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Necropoli


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Inviato 20 maggio 2008 - 12:30

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Boris Pahor - Necropoli [Fazi, 2008]

Nel 1966 Boris Pahor, triestino di lingua slovena, ritorna al campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, dove era stato deportato più di vent??anni prima per aver militato nella resistenza antifascista. Qui si mischia ai turisti, ma è inevitabile lo scarto fra le loro sensazioni e le sue; e quando la vista scoperchia i ricordi sepolti nella sua memoria, egli dà avvio ad una riflessione rinviata troppo a lungo.

Salta subito agli occhi, una volta addentro alla lettura, l??assenza di capitoli: Necropoli è un fluire unico ed ininterrotto, scandito soltanto da alcuni stacchi grafici, pause necessarie a prendere fiato. D??altronde non si poteva strutturare e dunque dominare questa memoria, che si riversa tanto prepotente sulla carta: è inevitabile arrenderglisi, l??unica operazione intellettuale concessa è la metafora, atta a portare fuori dall??orrore e dall??insensatezza i ricordi. A ricollocarli nella vita.
Sin dalla prima pagina Pahor dice di ??un??immagine onirica che dalla fine della guerra riposa intatta all??ombra della mia coscienza?. Con essa fa fatica a rapportarsi, pure a distanza di anni: ??nella limpida luce del mattino queste immagini appaiono ora impossibili [?], trasferite per sempre nell??atmosfera irreale del passato?. Arriva poi ad individuare il perché di questa difficoltà: ??il mondo del campo di concentramento rimaneva incomunicabile?. Incompatibile con quello della civiltà. E?? troppo ampia la differenza fra la necropoli e l??incoscienza propria dei vivi e della natura, degli innamorati e dell??erba che cresce. Noialtri possiamo prendere, ma non comprendere questa testimonianza. Commuoverci, ma non compatire, spartire il dolore.
Pahor ne è consapevole, riconosce che ??è inutile meditare su questi fatti?. E non nasconde nemmeno il suo pregiudizio nei confronti di coloro che visitano il lager, deposito di una memoria incomprensibile e pericolosa, dato che lo ??spettacolo del male?, della fame e della cenere, può dannare. Il suo sdegno deriva dal dolore, lo definisce come ??un privilegio che ha a che fare con la mia appartenenza alla casta dei reietti?. E più volte ripete ??sono ingiusto?: sa che loro, che noi non abbiamo colpa di questo nostro limite. Come potremmo capire quella città di morti scaturita dalla xenofobia, paura tutta umana per il diverso che diventa un comodo nemico, a spese del quale rifarsi un??identità perduta o minacciata? Quella città di terrore, e che del terrore delle vittime si nutre? Nella quale si comincia ad annientare l??uomo sostituendo al nome un numero, operazione sulla quale rifletteva pure Primo Levi, e si arriva a renderlo soltanto parte di una ??massa multicefala?, somma di solitudini animalesche guidate dall??istinto?

In una situazione simile, l??unica via per non morire, per trattenere il proprio animo, è curarsi degli altri. Combattere le malattie, nel vuoto di senso del mondo crematorio, è la più grande sovversione che si possa immaginare, e per Pahor diventa il rito con cui celebra la propria ??fede nella sopravvivenza?, ??sorda e cieca? al circostante. Per non vedere l??azzeramento del futuro egli si getta a capofitto nel proprio lavoro di infermiere: ??Ero quei gesti, ero quella cura operosa per gli altri. E come da quell??operosità era escluso non solo ogni mio pensiero, ma perfino ogni presentimento sul mio futuro, così ogni pensiero sul futuro degli altri era eluso dalla mia sollecitudine verso di loro?.
Sempre per sopravvivere egli si ferma alla superficie dell??orrore, rinuncia a conoscerlo fino in fondo. Si aggrappa a tal punto alla propria apatia che questa diventa qualcosa di necessario e inevitabile: non concepisce la fede di Tomaz, che ci descrive in maniera accorata e commovente mentre cerca di aggrapparsi alla vita, rifiutandosi di sopprimerne il gusto e le scintille che scaturiscono anche qui, in questo momento. ??Non riuscivo a capire se si accorgeva di quanto la sua baldanza lo stesse portando alla deriva?.
Anche Tomaz ha compreso che l??amore e la cura per l??altro è l??unica reazione possibile alla morte: e così, mentre Pahor si occupa degli ammalati, egli si prende a cuore Pahor stesso, cerca di condividere con lui la speranza e le immagini della vita che si tiene ben strette. E ci riesce, anche se per un attimo soltanto. Ma è purtroppo l??infermiere ad avere ragione in ultima istanza: ??un morto fra i vivi ci può stare, il contrario no?. Nella necropoli tutto appartiene alla morte e con essa si deve convivere, stando bene attenti a non provocarla né tantomeno a tradirla, perché subito lei si vendica, ghermisce colui che si abbandona ad un istante di vitalità.

E?? l??abulia a salvare Pahor e a dargli la possibilità di tornare anni dopo a quella terra indimenticabile. Di fronte al ??santuario umano? e all??altare di ??ossa umiliate? egli può finalmente abbandonare il torpore e capire, nella ??chiaroveggenza? concessa dall??inchiostro sulla carta. La parte conclusiva del libro è tutta una riflessione vertiginosa che abbraccia l??antropologia del popolo tedesco e dell??umanità in senso lato, il superuomo di Nietschze, l??ingiustizia degli onori riservati ai soli caduti in guerra e non ai deportati, l??Europa che sfugge alla resa dei conti col proprio passato e celebra ??processi da operetta? [si veda a tal proposito Criminali di guerra in libertà di Filippo Focardi, pubblicato quest??anno da Carocci]. Perché l??uomo tende a far cadere nell??oblio le proprie tragedie, a dimenticare tutto per continuare a vivere e a sbagliare di nuovo, come riflette Kenzaburo Oe nelle sue Note su Hiroshima [Alet, 2008], opera per certi versi sorella di Necropoli. Gli hibakusha giapponesi ed i deportati sopravvissuti, ma sfregiati nel corpo e ancor più nell??anima, sono entrambi monumenti della follia del Novecento, indispensabili per ricordare. Cosa che loro stessi vorrebbero ma non riescono ad evitare, schiacciati da un peso insostenibile che ha spesso condotto al suicidio, ovvero alla distruzione di sè, di quel monumento opprimente ed ossessionante. E sempre a soffrire, ad essere pazienti silenziosi nella waste land del secolo breve.

Infine, Pahor si ritrova di fronte alla visione onirica a lungo sopita. Passato e presente, la narrazione dell??esperienza nel lager e quella del ritorno allo stesso da uomo libero, si con-fondono in un esercito impassibile di uomini in uniformi zebrate, né vivi né morti, ma vuoti. Svuotati.

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