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Julian Jaynes - Il crollo della mente bicamerale e lā??origine della coscienza


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Inviato 15 maggio 2009 - 08:21

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#2 wago

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Inviato 16 gennaio 2012 - 23:08

Ho appena letto questo libro anch'io (scoperto proprio da una minidiscussione a riguardo tra Frankie e Rien, su Facebook). Il tema della coscienza è da tempo una delle mete preferite delle mie seghe mentali, e questo libro mi ha dato moltissimi nuovi spunti. Ero incerto se aprire un thread più generale sulla coscienza in sé oppure proseguire qua: opto per la seconda, ma vorrei che la discussione fosse il più aperta possibile, non soltanto un elenco di pareri sul libro da parte degli utenti che l'hanno letto (oltre ai già citati dovrebbe esserci Number, autore di una recensione ultranegativa su Anobii).

Non sto a ripetere la tesi esposta da Jaynes in questo libro: l'ha già fatto bene Rien, facendone ben cogliere sia l'originalità (per non dire bislaccheria) che gli elementi di fascino. Cerco dunque di sviluppare alcuni pensieri sparsi che mi son venuti in mente durante la lettura, raggruppandoli sommariamente in "pro" e "contro" il quadro tracciato nel saggio.
Inizio dai secondi, coi quali è sempre più facile far bella figura:

CONTRO:
- Se l'uomo ha sviluppato la coscienza solo dopo l'età del bronzo, e in modo indipendente nelle varie civiltà, perché non cercare conferma della teoria nelle culture "tribali" ancora esistenti in Africa, Papuasia, Australia, Siberia, Amazzonia? Uno dei grandi assenti del libro - fondato su basi archeologiche, psicologiche e letterarie - è l'etnografia, dalla quale a occhio e croce rischiano di arrivare sconfessioni molto nette.

- Similmente, la totale assenza nel mondo attuale o immediatamente precedente la globalizzazione di società compiutamente bicamerali appare poco giustificabile: Jaynes suggerisce che l'ultima ad essere caduta sia stata quella Inca, e le ipotesi da lui formulate a riguardo appaiono anche piuttosto convincenti, ma mi resta il dubbio che fino almeno a metà ottocento qualche altra cultura bicamerale avrebbe dovuto sopravvivere, cosa che invece non appare vera (o quantomeno non viene suggerita).

- Perché nel nostro mondo "cosciente" non nascono individui che manifestino in maniera nitida questa bicameralità, o quantomeno la non-coscienza? Jaynes inquadra gli schizofrenici come "parzialmente bicamerali" e argomenta bene la sua posizione, ma si tratterebbe pur sempre di persone coscienti che perdono in parte la loro coscienza e "unità interiore". Eppure, se la coscienza è un costrutto socialmente acquisito, dovrebbero esserci bambini "incapaci di apprenderla", e nello specifico bambini cresciuti in contesti particolari (es. allevati dalle scimmie, particolarmente isolati o maltrattati ecc) dovrebbero risultarne privi.

- Alcune pseudo-ricostruzioni storiche mi risultano davvero troppo, troppo fantasiose. La sua ipotesi per l'origine del mito di Atlantide, dell'Età dell'Oro e del Paradiso Terrestre è la prima sensata che leggo da sempre, ma ad esempio l'idea delle statue e degli amuleti divini capaci di per sé di indurre allucinazioni mi risulta davvero troppo, troppo fantasiosa, così come forzatissime mi paiono alcuni ragionamenti sulla "bicameralità" dell'Antico Testamento.

- Jaynes non riesce a spiegare i processi neuronali - e in fin dei conti nemmeno quelli mentali - tramite i quali la mente cosciente possa emergere. Prova a tracciarne la genesi storica, ma non affronta realmente il nodo cruciale del "tramite cosa?".

- (Più sostanziale) La coscienza come intesa da Jaynes - essenzialmente: uno "spazio interiore" in cui disporre di un proprio io virtuale che possa rivivere situazioni passate, viverne di future o immaginarie, rappresentarsi scene, "spazializzare" il tempo vedendolo acquisendo un senso di storia - non coglie a mio avviso la vera essenza e il mistero della coscienza. Che è per me qualcosa di molto più intangibile.
A mio avviso la coscienza è quel qualcosa che rende una persona diversa da uno "zombie filosofico" (vengono indicati così uomini virtuali che agiscono, parlano, si relazionano agli altri in maniera indistinguibile dagli altri - e al limite hanno gli stessi pensieri e processi mentali - ma sono in realtà "automi" che non hanno consapevolezza di sé). E' la sensazione di "esserci", l'impressione data alla coscienza stessa di "trovarsi dentro" a una persona e da lì abitare il mondo esterno. Jaynes compie un ottimo lavoro di scomposizione, sfrondamento e razionalizzazione dell'essere coscienti, ma non riesce a toccare e forse nemmeno vede il nodo più ostico e autoreferenziale.
Il fatto è che secondo me la coscienza non è un proccesso consapevole e men che meno razionale. E' una sensazione, che ho anche quando non sto lì a pensare a cosa significhi essere coscienti; che ho quando non rifletto affatto e non sono concentrato; che ho perfino mentre sogno. L'impressione, appunto, di "essere qui" - e il fatto stesso che esista un quid che possa impressionarsi di essere qui. "Quid" che potrebbe tranquillamente non esserci senza che a un osservatore esterno cambiasse alcunché (è la famosa questione del "come faccio a sapere che gli altri sono coscienti come me?").

Ovviamente si potrebbero scrivere mille altre obiezioni alle tesi di Jaynes, che sono talmente strampalate, speculative quando non fondate su illazioni, e lontane da quel che è solitamente accettato da risultare facilmente bollabili come "paccottiglia priva di scientificità". Dawkins ne ha scritto, stando a wiki, che il suo libro è "o il lavoro di un genio assoluto, o spazzatura pura e semplice, senza alcuna possibilità intermedia" e credo che la sua frase sia azzeccatissima.
Nonostante questo credo che Jaynes abbia avuto alcune intuizioni sbalorditive, che esigono un quadro in cui essere inserite: se non quello poco credibile imbastito da Jaynes, uno nuovo che sappia intergarle o rispondere loro criticamente. Farle passare sotto silenzio (come invece pare sia accaduto) sarebbe ottuso e supponente. Nello specifico:

PRO:
- Jaynes ha estromesso dall'idea di "coscienza" moltissimi processi comunemente identificati con essa: dalla razionalità al "pensare sé stesso pensante", passando per la capacità di apprendere, il pensiero tout-court, la concettualizzazione, i qualia (anche se non li nomina esplicitamente). Ne propone una nozione fortemente indebolita ma anche molto coesa, mettando il risalto alcuni aspetti fondamentali che altrimenti risultano sempre invisibili posti come sono "nell'ombra" delle categorie più ampie appena indicate. Soprattutto, però, la nozione che ne propone è tangibile e sottoponibile a verifica: non un concetto filosofico, ma un sistema di rappresentazioni mentali che si trova alla portata di discipline scientifiche esistenti e consolidate. Il suo inquadramento risulta a mio avviso molto più foriero di sviluppi - per stare sui best seller divulgativi - rispetto a quelli degli apprezzatissimi "Godel Escher e Bach" o "La rete della vita", che propongono una coscienza molto più allargata ed evanescente.

- I meccanismi mentali messi al centro da Jaynes sono evidentemente fondati sul linguaggio. Ne consegue che l'uomo non poteva possederli prima di possedere un linguaggio. Al di là di ogni "loop neuronale" che possa portare i processi mentali a riferirsi a sé stessi, dunque, perché l'uomo possa "pensare" così come pensa uno di noi è strettamente necessario che possieda un linguaggio. Sembra una totale ovvietà, ma non lo è affatto: è solo perché Jaynes ha la capacità di "asciugare" la coscienza fino a far emergere questi processi costitutivamente linguistici che si riesce a vederlo.

- La rete di analogie tra la "voce interiore" che guida i nostri pensieri coscienti, voci allucinatorie degli schizofrenici, profeti&oracoli, ipnosi è estremamente convincente e molto probabilmente riflette un legame autentico: questi fenomeni appaiono annodati profondamente e ogni valida teoria della mente dovrebbe preoccuparsi di sciogliere questo nodo.

- L'analisi dei poemi omerici sulla base di parole chiave "anatomiche" che si accollano compiti semantici e narrativi che oggi spetterebbero al termine "io", per quanto con ogni probabilità filologicamente scorretta, fornisce una convincente approssimazione di quello che avrebbe potuto essere lo "spaccato mentale" di un uomo pre-cosciente, in cui pian piano il "cuore" che batte, i "polmoni" che sussultano, le "viscere" che si contorcono, lo "sguardo" che focalizza ecc convergono in un unico "io".

- Similmente, la visione degli dèi come "amici immaginari" con cui conversare in assenza di un vero e proprio io - al di là della comunque affascinante tesi secondo cui questi sarebbero stati voci capaci di dare comandi a cui sia impossibile non ubbidire - sembra trovare effettiva corrispondenza nei testi antichi e potrebbe in effetti rappresentare un meccanismo mentale importante.



Mi rendo conto di essermi incentrato troppo sul libro e aver lasciato poco di comprensibile a chi non l'avesse letto (la maggioranza, immagino). Magari poi cerco, spero in maniera più stringata, di buttar lì anche qualche altro spunto, meno specificamente legato al testo. Che comunque ho trovato estremamente stimolante e mi sento di consigliare a tutti.
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#3 Ronald Regaz

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Inviato 06 febbraio 2012 - 01:32

letto la scorsa estate, cosa che desideravo fare da anni. non trovo di meglio che copia- e incollare la recensione che gli ho fatto su anobii:


"libro intensamente affascinante anche se, e nella misura in cui, le teorie proposte possono fare acqua. d'altronde, non si compra un saggio scientifico edito da Adelphi per leggere qualcosa di pacificamente accettato dalla communis opinio; l'amico Calasso li sceglie non diversamente da come sceglie i romanzi, e infatti questo tomo di Jaynes è innanzitutto una lettura bella, avvincente, financo commovente. e nessuno dica che l'esposizione è ripetitiva: per esser divulgazione scientifica anglosassone, non lo è. di solito, la divulgazione scientifica anglosassone, anche e vieppiù la migliore, ha un andamento così didascalico e ripetitivo che sembra stia parlando a un bambino scemo.
ha ragione chi scrive che questa lettura cambia la vita, nel senso, quantomeno, del modo di vedere le cose; peraltro, per i motivi suesposti, non bisogna neanche esaltarsi ingenuamente credendo che sia tutto vero (o verificabile). peraltro, come era lecito aspettarsi, Jaynes sembra farsi molto meno affidabile quando si avventura al di fuori del suo campo di competenza. purtroppo, questo è vero soprattutto quando fa considerazioni linguistico-filologiche, che, oltretutto, sono il *mio* campo di competenza. in particolare, davanti a certe etimologie greche (proposte da lui, o lette chissà dove e date per buone: c'est égal) che avrebbero fatto accapponare la pelle ai primi indoeuropeisti di due secoli fa, mi viene da dubitare fortemente dell'affidabilità del Nostro quando, disinvoltamente, critica l'interpretazione di termini assiri o egizi da parte degli specialisti, fornendo poi la propria.
in ogni caso, lettura consigliata, soprattutto se si hanno gli strumenti critici per separare il suo profondo fascino poetico dalla sua - sicuramente non nulla; probabilmente non totale - validità scientifica."

aggiungo che la scorsa settimana all'Ashmolean Museum ho visto uno di quegli idoli occhiuti che secondo Jaynes servivano a provocare le allucinazioni, ma nonostante l'abbia fissato intensamente nelle palle degli occhi per un paio di minuti non ho sentito le voci.
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