Basta chiedere.
GUCCINIADE DODICESIMA
OVVERO NIENTE PECORE, INDIANI E PALLONI PER L'OMONIMO MANCO ABBASTANZA BIANCO
"Nel 1983, per la prima volta senza Pier Farri, radunai il mio vecchio staff (Ellade Bandini alla batteria. Ares Tavolazzi al basso, Flaco alla chitarra, Vince Tempera alle tastiere) con, in piu', il sassofonista Claudio Pascoli agli Stone Castle Studios, nel famoso castello di Carimate, in provincia di Como. Si sarebbe rivelata un'idea balzana: un mese rinchiusi la', in un luogo seppur bellissimo, fecero si' che persino le gite a Milano, dicesi Milano, fossero salutate con ovazioni all'americana e cappelli lanciati in aria stile cowboy. Anche se a Carimate non c'era un cazzo da fare, l'atmosfera era fantastica, tanto che a Ares Tavolazzi venne un'idea: perche' non utilizzare sempre lo stesso gruppo anche nelle esibizioni dal vivo? Mi sembrava fattibile, cosi' creammo anche per i concerti una band fissa [...]"
1983 Guccini
L'album ononimo e quasi-"white" dell'autore. Chissa' perche', infatti, nel 1983 se ne esce con un disco intitolato semplicemente "Guccini", con in copertina un suo anonimo ritratto in bianco e nero, quindi nemeno un'immagine a suggerire almeno un titolo ufficioso convenzionalmente accettato da tutti, come per "l'indiano" di De Andre' o "la pecora" e "quello-di-lui-che-gioca-a-pallone" di De Gregori. Scelta forse fatta per segnare il punto a capo di un nuovo inizio di carriera, da qui in poi piu' professionale e strutturata sotto la guida dell'amico produttore Renzo Fantini. Forse come implicita accettazione dell'ormai avvenuta iconicita' del cognome. Forse perche' a nessuno era venuto in mente un titolo. Fatto sta che la neutralita' della confezione ha forse contribuito con gli anni a rendere l'album tra i meno citati della sua discografia.
La timidezza dell'opera riguarda anche la durata, visto che, con la sua mezz'ora esatta di minutaggio, e' il disco in studio piu' breve della carriera dell'autore. Contiene un solo "hit" del repertorio guccinano (Autogrill) e un classico minore dal titolo per altro impronuciabile (Shomèr ma mi-Llailah?). Comunque un piccolo spartiacque nella discografia dell'autore, con un piede di qua e un altro di la': non piu' il Guccini classico, ma non ancora compiutamente il nuovo Guccini che sta per arrivare, sia come approccio musicale che tematico. E, infine, ultimo album dell'autore ad avere un concept di base chiaro e dichiarato: il viaggio. O, meglio, l'inutilita' e "l'impossibilità" del viaggio, secondo la consueta visione ottimistica del Nostro: "Puoi raggiungere ogni parte del mondo in poche ore, ma sei condannato a essere sempre un turista."
Lato A
Autogrill 4:52
Mirando al cuore degli anni 80 italiani. Guccini visita a modo suo un immaginario molto presente nella musica italiana di quegli anni. Quello dell'on the road tutto di fantasia, collocato in un indefinito e stereotipato paesaggio americano immaginato e mitizzato dalla provincia. Materia che, dalla tensione poetica e politica dei 60 e 70, era diventata piu' che altro roba da spot dei blue jeans e della Pepsi, quando da leggere il Kerouac si era passati a mettere gli adesivi del Vagabondo sui "cinquantini". "Autogrill" prende di petto la natura patinata e televisiva di quell'immaginario ("La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up / E il sorriso da fossette e denti era da pubblicita' / Come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill"), assecondando e negando allo stesso tempo gli stereotipi (la ragazza e' "bionda senza averne l'aria") e mescolando le suggestioni di un tipico non-luogo di passaggio, che potrebbe trovarsi in qualsiasi parte del mondo, ma riportando il tutto sulle brevi e poco mitiche distanze delle nostre strade con l'italianita' del marchio Autogrill. Anche musicalmente e' un brano allo stesso tempo dentro e fuori il gusto di quegli anni. C'e' forse l'influenza dell'allora onnipresente Springsteen, riletto in chiave piu' soffusa e intima, ci sono dei bei tocchi di sax che suonano tipicissimi di quel periodo, ma nei suoni si avverte anche una sfumatura esotica, il primo deciso segnale di quelle influenze sudamericane che diventeranno sempre piu' importanti per l'autore.
"Autogrill" coglie perfettamente un sentimento che direi tipicamente maschile. Quel mix di euforia, frustrazione, malinconia che noi ometti proviamo davanti alla grazia e bellezza femminile colta di sfuggita e che sappiamo non rivedremo piu'. Sull'argomento c'e' la fondamentale "Les passantes / Le passanti" di Brassens / De Andre' (passando per una poesia di Antoine Pol), ma mi piace soprattutto citare un bellissimo racconto di Cechov, "Due bellezze": lo scrittore racconta due casi in cui in aveva percepito in mezzo alla folla la presenza di due bellezze femminili prima di vederle, captando una sorta di elettricita' nella folla maschile: il motivo di quell'agitazione si riveleranno essere infatti una bella servetta in una locanda e una bella passeggera sulla banchina di una stazione. Guccini dilata l'attimo dell'incontro con la sua "bellezza", sottolineando il carattere illusorio e unidirezionale del tentativo di creare un contatto, concludendo il tutto con l'inevitabile risveglio e la dimessa ripresa del viaggio. Caso raro di brano gucciniano che racconta un episodio totalmente inventato, privo di agganci autobiografici o letterari.
Argentina 5:18
Dopo la macchina si prende l'aereo e si va in Argentina. A ben vedere pure questa una canzone segno dei tempi: l'alba della globalizzaione in cui anche i viaggi intercontinentali avevano smesso di essere viaggi ed erano diventati vacanze. L'Argentina descritta non e' quella del mito malinconico delle pampas e dei gaucho, ma quella ordinaria fatta di androni, scale e tinelli che, almeno in quei tempi, a molti sembravano di un'Italia ferma a qualche generazione prima, fatta ancora di "auto scarburate e quella gente anni 50 già veduta". L'illusione dunque di un viaggio nel tempo, dove si finisce per capire che anche il passato e' una terra straniera che non ci appartiene piu'. La solennita' un po' sarcastica della canzone risente forse ancora di una certa influenza stradaiola di Springsteen, ma probabilmente sono i nostalgici teatrini esotici dell'allora dilagante Paolo Conte la vera fonte di ispirazione. Un indizio in questo senso e' che e' anche il primo dei poi non infrequenti brani dall'animo pianistico nel repetorio dell'autore.
Gulliver 4:50 (Guccini - Alloisio)
Il viaggio avventuroso in mare e' quello di immersione nel mito letterario; ci prendera' gusto anni dopo Guccini a rileggere e ad usare come specchi i personaggi dell'immaginario collettivo. Erano gli anni dell'invasione televisiva dei cartoni animati giapponesi e si sente, anche perche' com'e' noto mezza banda che lo accompagnava era impegnatissima su quel fronte come autori di sigle. L'influenza del co-autore Alloisio, il tono musicale insolitamente arioso, l'arrangiamento folk-rock che suggerisce bene una sensazione di corde tese e vele spiegate, tendono a non far notare che e' uno dei brani piu' pessimisti e disillusi dell'autore. "Di tutte le sue vite vagabondate al sole restavan vuoti gusci di parole" e' praticamente la stessa desolante conclusione a cui giungera' trent'anni chiudendo tutto con "L'ultima Thule". E' un Gulliver invecchiato e frustrato quella della canzone, che si e' reso conto che dei suoi racconti e' sfuggito a tutti il senso e che ne e' rimasta impressa solo la parodia. D'altronde l'unica allegra morale che forse si puo' trarre da viaggi/racconti/canzoni e' l'insignificanza dell'uomo "nell' universo quasi esagerato". Ad avere a cuore la poetica dell'autore ha davvero un gusto amaro e salato l'ultimo verso "da tempo e mare non s' impara niente".
Lato B
Shomèr ma mi-Llailah? 5:35
Il viaggio nella notte del tempo e della memoria, quello che da sempre piu' ispira Guccini. In questo caso la memoria e' quella mitica e, insolitamente per lui, biblica. E' il torvo profeta Isaia che da qualche parte nel vecchio testamento chiede, come da traduzione del titolo in ebraico antico, "Sentinella, quanto resta della notte?" e la misteriosa sentinella posta fuori dal tempo risponde "La notte sta per finire ma l'alba e' ancora arrivata. Tornate, domandate, insistete." Limpida metafora sull'importanza delle domande piu' che delle risposte. Incuriosisce notare che un brano apparentemente cupo come questo sia in realta' la risposta positiva al pessimismo di un brano apparentemente solare come il precedente. Brano coinvolgente ed efficacissimo, nonostante l'incomprensibilita' del ritornello: tipico travisamento a cui si va incontro spesso ad un primo ascolto e' sentir cantare della "sperma di Laila". L'atmosfera epica del brano, ieratica e ancestrale, sembra insolita per l'autore, ma in fondo e' una delle sue "canzoni di notte". Anche se per una volta le domande non sono quelle pacate e solitarie che nascono davanti a un bicchiere, ma hanno l'ansia e l'incombenza di una domanda collettiva posta in coro. Magari cantata da una ciurma melvilliana, solcante quel mediterraneo musicale che quell'altro la' mettera' in scena l'anno dopo in quel disco la' tutto in genevose.
Inutile 5:14
Una canzone come un super 8, che sbobina un pomeriggio di fine inverno su una spiaggia deserta di Rimini e che fin dal titolo suggerisce il senso di tutto il disco. Come filtrato attraverso una pellicola sonora sgranata e ingiallita, va di scena un "inutile" tentativo di iniziare o riallacciare una storia di coppia. La colonna sonora di questa precisa e minimalista sceneggiatura cinematografica c'ha un che di frivola malinconia da film francese. Anche se si passa alla dimensione provinciale della gita fuori porta non c'e' scarto con gli avventurosi, ancorche' similmente disillusi, viaggi precedenti, tanto che la probabile natura autobiografica del tutto non sfugge comunque alle costruzioni dell'immaginario collettivo e ai suoi cliché' ("Compiendo poi quel rito inevitabile e abusato, corremmo coraggiosi e scalzi lungo la battigia"). Forse una di quelle canzoni che alimentano l'idea di Guccini quale cantastorie musicalmente "seduto", ma anche da sdraiato solo lui puo' prenderti, portarti li', in un suo ricordo, e farlo diventare tuo.
Gli amici 4:43
E alla fine, dopo l' inevitabile solitudine dei viaggi e tutto il carico di incomunicabilita' che si portano dietro, si torna nei paraggi di via Fabbri a girogavare con in pochi (dice lui) e soliti amici, al ritmo swingante di questa svagata ode all'amicizia, pieno di ore piccole e sigarette. Un inno goliardico, ma in fondo sentito e serissimo, all'unica "fede" professata da Guccini, quella del "passare il tempo" in compagnia anche nel senso piu' letterale della locuzione, il riuscire a fare comunita' senza rompere i coglioni a nessuno come massimo ideale "politico".
1984 Fra la via Emilia e il West
Coerentemente al suo sentirsi legato esclusivamente al formato LP, per molti anni Guccini rifiutera' di rilasciare compilation e greatest hits a suo nome, cedendo solo a fine carriera. Ai tempi concesse al mercato solo compilation live come questa, ancora oggi una curata e intelligente introduzione all'universo gucciniano (dei suoi classici fino ad allora manca solo "L'avvelenata"), anche se poi diverse canzoni per me non hanno il fascino delle loro versioni in studio. Guccini raggruppa per affinita' e temi le sue canzoni e le riveste di nuovi abiti sonori, adattandoli al suo nuovo ruolo di capo di un gruppo di fidati "musici" e abbandonando quello del cantautore solitario. A dispetto del titolo e della copertina le canzoni non vengono tutte dall'omonimo e storico concerto in Piazza Maggiore per festeggiare i vent'anni anni di carriera, ma anche da altri concerti del periodo.