa, che poi mixai a Roma. Fu un disco inventato e da me non voluto. L'idea fu di Pier Farri, che voleva riunire in un disco canzoni di un dato genere e di una data atmosfera. Non mi convincono, e nemmeno allora mi convincevano, gli arrangiamenti. Ma la colpa è in buona parte anche mia, perché, sebbene io compaia ufficialmente in veste di arrangiatore, lasciai tutto in mano a Pier Farri. Colsi al volo l'occasione del mixaggio a Roma per girare in lungo e in largo la città, limitandomi a cantare. È che a me piace far casino dal vivo ma su disco ho qualche remora."

Naturalmente è invece uno spettacolo avere tutto un disco consacrato alla sua ironia sorniona, da gattone tranquillo, ma con gli artigli sempre pronti a graffiare. Effettivamente le sovra-incisioni di Pier Farri sono a tratti invadenti, anche se di per sé l'idea di base di ricreare un'atmosfera giullaresca e da artista di strada aveva un suo fascino. Preso nel suo insieme è un album con una sua compattezza concettuale, una sorta di galleria satirica dei più tipici vizi italiani: gallismo, mammismo, arrivismo, sessuofobia, bigottismo. Ma soprattutto, nella sua giusta durata di mezz'ora scarsa (l'album più breve del Nostro), è un bella botta di sghignazzante sollazzo.

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Lato A

Il bello 2:21
Il ritratto di un irruente quando idiota "bello da balera", seviziatore più o meno consapevole di malcapitate signorine che hanno la sventura di assecondarlo nella sua passione per il ballo. La lunga esperienza nei complessi da balera, negli anni 50 e primi 60, oltre a segnare Guccini dal punto di vista musicale più di quanto in genere non si dica (da lì la ruvida tendenza a melodie semplici e memorizzabili), rappresenta un serbatoio di racconti e atmosfere che tornerà altre volte, in versione seria, nel canzoniere dell'autore. Due anni prima questa aveva avuto il dubbio onore di essere incisa per un 45 giri da Lando Buzzanca, che ne aveva dato una versione machista piuttosto ottusa. Filologicamente più corretto alle atmosfere da strapaese l'accento emiliano dell'autore.

Di mamme ce n'è una sola 4:29
Presa per il culo, allegra con brio, della retorica sentimental e nazional popolare. Tanto delle canzoni dedicate "all'annoso problema della mamma", tanto quelle pregne di amor patrio dell'emigrante nostalgico. Misteriosamente associo da sempre questa canzone a un'immagine che poi nella canzone non c'è: l'esule lontano da casa che in terra straniera guarda l'alba sulla spiaggia e immagina di veder sorgere la "bianca testina canuta" della Mamma al posto del sole. C'è sicuro  invece il celebre ritornello "Di mamme ce n' è una sola, ma caro figliolo, di babbo uno solo non sempre ce n'è!", tra i grandi classici canterecci di mio padre. Praticamente sono cresciuto sentendoglielo cantare... uhmmm.

La Genesi 7:00
Il capolavoro dell'album. Che poi tutto il lato A è spiritosamente capolavoroso. Più recitatando che cantando, Guccini stavolta parodia un certo spiritualismo un po' trombone che serpeggiava in molta musica alternativa dell'epoca. Tipo tanto progressive pseudo-biblico e ultra-velleitario, o l'amico De André de "La buona novella", velenosamente citato nella versione alternativa messa in cima al post. Notare l'influenza della tipica prosopopea finto-grave di ascendenza fantozziana, qualche anno prima che il celebre personaggio di Villaggio sbarcasse al cinema, ma già noto per le apparizioni televisive e i romanzi. Esilarante il dialogo tra Dio e Lucifero, ove il Guccini sfoggia grandi doti recitative, di evidente nobile scuola da barzellettieri da bar.
 
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Lato B

Fantoni Cesira 3:33
Piccolo commedia all'italiana in musica, quasi una parodia in canzone della tristerrima parabola cinematografica di "Io la conoscevo bene", sia pure con il lieto fine. Probabilmente la canzone dell'autore che ho ascoltato meno in assoluto. La storiella salace si esaurisce nel ritrattino comunque puntuale della protagonista "un poco puttana" e la stilettata satirica mette in secondo piano il divertimento. Qui le trombette, i cembali e i lazzi sonori aggiunti dal produttore danno in effetti un po' fastidio.

Talkin' sul sesso 6:32
Freewheelin' Guccini, sia nel senso che improvvisa a ruota libera sia nel senso che si ispira palesemente a "Talkin' World War III". Quindi un ultimo ritorno alle atmosfere iper-dylaniane dell'esordio, per altro a quel Dylan alticcio e ridacchiante oggi dimenticato da tutti (da Dylan stesso per primo). L'argomento esplicitato nel titolo da modo ovviamente ad un fuoco di fila di battutone di alta ispirazione sporcacciona, per altro legate a temi e tic che fanno molto colore d'epoca. La mia preferita: "I giovani d'oggi han scoperto, vergogna, chi porta i bambini, non è la cicogna!... vedo sempre dei visi meravigliati a questo punto!"

La fiera di San Lazzaro 5:38
"Una bolognese me la lasciate fare". Filastrocca porcellona tradizionale, commentata e decostruita con dotta sapienza per aumentarne l'effetto comico. Canzone figlia della sua grande passione (seria) per lo studio dell'italiano e dei dialetti, che è anche la prima canzone non scritta di suo pugno pubblicata su un suo album. L'unica che poi, mi sembra, riprenderà negli anni di tutte quelle del disco (a sorpresa, anche recentissimamente), che infatti avrà un po' l'effetto di esaurire la vena comica dell'autore a livello musicale, trovando sfogo piuttosto nei monologhi tra una canzone e l'altra.
  • 13

#96 combatrock

    utente antifrastico-apotropaico

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Inviato 13 marzo 2017 - 19:07

Scopro solo ora questa ficata messa in piedi da Tom. Bene, bravo, evviva Tom. Approfitterò per ripassare, non ascolto Guccini da secoli e mi è tornata la voglia.


  • 2

Rodotà beato te che sei morto


A voi la poesia proprio non piace eh?Sempre a rompere il cazzo state.


Con trepidazione vivo solo le partite dell'Inter.

 


#97 paloz

    Poo-tee-weet?

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Inviato 13 marzo 2017 - 19:09

Ascoltato decine di volte in adolescenza, divertentissimo.


  • 0

esoteros

 

I have spoken softly, gone my ways softly, all my days, as behoves one who has nothing to say, nowhere to go, and so nothing to gain by being seen or heard.

 

(Samuel Beckett, Malone Dies)


#98 Mr telefax

    dendrite

  • Redattore OndaRock
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Inviato 14 marzo 2017 - 09:14

Ehi! anche io l'ho ascoltato quando ero giovane. Vero, è molto divertente, ma è passato troppo tempo e non ho memoria né dei testi né delle musiche. Mi ricordo solo di un gustoso gioco di parole che aveva fare con grosse quaglie. Sì, insomma dei bei quaglioni.

Thanks a lot Tom!


  • 0
I personaggi e i fatti narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce

#99 kristofferson

    Giù la testa, coglioni

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Inviato 14 marzo 2017 - 10:40

Fantoni Cesira 3:33
Piccolo commedia all'italiana in musica, quasi una parodia in canzone della tristerrima parabola cinematografica di "Io la conoscevo bene", sia pure con il lieto fine.


In realtà il modello di ispirazione dichiarato dovrebbe essere Sophia Loren.
Del resto la ragazza di paese che lavora in fabbrica sognando una vita da principessa e che dopo aver vinto il concorso di "Miss Tette" conosce un produttore che la lancia nel cinema come Cesy Phantoni... è lei, dai  :lol:


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#100 lazlotoz

    Enciclopedista

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Inviato 21 settembre 2017 - 10:28

Sono un ascoltatore di Guccini arrivato in ritardo, l'avessi preso da ragazzino sarebbe la mia carta da parati dei ricordi e invece ci son arrivato già "adulto" (dio, per modo di dire).

Ieri in macchina ho messo su Via Paolo Fabbri 43 e mi ha incuriosito la doppia evidente frecciata ai suoi colleghi (va da sè Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera, per un po' di milioni, voi che siete capaci, fate bene a aver le tasche piene, e non solo i coglioni e La piccola infelice si è incontrata con Alice ad un summit per il canto popolare. Marinella non c'era, fa la vita in balera, ed ha altro per la testa a cui pensare). Ma mi pare che in altri dischi ci siano altre stoccate. Pure al fatto di non aver avuto il successo (di nuovo la canzone VPF43: ma i miei ubriachi non cambiano, soltanto ora bevon di più e "il frate" non certo la smette per fare lo speaker in TV.) Visto in maniera disincantata e ironica sì, ma pure un po' come uno a cui vagamente rode il culo (per usare un francesismo). 

 

Non so nulla del personaggio e della persona Guccini e vi chiedo, che rapporti aveva Guccini con gli altri contautori? Perché per esempio "prendersela" con De Gregori (altro autore che sto ascoltando tantissimo ultimamente)? 

 

Io lui lo vedo sempre come uno tutto sommato abbastanza disorganico, tagliato fuori e anarchico per davvero. Mentre da ragazzetto non lo ascoltavo perché mi rappresentava quei "sinistrelli" che poco mi piacevano (e mi sbagliavo, non sui sinistrelli, ma su Guccini of course). Però non lo so.

 

Avete da illuminarmi?


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