. Io ho visto solo i film principali di Sergio Leone e mi sono anche piaciuti, ma poi non ho mai approfondito.
Tempo addietro fui coinvolto in un giochino perverso sui 10 migliori spaghetti (extra leoniani), copincollo qua di seguito le mie soffertissime scelte, fosse mai che volessi uno spunto per approfondire:
01
Il grande silenzio di Sergio Corbucci, 1968
Film tra i più cupi del genere, dal finale agghiacciante e pregno di un pessimismo senza pari. Pressoché unanimemente, è considerato uno dei capi d'opera in ambito spaghetti western. Fortuna che Corbucci non abbia utilizzato il finale alternativo che aveva girato (visibile tra gli extra del dvd), il quale avrebbe fatto crollare tutta l'impalcatura del film, con quella macro stonatura nella sceneggiatura - l'inverosimile ritorno dello sceriffo, in pieno stile "arrivano i nostri", che oltre tutto avrebbe cozzato non poco con la poetica dominate - ed a causa di una chiusura fin troppo edulcorata e quasi ottimista, simboleggiata dal sorriso a 32 denti del plumbeo Silenzio. Si narra che il finale alternativo fosse stato imposto dalla produzione, ma che Corbucci lo girò appositamente in maniera sgangherata ed eccessiva per non fargli mai vedere la luce... La pellicola mette in scena una storia che rivela, ad uno dei suoi massimi picchi, tutta la cifra stilistica e contenutistica di Corbucci, incentrata ancora una volta sulla vicenda del pistolero tormentato dai fantasmi del passato (come anche in "Django", "Gli specialisti", "Minnesota Clay", "Navajo Joe"), narrata attraverso la rappresentazione di una violenza esasperata, cruda e quasi mai stemperata dal cinico umorismo spesso utilizzato da altri registi del western all'italiana, Leone su tutti. Bravissimi i due protagonisti: Jean-Louis Trintigant (in quella che rimarrà la sua unica esperienza in ambito western) è davvero efficace nell'interpretare il tragico pistolero muto Silenzio e (l'immenso) Klaus Kinski ci regala una delle sue migliori performance nei panni dello spietato cacciatore di taglie Tigrero. L'atmosfera glaciale che aleggia per tutto il film è ulteriormente suffragata e sottolineata dall'insolita ambientazione della vicenda (ispirata ad un avvenimento realmente accaduto), che vede come sfondo un inconsueto e straniante paesaggio imbiancato dall'eccezionale nevicata del 1899, che ha colpito molte zone del sud degli Stati Uniti. (il great blizzard of 1899, nello specifico lo Utah (le riprese in esterno sono state fatte, per la maggior parte, a Cortina d'Ampezzo). Il candore della neve fa risaltare ancor di più il rosso del sangue, che scorre a fiumi, ma l'aspetto più pregnante e peculiare della pellicola risiede nel ribaltamento della figura del bounty killer, che anche se costruita come sempre intorno ad un soggetto mosso da meri ed amorali interessi economici, ne esce ammantata di un'aura luciferina, a differenza di quanto avveniva negli altri spaghetti western, dove, tutto sommato, i cacciatori di taglie non erano proprio degli eroi e degli stinchi di santo, ma quanto meno dei personaggi con i quali si creava una certa empatia. A conti fatti, il finale è analogo a quello, ad esempio, di "Per qualche dollaro in più" (il cacciatore di taglie che ammucchia i cadaveri dei ricercati in attesa di riscuotere il compenso), con l'unica determinante differenza che la valenza quasi epica del gesto messa in scena nel film di Leone viene completamente ribaltata, e il messaggio che ne esce è, per contro, quello di una strage sanguinosa, cruenta ed ingiusta, disturbante, mutatis mutandis, quanto quella di "Soldato Blu" di Ralph Nelson.
02
Se sei vivo spara di Giulio Questi,1967
Western assolutamente atipico e sui generis, molto violento (Giulio Questi dice di aver attinto per la rappresentazione delle scene più cruente ai suoi ricordi di partigiano durante la seconda guerra mondiale), che ammicca in più di un’occasione al genere horror, se non nella sostanza, certamente nella forma e nello stile. Ma non solo: essendo il nostro uno dei registi più originali ed innovativi del periodo (seppur, ahimé, poco prolifico), convinto sostenitore del cinema come manifestazione della pop art (magnifico il suo bizzarro giallo "La morte ha fatto l'uovo" del 1968, con Trintignant e la Lollo), vari elementi del film possono essere letti in questa chiave. A partire dalla citata commistione di generi normalmente distanti tra loro e dalla presenza di elementi bislacchi - come ad esempio il gruppo di cowboy omosessuali o le pallottole fatte d’oro - all’utilizzo molto peculiare del montaggio (del fido e inseparabile Kim Arcalli), del fuori fuoco e della fotografia, a tratti luminosissima, al limite della sovraesposizione, in piena dicotomia con il buio morale della quasi totalità dei personaggi. Epocale la scena iniziale, quando Tomas Milian, ferito ma ancora vivo, spunta a mo’ di zombie dalla buca che lui stesso si era scavato sotto minaccia ("Kill Bill Vol. 2"?), così come la colata aurea sul finale, che mi è parsa un'appassionata citazione visiva a certi horror degli anni '50, tipo "Il mostro della laguna nera". È un film unico, per certi versi estremo (fra i pochi spaghetti pesantemente censurati al momento dell'uscita nelle sale, forse l'unico), che si ama o si odia: per chi scrive è fra le vette del genere, e non solo. Un compendio di fantasia, coraggio, sperimentazione, ma al contempo di equilibrio e bravura nel far si che lo stile bislacco e sopra le righe non predominasse sugli aspetti narrativi, annullandoli e facendoli diventare mero pretesto e vetrina per l'esposizione di idee originali, e il tutto a basso, bassissimo budget. Erano proprio altri tempi per cinema italiano (sigh).
03
Il Mercenario di Sergio Corbucci, 1968
Film gemello di "Vamos a matar, compañeros", uscito due anni dopo, con Franco Nero questa volta nei panni del Polacco, Jack Palance sempre nei panni del villain e Tony Musante nella parte del peone rivoluzionario (che sarà invece di Tomas Milian nel 1970). I toni da commedia, rispetto a "Vamos a matar, compañeros", sono più stemperati, cosi come gli aspetti picareschi, seppur presenti in embrione, atteso che la vicenda si concentra maggiormente sullo spaccato della rivoluzione tout court (che invece sarà più di contorno e di pretesto nel film successivo), con relative implicazioni vagamente ideologiche, soprattutto nel finale. A ben vedere, comunque, al di là delle vicende e dei contenuti rivoluzionari tipici del tortilla western, sembra il più leoniano dei film di Corbucci, e per l'impostazione stilistica, e per la caratterizzazione dei personaggi principali (Nero e Musante, ispirati in larga parte a Clint Eastwood ed Eli Wallach). Il culmine, durante il duello nell'arena, mutuato da quello di "Per qualche dollaro in più" in tutto e per tutto: la sospensione temporale - quasi irreale - dell'attesa, fortemente supportata dal commento musicale di Morricone, i primissimi piani, il Polacco a far da "giudice", i tre colpi di campana in luogo del carillon, lo spazio circolare. In più, la trovata geniale di far partecipare al duello Paco (Tony Musante) travestito da pagliaccio, che conferisce alla scena un'ulteriore valenza tragicomica. Il film funziona in ogni suo aspetto: la fotografia è notevole, i dialoghi brillantissimi, Giovanna Ralli è al culmine del suo splendore e Franco Nero, nei panni di Sergei Kowalski, in quanto a coolness, è secondo solo al Clint della Trilogia del Dollaro. Citatissimo da Tarantino in "Kill Bill", e non solo per la (eccelsa) colonna sonora.
04
Da uomo a uomo di Giulio Petroni, 1967
Bellissimo film di Petroni, uno dei migliori autori – e sottolineo, autore: qua non siamo di fronte alla classica e celebrata figura dell'abile artigiano del cinema, regina nel mondo degli "spaghetti" e di tutto il cinema di genere italiano degli anni '50, '60 e '70 – nell’ambito del western all'italiana per chi scrive, che almeno quattro grandi film li ha fatti (su cinque: una bella media), ognuno per altro assolutamente a sé stante dal punto di vista stilistico e dei contenuti, una scelta coraggiosa ed apprezzabile che ha però avuto l'effetto collaterale di far passare il regista un po' in secondo piano, per via del grossolano errore fatto da molti nel confondere l'eclettismo con la mancanza di personalità. Come ha giustamente detto qualcuno, "Da uomo a uomo" potrebbe essere quasi considerato il quarto capitolo apocrifo della Trilogia del Dollaro leoniana, pur senza essere un mero esercizio di emulazione della cifra artistica di Leone stesso. Fantastica, praticamente da antologia, l’apertura del film, nella quale Petroni mette in risalto le sue indiscutibili qualità dietro la macchina da presa: la scena del massacro notturno iniziale crea una tensione degna dei migliori thriller ed è magistralmente diretta. E non che il resto del film sia da meno, con Lee Van Cleef in una delle sue migliori interpretazioni (al pari di quelle leoniane e di quella di Frank Talby ne "I giorni dell'ira", di Tonino Valerii) ed un in un più che convincente John Phillip Law, a condurre le danze. Questi, può essere visto quasi come un acerbo "straniero senza nome". Mi sono immaginato la storia come una sorta di prequel delle vicende del cinico e gelido personaggio interpretato da Clint Eastwood, di quando cinico e gelido del tutto non lo era ancora e un nome ce l'aveva. Pellicola citatissima da Tarantino nei suoi "Kill Bill": le musiche – sublimi – di Morricone in primis, ma anche i flash back in rosso del protagonista quando reincontra uno ad uno i carnefici della sua famiglia e rivive le scene del massacro, l'dea stessa del bambino che assiste all'eccidio dei propri genitori (ripresa dal buon Quentin nella parte anime, quando racconta la storia di O-Ren Ishii), i primissimi piani sugli stivali texani, il tema stesso della vendetta, narrativamente sviluppata come la lenta ricerca di un gruppo di persone da scovare una ad una molto tempo dopo il fatto di sangue scatenante. In definitiva, uno di quei film che potrebbe (rectius: dovrebbe) piacere anche ai non appassionati del genere, financo ai detrattori.
05
Tepepa di Giulio Petroni,1968
Probabilmente il più completo fra c.d. tortilla western, con un Tomas Milian in stato di grazia, in quella che, a mio avviso, è la sua migliore interpretazione in ambito “spaghetti”, impreziosita dal fatto che l’attore cubano ha provveduto per la prima volta anche al doppiaggio italiano del suo personaggio, con quel suo peculiare, inqualificabile ed istrionico (ma efficacissimo) accento. Il film, splendidamente diretto da Petroni, che si conferma una volta di più uno degli autori di maggior spessore apparsi nel panorama del western italiano (eccezionale e modernissimo per l’epoca, tra il resto, l’uso del flashback e il modo in cui si dipana ed intreccia la struttura narrativa), poggia su una solidissima sceneggiatura, che pur mantenendo il solito canovaccio (il confronto/scontro tra il peone rivoluzionario ed il gringo) e la spinta ideologica propri dei film sulla rivoluzione messicana, è capace da un lato di indagare alcuni aspetti psicologici dei personaggi, e dall’altra di mitigare e smussare gli intenti più dichiaratamente politici (è un film comunque figlio del ’68 e la somiglianza fisica di Tomas Milian con Ernesto “Che” Guevara in questa pellicola non è certo casuale), grazie ai chiaroscuri costruiti intorno alla figura di Tepepa ed al finale crepuscolare, quasi pessimista, anche in chiave rivoluzionaria (d'altronde, il fantasma del "tutto cambi affinché nulla cambi" gattopardesco aleggia per tutto il film). Infine, come non menzionare la partecipazione al film di Orson Welles – nella sua unica apparizione in un western, e non solo spaghetti – straordinario nella parte del Colonnello Cascorro e la colonna sonora del solito Morricone, che ancora una volta ha fatto bingo.
06
La resa dei conti di Sergio Sollima, 1966
Ho praticamente dovuto giocarmi ai dadi la scelta tra questo film e "Faccia a faccia", altro capolavoro di Sollima, interpretato dal magico (e purtroppo non bissato) duetto Gian Maria Volonté / Tomas Milian. Ha vinto, per pura sorte, "La resa dei conti". Solidissimo spaghetti western di Sergio Sollima, con due grandi protagonisti: Lee Van Cleef (che a detta dello stesso regista, non aveva bisogno di recitare, bastava metterlo davanti all’obiettivo, et voila, les jeux sont fait: certo, non si poteva fargli fare l’Amleto, ma per il western era perfetto, fenomenale) e Tomas Milian, reinventato per l’occasione - e per la prima volta - nel suo ruolo "naturale" di latino americano (molti non lo sanno, ma è cubano). Il paradosso del film è che, nonostante sia stato letto ed etichettato dai più come eminentemente “politico”, Sollima abbia in realtà operato un cospicuo lavoro di decontaminazione ideologica rispetto al soggetto originale, che disegnava il personaggio del fuggiasco messicano come un uomo di mezza età, più maturo e rivoluzionario tout court (si era pensato inizialmente a Gian Maria Volonté per il ruolo). Proprio l’introduzione di Cuchillo, che alla fine, per quanto possa essere visto come un personaggio positivo, non è certo un eroe o un maître à penser, ma un semplice “rubagalline”, giovane, un po’ truffaldino ed infedele del sottoproletariato messicano (che manco sa usare la pistola: quasi una bestemmia in ambito western!), aveva la funzione di mitigare l’attenzione del pubblico verso gli elementi più dichiaratamente ideologici della sceneggiatura, atteso che a detta dello stesso Sollima i film smaccatamente politici perdono di efficacia, politica innanzitutto. Il risultato è noto: Chucillo, soprattutto con il film successivo "Corri uomo corri", divenne un idolo per i sessantottini. Da evidenziare, una serie di gustosissime peculiarità del film, a partire dal fatto che il Cuchillo, che non sa usare la pistola, se la cava sempre unicamente con il coltello (cuchillo in spagnolo, per l’appunto): il duello finale sarà un apparentemente impari pistola contro lama, assolutamente inedito e fuori dagli schemi. Poi, il personaggio del Barone Von Schulenberg, nato dal cinefilo gusto per la citazione di Sollima (è esplicito il riferimento e l’omaggio ad Eric Von Stroheim), ma anche la colonna sonora, eccezionale, di Morricone, che nel duello finale mescola senza pudore e con incredibile efficacia Beethoven con gli spaghetti western.
07
Mille dollari sul nero di Alberto Cardone, 1966
Film nerissimo, di ispirazione biblica – come testimonia anche la citazione finale dal Levitico – dal titolo che richiama il gioco d’azzardo solo in virtù di un geniale calembour: 1.000 dollari rappresentano infatti il valore della collana che indossa la madre dei due protagonisti, perennemente vestita in nero. Può essere considerato il secondo capitolo di una nerissima trilogia biblica, composta dal presente film, da "7 Dollari sul rosso" del medesimo regista e da "I vigliacchi non pregano" di Mario Siciliano (già produttore - pare molto assillante e proattivo sul set - delle altre due pellicole). Per la prima volta appare il personaggio di Sartana, già qui interpretato da (un notevole) Gianni Garko, che fa il pazzoide manco fosse Kinski (a cui assomiglia anche fisicamente, per l'occasione) e che "lascia ai blocchi" l'altro protagonista, Anthony Steffen (al secolo Antônio Luiz de Teffé von Hoonholtz), bravino ma un po' legnoso. Sartana, tuttavia, è totalmente disallineato con il personaggio che diverrà poi il protagonista della fortunata serie: qua, infatti, egli è dipinto come un folle, luciferino e sanguinario, che utilizza come rifugio un tempio precolombiano e bacia un medaglione prima di accoppare qualcuno. E di gente, con la sua ammazzacristiani, ne sforacchia parecchia. Da notare, la copiosa presenza di personaggi femminili (almeno quattro quelli rilevanti ai fini della storia), solitamente assenti o molto marginali nei western all'italiana, a fare da collante e da propulsore a questa libera trasposizione tra polvere e pistole della vicenda di Caino e Abele. Fondamentalmente, un western di un pessimismo estremo, dove l'idea del male - vincente sul bene - presente in ogni essere umano, domina la pellicola dall'inizio alla fine. Il finale, nonostante a morire sia "Caino", è di un'amarezza infinita.
08
Ognuno per sé di Giorgio Capitani, 1967
Giorgio Capitani, dirigendo questo misconosciuto e (inspiegabilmente) dimenticato gioiello di celluloide, dimostra di essere un regista ricercato ed impeccabile, oltre a disvelare un particolare gusto per il dettaglio paesaggistico e naturalistico, per altro corroborato da una splendida fotografia. La sceneggiatura di Fernando Di Leo (che ha sostenuto in alcune interviste la totale incapacità di Capitani a dirigere un western, apostrofandolo addirittura come "morto di sonno", probabilmente per il suo stile misurato, raffinato e mai sopra le righe, sostanzialmente lontano dagli stilemi dello spaghetti western) è solida e si rifà agli antenati hollywoodiani, essendo incentrata sulla caccia all'oro da parte di un gruppo raffazzonato e disorganico di avventurieri (il riferimento a "Il tesoro della Sierra Madre" di John Huston pare piuttosto esplicito, ed è confermato dallo stesso Capitani). Il cast è assolutamente straordinario, a partire da un imbolsito (e ormai alcolizzato, ma super professionale sul set ed efficacissimo per il ruolo) Van Heflin, nella parte del protagonista principale, un vecchio e un po' patetico cercatore d'oro che finalmente trova un filone in una miniera, dopo anni di vani tentativi, per proseguire con l'eccellente Gilbert Roland (fisicamente, un Willy DeVille ante litteram!) nei panni di un avventuriero raffinato ed ammalato di malaria, il solito (grande) Kinski, psicoticamente al di sopra delle righe, quasi in assetto proto-herzoghiano ed un convincente George Hilton, in quella che per chi scrive rimane la sua migliore interpretazione in ambito western, nella parte del compare di Kinski, del quale è morbosamente succube e con il quale è lasciata intendere l'esistenza di un legame omosessuale (tema certamente scottante per l'epoca, tanto più in un film western - sono ancora lontani i tempi de "I segreti di Brokeback Mountain" - ma che, per assurdo, tornerà altre volte, seppur di striscio, fra le tematiche toccate dagli "spaghetti", vedansi "Se sei vivo spara" di Giulio Questi o "Il grande duello" di Giancarlo Santi, dimostrando una volta di più anche la valenza sperimentale e di rottura del cinema italiano di quel periodo, ma anche la grande libertà di cui godevano, in fin dei conti, registi e sceneggiatori). Inconsueto per il genere il tratteggio psicologico dei personaggi (nel western all'italiana i profili dei protagonisti sono mediamente tagliati con l'accetta ed è rarissimo intravedere anche solo un barlume di volontà di introspezione), che si unisce ad altri aspetti della pellicola che possono essere accostati più al western classico made in USA che non a quello nostrano, come già accennato. Basti osservare, ad esempio, la dinamica delle sparatorie, non eccessive nel numero e non così cruente. Molto bella la colonna sonora di Carlo Rustichelli, a tratti maestosa, che pur rifacendosi anch'essa ai grandi classici d'oltreoceano, assume una sua peculiarità dal retrogusto sinfonico. Impedibili e gustosissime le interviste a Giorgio Capitani e George Hilton (due persone squisite), presenti fra i contenuti extra del dvd (edizione Koch Media, uscita per il mercato tedesco col titolo "Das gold von Sam Cooper" ma con l'italiano fra le lingue opzionabili), ricche di aneddoti e retroscena.
09
I quattro dell'Apocalisse di Lucio Fulci, 1975
"I quattro dell'apocalisse" fa parte di quel ristretto gruppo di film che, ad anni '70 abbondantemente inoltrati, quando il western italiano era ormai irrimediabilmente compromesso su tutti i fronti (quello qualitativo innanzitutto), ha provato – e con successo, per chi scrive – ha ridare linfa al genere proprio al suo crepuscolo, un po’ come a dire: “almeno chiudiamo in bellezza”. Basti pensare a "Keoma", "California", ma anche, seppur in misura minore, a "Mannaja". In questo contesto, Fulci, al suo secondo western (il terzo, "Sella d’argento" è considerato, per convenzione, uno degli ultimi “spaghetti” prodotti), gira quello che di fatto è un originalissimo e nerissimo road movie (ridotto per il grande schermo da alcuni racconti di Francis Brett Harthe), caratterizzato da una narrazione singhiozzante, una fotografia ricercata e a tratti luminosissima e soprattutto dalla crudelissima cifra stilistica del regista, che se in "Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro" era già presente in fase embrionale, qua esplode in tutto il suo perfido splendore. E, per chi come me non ama gli zombies e l’horror in generale, in quello che rappresenta il suo più alto picco qualitativo (insieme a "Non si sevizia un paperino"). I personaggi a cui fa riferimento il titolo, un gruppo disomogeneo di disperati – un gambler un po’ dandy (Fabio Testi), una prostituta incinta (Lynne Frederick, la bellissima ultima moglie di Peter Sellers), un nero toccato che parla con i morti (Harry Baird) e un alcolizzato (Michael J. Pollard) – sono ottimamente caratterizzati e decisamente ben interpretati, ma una menzione a parte ed un’attenzione particolare vanno concesse al Chaco di Tomas Milian (eccezionale, in una delle sue migliori performance, che dice di essersi ispirato a Charles Manson per interpretare questo ruolo), un villain assolutamente fuori dagli schemi e decisamente in linea con la poetica della crudeltà di Fulci, la cui malvagità non è il veicolo per raggiungere un obiettivo di qualsivoglia tipo (nel western, usualmente, un vantaggio economico), ma è il fine, la sostanza stessa del suo essere: decisamente il più sadico, pazzo, bastardo, figlio di puttana che abbia mai calcato le scene di un western italiano, e forse non solo. È infine opportuno spendere due parole per la colonna sonora, che si discosta in maniera radicale da quelle più tipiche dei classici western (sia americani che europei) e si appropria per contro di sonorità di chiara matrice country-rock e west coast, conferendo all’opera un tono molto yankee e molto "anni '70", anche per i brani cantati (e già questa, da sola, sarebbe una peculiarità) in inglese.
10
E Dio disse a Caino... di Antonio Margheriti, 1969
Bellissimo western dai tratti gotici e dalle tinte fosche di Antonio Margheriti, uno dei maestri del cinema di genere italiano. Il film, fatto salvo il soleggiatissimo ed abbagliante incipit dal sapore quasi country-blues (che mia ha fatto sovvenire le atmosfere che si respirano in "O Brother, Where Art Thou?", l'eccezionale film dei fratelli Coen), è insolitamente notturno e prende a prestito più di un elemento dal cinema horror, non a caso uno dei generi con cui si è misurato Margheriti: le campane che suonano misteriosamente ed incessantemente quale chiaro segnale di eventi nefasti, il continuo e lugubre soffiare del vento, la musica sinistra dell'organo a canne, suonata da un inquietante prete a metà strada tra l'alienato e l'allucinato, l'impiccagione alla campana della chiesa, e via dicendo. Il film, che riesce perfettamente nel dichiarato intento di discostarsi da quelli che ormai nel 1970 possono essere considerati i canoni dello spaghetti western (in maniera analoga, seppur significativamente diversa, a quanto fece Giulio Questi con il suo meraviglioso e squinternato "Se sei vivo spara"), è diretto impeccabilmente (con qualche gran colpo di classe: la goccia nella pozzanghera nel cimitero indiano) e Klaus Kinski, per una volta protagonista principale di un western, è straordinario nel ruolo per lui insolito del buono. Che poi, buono si fa per dire, visto che agendo accecato dalla sete di vendetta, in pieno stile angelo sterminatore, ammazza cristiani manco fossero formiche, senza mostrare un minimo di pietas. A latere, pare che Kinski - terrore dei registi - noto per il suo caratteraccio e le sue scenate da prima donna nel corso delle riprese, abbia trovato in Margheriti un osso durissimo e che al primo tentativo di bizza, con consueta minaccia di abbandonare il set, il regista si sia adirato a tal punto da scagliargli addosso alcuni dei fucili di scena, ottenendo l'insperato ed imprevedibile effetto di farlo diventare docile come un agnellino per tutte le riprese del film. E non solo: tra i due si instaurò un ottimo rapporto, che permise loro di proseguire la collaborazione anche in pellicole successive. Scrive a tal proposito Edoardo Margheriti, figlio del regista: "Klaus era un animale da cinema, e probabilmente voleva sentirsi dominato dalla persona preposta a dirigerlo. Infatt,i in seguito ebbe un rapporto straordinario con Antonio, lavorando in molti altri suoi film. Credo che Antonio Margheriti e Werner Herzog furono i soli due registi a creare un rapporto di superiorità, e conseguentemente di collaborazione e stima, con Klaus Kinski." Evidente (e dichiarato dallo stesso Margheriti) l'omaggio a Orson Welles (del quale il regista era un grande estimatore) con il duello finale tra gli specchi, che cita e richiama "The Lady from Shanghai" e "Citizen Kane".
Joker:
Django di Sergio Corbucci, 1966
Semplicemente, non può mancare.