ci sono cose sulle quali siamo tutti d’accordo a proposito dei korn e della loro discografia maggiore
l’esordio korn (1994) resta una tappa imprescindibile del rock anni 90, un disco che ha rinfrescato la conservativa scena metal, un vero e proprio assalto sonoro che aggrediva l'ascoltatore con una rivisitazione personale e fresca delle innovazioni dell'alt-metal di fine 80/inizio 90, trasformandolo nello psicodramma del cantante jonathan davis assurto da subito come nuovo paladino di una generazione di ragazzi vittime di abusi, nevrosi e solitudine. life is peachy (1996) ne è un degno seguito che se possibile alza ancora di più la posta in fatto di sound viscerale e dark. ma è follow the leader (1998) che si impone come il manifesto di un nuovo genere per l’occasione codificato alla perfezione per essere annunciato alle masse: i korn piantano la propria bandiera su quel terreno ancora da civilizzare alla convergenza tra metal, rock, industrial ed hip-hop che da lì in poi chiameremo nu metal
ci sono invece cose sulle quali non siamo tutti d’accordo: ad esempio sul resto della loro discografia. per la maggior parte degli addetti ai lavori i korn non hanno più pubblicato nulla di interessante. per molti hanno iniziato proprio a fare schifo. non ha sicuramente giovato la perdita di popolarità del nu-metal a metà anni 2000 che ha improvvisamente fatto diventare obsoleta ogni band identificativa del periodo. in verità i profeti di questa nuova generazione “assaltatrice” (un po’ metal, un po’ punk, un po’ goth) sono sopravvissuti alla loro stessa creazione e il mio tentativo è proprio quello di proporre alcuni dischi meritevoli dei korn post-follow the leader
issues (1999)
dopo aver istituzionalizzato un nuovo genere i korn se ne distaccano, lasciando il rap-metal ai loro protégés limp bizkit, riaffermando così il loro ruolo di leaders nella scena alt-metal e dimostrando che la vera differenza tra i korn e la folta schiera di imitatori che imperversano a fine anni 90 sta tutta nella grandiosità e maestria del suono. i korn – fin dagli inizi – sono il loro suono. certamente le lyrics violente ed arrabbiate urlate, singhiozzate, vomitate o cantate da davis hanno fatto la loro parte nel rendere i korn famosi. ma il vero marchio di fabbrica della band è sempre stato il sound granitico, la chitarra ossessiva, il basso psicopatico: è sempre lo stesso sound oscuro sparato a tutto volume, potente ed aggressivo, quello che ha caratterizzato la band. questo è vero per tutti i loro dischi, ma ancora di più lo è per issues, un disco che riporta il loro sound alle sue forme essenziali e che da lì riparte per espanderlo e ricomporlo. se possibile è ancora più dark dei dischi precedenti, la colonna sonora di un suicidio, ma allo stesso tempo è diverso, la coltre oscura dei primi album è mediata da una ricerca sonora che prosegue la sperimentazione di follow the leader e che lascia molto più spazio alla melodia. il capolavoro di apertura,
falling away from me, è quasi una ballad se non fosse sfigurato da chitarre che affondano come lame. il secondo singolo
make me bad è invece puro anthem korn-iano mentre
somebody someone è un’altra delle loro filastrocche demoniache. menzione d’onore: la strizzata d’occhio industrial di
let’s get the party starter untochables (2002)
con l’esordio rivitalizzarono il metal, traghettandolo dal medioevo all’età moderna. con il terzo disco, follow the leader, portarono la loro formula nel mainstream, spazzando via pregiudizi e steccati musicali. il quarto album, issues, era cupo ed impenetrabile. con il quinto, untochables, il tentativo era di andare oltre se stessi, fare un disco "alla korn" ma che non suonasse come le folte schiere di imitatori (un po' l'ossessione di davis & co nel periodo issues/untouchables: rimarcare la propria superiorità/originalità). c’è qualcosa oserei dire di rassicurante nel sentire la pesantezza granitica del muro di chitarre che assaltano l’ascoltatore nell’apertura di
here to stay: la buona notizia infatti è che i korn sanno ancora suonare musica pensata per fare da colonna sonora al giorno del giudizio.
thoughtless vorrebbe essere la nuova faget, ma nel post-columbine nessuna canzone che parli di vendette sui bulli può essere cantata (e venduta) a cuor leggero (video compreso, con tanto di censura dei versi: “I wanna kill and rape you, the way you raped me/It's on, pull the trigger and you're down, down, down”). però questo pezzo è forse quello più in linea con il passato. il nuovo sound emerge nelle sperimentazioni di brani come hollow life e make believe che sublimano tutta la passione di davis per la new wave. qualcosa sicuramente si deve anche al produttore michael beinhorn che espande il sound dei korn con tocchi di elettronica ed arrangiamenti magniloquenti. squilibrato ed imperfetto ma rimane molto probabilmente il loro ultimo album di rilievo. ed anche il loro ultimo best-sellers: 430.000 copie vendute nella prima settimana per poi diventare platinum
take a look in the mirror (2003)
dopo il dittico issues/untochables che aveva mostrato il lato più sperimentale e melodico del gruppo, smussando parecchio le asperità del loro sound, i korn tornano alle origini con un album dal sound aggressivo e grezzo. take a look in the mirror è il classico disco che arriva alla fine del ciclo più florido e fruttuoso della carriera di una band. quindi da un certo punto di vista beneficia di una solida esperienza, ma dall'altro denota stanchezza. il gruppo è in crisi, schiacciato dalle pressioni, con i singoli membri alle prese con problemi personali (soprattutto di droga), la vena artistica è ormai palesemente prosciugata e non è di certo un caso che questo sia l'ultimo album con la line-up originale al completo. anche per questo il disco ha un fascino decadente da fine di un'epoca che è più facile scorgere a posteriori. i korn hanno riversato in take a look in the mirror tutta la frustrazione, la rabbia, la stanchezza di una band agli sgoccioli. è il prodromo della crisi di identità che attanaglierà il gruppo negli anni successivi. all'epoca della sua uscita venne accolto tiepidamente se non proprio in maniera negativa: era il 2003, il nu metal stava rapidamente sparendo dalla scena mainstream e nessuno era più in vena di fare sconti. curiosamente anche gli stessi davis e head considerano take a look in the mirror uno dei peggiori album dei korn. in realtà i fan lo apprezzano molto e con il passare del tempo, soprattutto guardando a cosa è venuto dopo, assomiglia davvero al loro canto del cigno. nulla di nuovo, ma i korn si impegnano a sfornare alcuni dei loro pezzi più aggressivi del loro repertorio, come l'uno-due da KO iniziale: l'invettiva urlata di right now e il quasi-death di break some off. è un repertorio collaudato il loro, come testimoniano pezzi alla issues/untochables come alive, il rap metal alla follow the leader di play me o il funky delle origini di y'all want a single, il melodramma wave di everything i've know. il disco è breve e vario, solido ed affidabile. nulla di nuovo per i korn, ma fatto bene