Ascolti impegnativi ma belli rotondi e ragionevoli
Simple Minds – Sister feelings call 75/100
I SM hanno un grande pregio che è quello di essere carnali e d’impatto pur mantenendo quella patina di algidità tipica di buona parte della new wave ma hanno anche un piccolo difetto che è quello di essere poco elastici e direi poco fantasiosi. L’impressione è che quando partano non siano abbastanza estrosi da colorare le canzoni, bensì partono e chiudono sempre su quella direttrice. È un bel sentire ma svanito l’effetto sorpresa la voglia di riascolto scema presto. Il gemello Sons and fascination meglio (77/100)
Van Morrison – Common one 80/100
Basso e fiati sono lo scheletro vero di queste lunghe/lunghissime composizioni che nel loro R’n’b o folk rurale altro non sono che gospel piegati allo stile dell’irlandese. Che qui è in forma pur rischiando fortemente l’effetto sbadiglio (When heart is open più di una volta supera questo limite)
Parquet Courts – Wide Awake 80/100
Disco dopo disco sempre più eterogenei ed aperti pur essendo riconoscibilissimi dal primo ascolto, molto sciolti sia col pub rock (la stupenda Freebird II) che con la bossanova (title track) o l’impatto simil live (Almost had to start a fire). “I nuovi Pavement” (li hanno già superati come numero di dischi) rischia di essere un’etichetta limitante anche se loro il loro Slanted & Enchanted probabilmente non lo avranno mai (non così epocale, suvvia).
Cat Power – You are free 80/100
Costantemente in bilico tra estasi e noia, anche a causa di qualche pezzo di troppo, ma regge molto bene.
Daniel Blumberg – Minus 83/100
Ne avevo scritto nell’apposito thread: ballate tutte piano e grigi mentali, con un violino un filo troppo costante ed improvvisi fulmini di elettricità registrati ad un volume inspiegabilmente troppo basso. Un disco molto empatico che però si lascia conquistare più lentamente di quel che ci si aspetti anche se si è avvezzi a questo macromondo (in modo molto macro: per attitudine e suono si può pensare da Nick Cave a Mark Hollis ed i Talk Talk sbagliati).
Liars – Drum’s not dead 84/100
Pensavo al fatto che all’epoca furono paragonati ad un’apparizione della Madonna ed oggi non se li fila quasi più nessuno. Drum’s not dead è un disco sicuramente difficile, per molti versi ostico, eppure ebbe molto successo. Probabilmente perché è un disco dalla personalità straripante, molto peculiare: no canto tradizionale, figuriamoci aggraziato, no riff, figuriamoci assoli, bensì un approccio minimale ma non lo-fi (il libretto è spiegazione riccardonica di suoni alla fine credo semplici) free ma sempre controllato che genera un disco fortemente percussivo e fortemente bianco, lontano anni luce da psichedelia, tribalità varie ed assortite o african beat. È disco di percussionismo occidentale. Non mi vengono tanti esempi di questo tipo, specialmente se escludiamo gli anni della new wave.
Leonard Cohen – Death of ladies’ man 77/100
È tutto talmente sbagliato che a suo modo funziona ed è stato un fin troppo facile bersaglio da colpire. La storia dietro il disco è pura leggenda rock, ed il disco stesso alla fine è un ostaggio di Spector minacciato con la pistola (letteralmente eh!). Ma non è pesante, non ci sono orchestrazioni melense, ha sicuramente un merdoso suono pastellato che però ha un suo fascino che accompagna un Cohen, immagino, in piena fase dandy, ben lontano da qualsiasi tipo di impegno ideologico o politico. C’è tanto sesso, fatto e pensato, c’è morbosità e rimpianto e peccato, e la stessa copertina è un innocente bevuta con due amiche in un bar (in Polinesia), ma non mi stupirei se fosse partita una simpatica orgetta da lì a poco.
Everything Everything – Man alive 78/100
Riassumendo tantissimo: i Tv on the Radio che rifanno i Bloc Party a velocità dimezzata. La voce è una forte selezione all’ingresso, per il resto ingrassano le canzoni come possono di dettagli e coriandoli, azzeccando i pezzi lenti (Two for nero, veramente bella) e procurando un po’ di tartaro ai denti.
Codeine – The white birch 85/100
Non posso pensare che una band così possa avere una discografia lunga. È un continuo e sempre più
profondo viaggio nella incomunicabilità e nel torpore emozionale. Bellissimo, ma giuro che ho sudato un sacco per codificarlo, anche perché manca quel quid di Spiderland che ti aggancia il cervello, qui il rischio fortissimo è di dire che è sempre la stessa canzone (di merda).
Sufjan Stevens – Carrie & Lowell 85/100
Oh, ridendo e scherzando forse è davvero il suo migliore. È un disco acustico formalmente e sostanzialmente impeccabile, e ciò al netto di ogni discorso sulla personalità o profondità dei testi e dell’espiazione pubblica del ricordo e del lutto (che ci sono abbondantemente, ovviamente)
JPEGMAFIA – Veteran 83/100
Old school, New school, cCLouddead, Autechre, “FUCK”, Hypnagogie varie, intellettualismo vagamente nerd ma pur sempre coi pettorali contro alt-righ, machismo (nel mondo hiphop) ed altre insinuazioni odierne. Tutto questo, però fatto a pezzi, ritritato una seconda volta, buttato in aria e registrato così come ricade a terra, buona la prima.
Riascolti:
Low – trust 87/100
Classe infinita
Jimi Hendrix Experience – Electric Ladyland 100/100
Inutile fare le pulci o dire che qualche pezzo poteva essere tolto o che il minutaggio è esagerato. Jimi è stato un confine.
Arctic Monkeys – Favourite worst nightmare 67/100
Ho sempre pensato che fosse il loro disco migliore. Ripreso dopo questi anni, ci ho trovato una band giovane che rende molto spesso il suono a discapito di ogni possibile gancio melodico (che era il punto di forza dell’esordio). Buon disco, ma gli AM per me rimangono una buona band come centinaia, nulla di più nulla di meno.
Fugazi – The argument 90/100
Riflettevo su come la critica sia stata pigra coi Fugazi. Repeater, e poi tutti dischi ottimi a conferma di un culto nemmeno piccolo.
(Eccetto l'utente M** P***r85 che lo definisce in un impeto di obiettività "un crimine contro l'umanità.)
Per me è l’esatto opposto: il loro è stato un percorso costante, sempre uguali a se stessi ma ogni disco è diverso da quello precedente, senza mai snaturarsi (figuriamoci vendersi). Un percorso costante e continuo, non per forza di crescita, che sublima in The argument, ad oggi, il loro testamento. Che per me è il loro vero capolavoro nascosto. Disco che trovo perfetto: non sbagliano un solo gancio, sempre loro anche con il violoncello o il pianoforte, anche se McKaye pare un altro cantante, anche quando ti pare di sentire 5 secondi che starebbero bene in un disco prog, o dei Kinks o degli Who. Solo che finora sono stati elegantemente rabbiosi, mentre qui sono rabbiosamente eleganti.