LA PRESENTAZIONE DEL SÉ IN 4:3. DISTINZIONE, IDENTITÀ E SPAZIO DOMESTICO DOMANI
Durante i mesi di operatività delle misure di contenimento della diffusione del nuovo coronavirus abbiamo assistito a rappresentazioni del sé rese da decine di uomini politici, medici, docenti universitari, giornalisti, imprenditori, uomini di spettacolo ed «esperti» di ogni genere, in live streaming dai propri canali personali o intervistati da emittenti televisive ed edizioni digitali di pubblicazioni informative. Una parte assai consistente delle interviste alle quali siamo stati febbrilmente esposti è avvenuta e avviene ancora dall’inconsueto spazio domestico dell’intervistato. Questi, in momenti storici di normale mobilità, sarebbe apparso possibilmente dalla propria postazione lavorativa, in un ambiente assai più prevedibile e più strettamente legato alle ragioni per le quali è gli è stata data la facoltà di esprimersi pubblicamente in quanto portatore di specifiche conoscenze professionali. Immergere l’intervistato all’interno del proprio spazio privato implica una ridefinizione degli elementi costituititivi del messaggio trasmesso, ora dotato di un significato non solo derivante dal contenuto verbale dell’intervista, ma dalla totalità degli elementi espressivi verbali e immaginali contenuti in quel rettangolo in proporzione 4:3 all’interno del quale l’intervistato è ingabbiato. Elementi di «distinzione» che prima avrebbero trovato luogo nello stile comunicativo o nella motricità o ancora nell’abbigliamento, vengono ora trasferiti all’ambiente inquadrato dalla videocamera come fornitore di ulteriore significato. Il backdrop (o «fondale») acquisisce dunque il senso di una vera propria scenografia, e può constare di «strumenti segnici» (Goffman, 1959: 11) in grado di rappresentare parte del «capitale culturale» (Bourdieu, 1979) del soggetto rappresentato, andando in definitiva a determinare la significatività del messaggio e dell’interazione nel suo complesso.
Persino il più disattento degli osservatori avrà notato la ricorrenza della libreria — colma di volumi più o meno riconoscibili e arricchita da una quantità di oggetti collocati sulle mensole come elementi di «distinzione» — quale fondale d’elezione da parte degli intervistati. Tecnicamente, le informazioni contenute nei testi adagiati sugli scaffali degli intervistati potrebbero essere agevolmente contenute nella meno capiente delle chiavette Usb, che tuttavia non avrebbe la stessa funzione del libro in quanto totem di significato, la cui presenza corrobora la convinzione, nello spettatore, che l’intervistato goda di un’autorevolezza che gli è stata dotata dalle conoscenze acquisite mediante la lettura. Si prendano a titolo puramente esemplificativo i backdrop di due figure sottoposte a una certa esposizione contestualmente ai recenti accadimenti: Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, e Matteo Salvini, leader della Lega. Alle spalle di Galli possiamo notare un’anfora di ceramica, che evoca uno status garbatamente borghese, e una serie di pubblicazioni a tema artistico, tra le quali si staglia un’elegante edizione monografica dedicata ad Albrecht Dürer, figura chiave del rinascimento tedesco nonché scienziato oltre che pittore. La scenografia di Galli suggerisce dunque una personalità composta ma vivace, e attenua la freddezza del linguaggio compassatamente scientifico e austero del professore. Il fondale di Salvini è invece straordinariamente privo di qualsiasi ricercatezza: vi campeggiano foto di famiglia, gingilli di apparente scarso valore, gagliardetti che richiamano un immaginario calcistico. È una scenografia che sembra mirare alla riduzione della asimmetria tra sé e lo spettatore e al riconoscimento di quest'ultimo in quell’ambiente così artatamente modesto.
Gli esempi appena forniti riguardano personaggi pubblici, ma la “pubblicizzazione” dello spazio domestico (o meglio, di una parte di esso) ha investito milioni di utilizzatori di piattaforme di interazione sincrona audio/video quali Microsoft Teams, Skype, Google Meets, Zoom. Il presente lavoro ambisce a introdurre una riflessione su come potrà cambiare l’allestimento degli ambienti interni e il modo di intendere l’abitare, ipotizzando la misura in cui la nuova esigenza di arricchimento degli spazi domestici di elementi di «distinzione» finirà per contrastare il modello di design oggi dominante e orientato all’essenziale e all’uniforme. Il sottoinsieme socio-demografico di riferimento saranno under 35 italiani impiegati nel settore terziario e dunque esposti a modalità di esecuzione del rapporto di lavoro in regime di smart-working.
Spazio domestico oggi
È trascorso quasi un secolo da quando Le Corbusier immaginò la casa del futuro come una «machine à habiter», ovvero un’abitazione orientata alla praticità e all’ergonomia, caratterizzata dall’eliminazione degli elementi puramente esornativi non funzionali alle pratiche essenziali dell’abitare (Le Corbusier, 1923). L’orientamento all’essenziale avrebbe dominato alcune delle correnti maggioritarie dell’architettura d’interni e del design del XX secolo, trovando però limitato impiego nella casa borghese italiana. Se infatti le correnti improntate ai criteri di funzionalità (Movimento Moderno, costruttivismo, razionalismo, funzionalismo, ecc.) hanno finito per caratterizzare i paesaggi urbani della contemporaneità (Boni, Poggi, 2011), l’architettura d’interni ha imposto gli stessi principi con meno nettezza e in tempi assai più dilatati, “contrastata” dall’arbitrio decorativo dell’inquilino, che non sempre si è mosso coerentemente con le disposizioni strutturali di architetti e designer (Fagone, 2018). Il modo in in cui gli spazi domestici si trasformano riflette sempre il cambiamento sociale e culturale da due prospettive: quella “ragionata” dei designer, che tendono a riorganizzare gli spazi in armonia con le trasformazioni demografiche, consuetudinarie e del “gusto” intervenienti all’interno della società, e quella degli inquilini, spesso imprevedibile e solo di rado allineata ai principi arredativi degli architetti, e tendente alla personalizzazione e all’introduzione di bric-à-brac ed elementi di «distinzione». Solo negli ultimi quindici anni sembra essersi verificata una netta convergenza tra le due prospettive, che ha condotto a una certa standardizzazione nella predisposizione di spazi abitativi sempre più simili tra loro e sempre meno caratterizzati, in particolare modo tra gli under 35 e nelle fasce demografiche che si avvicinano alle prime esperienze abitative autonome dal nucleo familiare originario. La tendenza corrente è quella di preferire, spesso per ragioni economiche — dopotutto, il mercato immobiliare ha avuto una crescita percentuale mediamente superiore a quella dei redditi govanili (ISTAT, 2018) —, ambienti di metratura contenuta, caratterizzati da sostanziale flessibilità nell’assetto dei complementi d’arredo, anche in ragione delle tipologie di unità familiare prevalenti nel cluster demografico considerato (famiglie mononucleari, situazioni di convivenza, nuclei familiari ristretti), che tende a destinare quote sempre minori del proprio reddito all’acquisto di mobili e articoli e servizi per la casa (ISTAT, 2019).
Le due aziende che meglio incarnano e più profondamente hanno influenzato lo spirito dell’arredamento contemporaneo, specie nelle case dei più giovani, sono probabilmente Apple e Ikea (Svenonius, 2015). L’ideologia estetica di Apple sembra costituire la rappresentazione plastica dei processi di astrazione del capitalismo e del passaggio dall’economia di mercato basata sullo scambio di oggetti materiali a quella informazionale caratterizzata dalla rimozione dell’aspetto fisico attraverso la digitalizzazione (Rifkin, 2000): l’azienda propone un’idea di allestimento dello spazio influenzata dalla minimal art e dalla scuola di design nordica (in particolare dai progetti di Werner Panton e Eero Saarinen, a loro volta influenzati da De Stijl e Bauhaus), che ribalta l’idea del possesso come simbolo di agiatezza e «consumo cospicuo» (Veblen, 1899) in favore di un’organizzazione spaziale consacrata all’essenziale (Ewen, 1993), poiché per tutto ciò di cui hanno bisogno gli individui basta l’accesso, il Cloud. Lo stile promosso da Ikea si pone nella medesima direzione: è minimale e volto a caratterizzare gli ambienti come luoghi di passaggio, riflettendo la precarietà della condizione giovanile. È altamente standardizzato e spersonalizzante, e sembra perseguire una logica di omologazione degli interni a uno stesso disegno, uno stesso modo di intendere lo spazio, innescando attraverso il ricorso al bricolage un bias cognitivo (chiamato, non a caso, Ikea effect — Norton et. al, 2011) che tende a illudere il consumatore di aver partecipato al processo produttivo contribuendo alla caratterizzazione dell’oggetto.
È ipotizzabile che nei prossimi anni, complice un accresciuto ricorso alle videoconferenze, sarà cura degli utenti dotare i propri fondali di un maggior numero di elementi caratterizzanti che possano concorrere alla definizione della propria identità, portando a compimento un processo di conversione del più privato e “retroscenico” degli ambienti in una «ribalta», in quanto centro dell’attenzione visiva dei soggetti coinvolti nell’interazione.
Spazio domestico domani
I vantaggi dello smart-working in termini di riduzione dei costi, di tendenziale mantenimento di livelli produttività e di ottimizzazione dei processi è da anni noto ai dirigenti aziendali (Di Martino, Wirt, 1990), che tuttavia in Italia hanno seguitato a preferire un modello tradizionale, interpretando gli uffici sia come panopticon attraverso il quale preservare un controllo sul personale, sia come luogo funzionale all’esposizione di una «facciata» che palesi le differenze di status all’interno della gerarchia aziendale. Al 2017, solo il 7% degli impiegati italiani era ammesso a qualche forma di telelavoro, percentuale più bassa d’Europa (12% in Germania, 25% in Francia, 27% in Gran Bretagna, addirittura 37% in Danimarca) e ben al di sotto della media dei paesi occidentali (Eurofound, 2017). Durante il lockdown da coronavirus, secondo i dati forniti Ministero del Lavoro del Governo Italiano (2020), i lavoratori in smart-working sarebbero aumentati del 626%. Ai circa 8 milioni (PoliMI, 2020) di italiani che attualmente eseguono il proprio rapporto di lavoro da casa (molti dei quali continueranno a farlo per i prossimi anni: è in programma una ridefinizione radicale del quadro normativo che regolamenta il «lavoro agile») si aggiungano circa 10 milioni di studenti di ogni ordine e grado e decine di migliaia di persone che fanno un uso informale di piattaforme di videoconferenza per comprendere la rinnovata centralità dello spazio privato come luogo di presentazione del sé. In un contesto di netta contrazione dei consumi in cui le vendite su piattaforme di e-commerce sono cresciute del 17%, il comparto dei complementi d’arredo ha avuto una crescita del 25% (Casaleggio Associati, 2020), ben oltre il livello di crescita media del settore dell’homeware nel periodo appena precedente (Statista, 2020). Non esistono dati a sufficienza per affermare che tali acquisti siano destinati alla personalizzazione degli spazi domestici degli under 35, ma il fatto che, ad esempio, vi sia stata una crescita del 331% di domanda di stampe fotografiche su carta (Repubblica, 2020), rafforza l’ipotesi che la tendenza a preferire spazi privati asettici possa presto invertirsi, ancorché sia comprensibile immaginare che trascorrere più tempo all’interno dello spazio domestico possa favorire una concezione degli ambienti orientata alla funzionalità. Possiamo comunque separare i due discorsi: da un lato l’idea della ricerca di un habitat ordinato ed ergonomico, dall’altro l’idea di un ambiente che possa valorizzare l’«equipaggiamento espressivo» (Goffman, 1959: 33) impiegato durante la propria rappresentazione.
Perché si possa ipotizzare uno scenario diverso da quello corrente, sussistono condizioni di varia natura: politico-istituzionali (incoraggiamento del lavoro agile; obblighi di distanziamento interpersonale), economiche (bonus e agevolazioni per mutui e ristrutturazioni), sociali (esigenza di caratterizzazione del proprio spazio; passaggio della postazione domestica da «retroscena» a «ribalta»), tecnologiche (diffuso utilizzo di piattaforme di comunicazione sincrona audio e video; banda larga) e ambientali (riduzione mobilità poco sostenibile). Se la dematerializzazione dei consumi indotta da digitalizzazione e sviluppo dei modelli reticolari della network society ha già innescato alcuni meccanismi di reazione tradottisi in nuovi interessi nei confronti degli oggetti della cultura materiale (Woodward, 2012), non è improbabile aspettarsi che la disincarnazione della socialità e l’istituzionalizzazione di una prossemica digitale destinata a caratterizzare luoghi d’interazione fino ad adesso tendenzialmente esclusi dalla mediazione macchinica possano introdurre rinnovati interessi nei confronti di quegli spazi che negli ultimi anni sembravano destinati a riprodurre sempre più fedelmente l’ideologia dell’essenziale e del rifiuto dall’accumulo di beni materiali come elementi di riproduzione del sé. Quegli oggetti ritenuti ingombranti, polverosi e disfunzionali in quanto puramente ornamentali hanno negli ultimi mesi dimostrato il proprio potere simbolico e scenografico all’interno di quel campo in rapporto 4:3, talmente forte da indirizzare in maniera decisiva l’interazione fornendo informazioni sulle identità dei soggetti interagenti. Aspettiamoci, nei prossimi anni, una casa diversa: meno asettica, spersonalizzata e devota alla linearità estetizzante, e più modulabile e ricca di elementi capaci di rappresentare gli individui che vivono quello spazio secondo il loro desiderio di apparire pubblicamente.
