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Di Jazz, Critica Politicizzata E Società Afro-Americana


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#1 Connacht

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  • Redattore OndaRock
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Inviato 04 maggio 2020 - 16:32

Questo commento del celebre Gianni Morelebaum Gualberto è lunghissimo ma potreste trovare interessanti diversi suoi passaggi (link), visto anche l'altro topic in cui vi si accennava:

 

 

 

Commentando l'ascolto dell'ultimo lavoro discografico di un artista assai interessante come Stephen Bruner (Thundercat), mi sono trovato a rimuginare e rielaborare considerazioni già fatte e scritte in larga parte anni fa, a riprova che la stasi (e il travisamento) dominano il nostro pensiero sull'arte musicale africano-americana, ormai prevalentemente chiuso in una gabbia eurocentrica in cui il plastificato esoterismo di prodotti borghesi da salotto "in stile", come non piccola parte della produzione ECM dell'ultimo ventennio, procede nella sua ottusa missione di creare opere per chi ama il silenzio della conservazione, prediletto da chi vuole che l'ordine regni a Varsavia.

L’ascolto "It Is As It Is" suggerisce alcune considerazioni, che vanno forse aldilà del contenuto di un’opera strumentalmente eccellente (in cui si avverte l’astuta mano di un produttore come Flying Lotus) e con degli arrangiamenti ingegnosi, ma che nei testi si trova impelagato in un dissidio fra elaborazioni sofisticate e una certa banalità che non raggiunge quasi mai l’ambiguità, il suggerito ma non detto, l’ammiccamento intellettualmente sostanzioso. Thundercat è strumentista di gran lunga superiore alla media, con una conoscenza estesa della tradizione popolare africano-americana, ivi compresi il jazz e la musica improvvisata (che egli ha praticato con Kamasi Washington, Flying Lotus, Erykah Badu) e con un indiscutibile penchant per l’articolazione di song tutt’altro che irrilevanti. Il suo rapporto con la tradizione popolare africano-americana è chiaro, evidente, in ogni sua espressione come strumentista e autore e qualsiasi vernacolo o linguaggio egli frequenti. Un tratto che egli condivide probabilmente con qualsiasi altro artista africano-americano, senza tacere di quelli che agiscono e hanno agito nelle varie espressioni delle avanguardie lungo tutto il corso del XX secolo e fino ai nostri giorni. Il che pone un problema (che in un certo senso riguarda forse tutte le culture e tradizioni extra-europee) che in Europa è stato spesso affrontato come un nodo gordiano da tagliare a colpi d’accetta: cosa significa il rapporto con la tradizione popolare per un intellettuale africano-americano? In che misura i suoi legami con quell’ambito che spesso identifichiamo come intrattenimento (pensiamo, ad esempio, alle grandi orchestre africano-americane della Swing Era…) pesano sulla propria creatività?. Che definizione viene data di ciò che in Europa si chiama, piuttosto frettolosamente e con colpevole indifferenziazione, “commerciale”? Il rapporto con le proprie radici popolari, con le forme vernacolari, spesso fondamentali per gli artisti africano-americani (nel jazz e non solo), compromette la loro creatività, la priva di valore artistico, la sminuisce in qualche modo?
Un paio di anni fa mi sono trovato a rileggere un lontano scritto di Franco Pecori, critico musicale italiano militante, a lungo legato a un quotidiano come “Paese Sera”: Nessun’arte, e nemmeno la musica, è mai pura; questo è un equivoco idealistico. Altrimenti, non si capirebbe la nascita e la relativa fioritura della dodecafonia proprio nella Vienna degli anni tra le due guerre; e neanche si capirebbe l’esplosione del free negli anni Sessanta, in un tipo di società impostata sull’imperialismo economico, seriamente minata dall’alienazione dei consumi e lacerata da profondi contrasti razziali. Mi aveva provocato non poche perplessità l’idea di “inevitabilità” (un sotto-prodotto del progresso in senso marxiano), come se, in fondo, esistesse un Fato (o una giustizia storica o una qualsiasi logica ferrea e stringente) che cercherebbe di controbilanciare con le sue azioni altre azioni ancora, prodotte da se stesso o da un altro Fato avverso, o da altra logica umana o cosmica. Pecori sosteneva l’inevitabilità del free-jazz, intesa ovviamente come ineludibile reazione all’imperialismo economico, all’alienazione dei consumi e ai contrasti razziali. Questo tipo di analisi è ancora oggi di comune diffusione; essa considera il jazz un’arte unicamente dettata da un inevitabile antagonismo nei confronti di un sistema persecutorio e iniquo: il jazz più autentico, più vero e più rispettabile è unicamente quello che si manifesta come strumento di lotta contro il sistema. Ogni altra sua espressione non è che un cedimento al sistema.
Vi è una logica in tale approccio, per quanto perversa. Essa ha una sua dignità politica. A lungo gli europei hanno letto il “jazz” come “volevano loro”, con un’autoreferenzialità di tipico segno eurocentrico che in tempi più vicini a noi (e che durano a tutt’oggi) è giunta a indossare i panni dell’appropriazione indebita più neo-colonialista. La narrazione del jazz è diventata poco più di un’appendice – per quanto consistente – a un’emanazione claudicante dell’internazionalismo socialista. Con il supporto anche di taluni intellettuali del Terzo Mondo (più africani, ad esempio, che africano-americani), la storia della musica improvvisata africano-americana è stata vista come una fase della lotta rivoluzionaria contro il dominio borghese e capitalistico: ciò che non rientrava in tale cornice andava accantonato o, peggio, ignorato. Il che ha comportato un’analisi largamente incompleta, carente soprattutto di un’accurata comprensione delle dinamiche socio-culturali americane e africano-americane e delle dinamiche socio-culturali fra tali entità. I complessi e ramificati rapporti fra le culture africane d’origine e quella africano-americana e quella bianca americana, altrettanto varia e ramificata, sono stati spesso trascurati: quanto nel jazz non permetteva una plausibile lettura “antagonista” veniva letto come un reperto deteriore o inquinante, corrotto dalla “commercializzazione” e dal cedimento di parte della comunità africano-americana all’integrazione forzata (alle condizioni dei bianchi) e alle logiche perverse del capitalismo (ad esempio, la lettura delle varie forme di folclore e para-folclore del genere “Americana”, dal “bluegrass” alla “country-music” all’”hillbilly jazz” a certe forme di “American Cosmic Music” è stata liquidata come espressione retriva della borghesia rurale bianca, smarrendo così la valutazione e l’apprezzamento delle molteplici influenze africano-americane che avevano contribuito grandemente all’articolazione di tali materiali) . La cultura africano-americana è stata perciò letta con la stessa logica con la quale alcuni leggevano le lotte di taluni popoli contro il colonialismo. Un parallelo non sostenibile (perché, comunque, gli Stati Uniti non avevano partecipato al colonialismo europeo: e per quanto si potessero loro attribuire nefandezze analoghe, l’assenza di tale “peccato originale” ha comunque avuto un peso non trascurabile), perché del tutto viziato da un eurocentrismo che, in fondo, non ha mai voluto riconoscere agli Stati Uniti un diverso status da quello dell’ex-colonia e, comunque, di un’errante costola del sistema europeo. Facile, dunque, che il free-jazz venisse letto come esaltante frutto di una rivoluzione permanente (vi erano certamente attivisti politici africano-americani che condividevano integralmente tale posizione), ma è lecito considerare che solo una minima parte di esso (e forse la più trascurabile) potesse rispondere ai criteri di lettura adottati da coloro che vi volevano vedere un riflesso forte dell’internazionalismo rivoluzionario. Si è sottovalutato il potere attrattivo del cosiddetto ‘American Dream’, si è rifiutato di vedere nel jazz non solo un meccanismo di riflesso ma anche di evasione dalle distorsioni del sistema americano, un modo per lenire le ferite di un’esclusione degli africano-americani dallo stesso ‘American Dream’. Non si è voluto considerare che forse una larga parte della comunità africano-americana intendesse aderire ai principî dell’American way of life, senza necessariamente essere considerati degli apostati, e che proprio l’esclusione dal Sogno Americano consistesse nella ferita più dolorosa. Non siè voluto prendere in esame, se non con disdegno, che il jazz potesse costituire una voce potente di coloro che – esclusi, emarginati, schiavizzati, segregati – chiedevano non il rovesciamento della società americana bensì l’apertura di essa, la sua “inclusività” al posto di una violenta e oscena esclusione. Riconoscere che tali aspirazioni non necessariamente fossero un vergognoso cedimento alla tirannia del capitalismo bianco (piuttosto che la volontà di mutarne la configurazione dall’interno e non dall’esterno) forse avrebbe permesso di leggere più in profondità una storia fortemente complessa e che sfugge a talune categorizzazioni semplicistiche di stampo prettamente eurocentrico: i Nuovi Mondi, i laboratorî poli-etnici che ne costituiscono la fisionomia portante, richiedono forse nuovi approcci, nuove letture e, dunque, narrazioni diverse. Forse sarebbe apparso molto chiaro che talune forme di jazz erroneamente definite “commerciali” non erano , invece, che espressione di altre forme di lotta o di volontà di integrazione; o che la cultura africano-americana continua ad essere vittima di una drammatica esclusione che non sempre proviene dal sistema bianco ma è espressione di una volontà creatasi all’interno di altri gruppi etnici in competizione socio-economica fra di loro (e che trovano di fronte a sé una comunità africano-americana che ancora oggi paga, e pagherà ancora a lungo, l’effetto della ferita più nefasta e sanguinosa, quella della schiavitù). Forse sarebbe stata più chiara, ad esempio, l’adesione spesso entusiastica (e inevitabilmente e dolorosamente delusa) degli africano-americani al reclutamento dalla Guerra Civile alle due guerre mondiali sino al Vietnam. Insomma, forse ci si sarebbe trovati di fronte a un quadro che, oltretutto, avrebbe permesso di non accantonare con una certa rozza brutalità ‘etichettatoria’ e paternalistica una vasta serie di interessanti espressioni creative che invece sono a lungo finite nella pattumiera (ormai manifestamente fragile) della “commercializzazione”. Una grave manchevolezza che ha caratterizzato e ancora oggi caratterizza buona parte di una critica e di una musicologia i cui risultati, francamente, rischiano di apparire illusorî o, peggio, inquinati da una sorta di repellente razzismo alla rovescia.
Trattasi di concetti che, per ovvi motivi di spazio, sono stati qui trattati in modo spiccio. Che mi si sono ripresentati quando, in occasione della presentazione di un’interessante raccolta di pensieri sull’improvvisazione firmata da Guido Mazzon e Guido Bosticco, un astante ha preso la parola, lapidario: “Il jazz è morto negli anni Settanta, dopo è solo stato commerciale”. Un’opinione personale? Fino a un certo punto: essa in realtà offriva una Vulgata di una serie di elaborazioni durate anni: in onore di una “rivoluzionarietà” spesso travisata, quando addirittura inesistente, alcuni decenni di storia della musica improvvisata sono stati amputati di una serie di preziose testimonianze nel rapporto fra il pensiero creativo contemporaneo e le tradizioni popolari, spacciate sommariamente per manifestazioni commerciali o inclini al compromesso. Si pensi soltanto alla ricchissima e spesso appassionante rielaborazione delle radici africane – fra mito, invenzione e revisionismo storico – nata negli anni Settanta dall’estatica predicazione musicale coltraniana e sommariamente definita “spiritual jazz”, in cui fortissimi erano anche i legami con i nuovi linguaggi – dal funk in poi – della contemporaneità popolare africano-americana, nonché con l’area politica della Nation of Islam e del Black Power, in concomitanza con l’espansione, negli Stati Uniti, della cultura e dei rituali religiosi afrocentrici (nello stesso periodo, non casualmente, pratiche come lo yoga e la spiritualità Zen si affermavano presso gli americani anche a livello popolare, come un rinnovato interesse per la storia africana, in modo particolare per l’egittologia). Una pletora di opere create da artisti e complessi come Pharoah Sanders, Alice Coltrane, Michael White, Eddie Gale, Mtume, Phil Cohran, Carlos Garnett, Albert Heath, Archie Shepp, Sonny Sharrock, Clifford Thornton, Doug Carn, Gary Bartz, McCoy Tyner, Bob Northern (Brother Ah), Don Cherry, Idris Ackamoor, Norman Connors, Ronnie Boykins, Leon Thomas, The Pharaohs, Yusef Lateef, Byron Morris, Khan Jamal, Phil Ranelin, Shamek Farrah, Ndikho Xaba and the Natives, Bama The Village Poet, Marcus Belgrave, Marion Brown, The Descendants of Mike and Phoebe, Lonnie Liston Smith, Gene Russell, Roy Brooks, Doug Hammond, The Last Poets, The Watts Prophets, John Betsch, The Pyramids, The Awakening, Wendell Harrison, Milton Marsh, Henry Franklin, Jayne Cortez, Roach Om, Calvin Keys, Rahsaan Roland Kirk, Walter Bishop, Lon Moshe & Southern Freedom Arkestra, Doug Hammond, Griot Galaxy e Faruq Z. Bey, Infinite Sound, The Detroit Jazz Composers Ltd., Maurice McIntyre, Donald Alexander Strachan & The Freedom Ensemble, Ensemble Al-Salaam, Hadley Caliman, Haki R. Madhubuti,Charles Sullivan, Noah Howard,Letta Mbulu, Warren Smith, Harold McKinney, Muriel Winston, Sarah Webster Fabio, Lloyd McNeil, Grachan Moncur, Oneness of Ju-ju, Hannibal Marvin Peterson sono finite nel dimenticatoio e un’analoga sottovalutazione culturalmente impropria guarda con malcelata intolleranza a chi quell’estetica oggi va riscoprendo e reinterpretando da più e diversi versanti, come Kamasi Washington, Nicholas Payton, Matana Roberts, Nicole Mitchell, Dwight Trible.
Altro imputato eccellente del reato di “commercializzazione” è stato il fenomeno variamente definito jazz-rock, crossover music, fusion, smooth jazz (in realtà non si tratta di generi equivalenti, ogni termine, a ben vedere, definisce epoche e approcci ben diversi). Non è ovviamente auspicabile una generale e generica rivalutazione di qualsiasi fenomeno musicale di cui si pensi che la Storia abbia fatto equa giustizia, ma parrebbe evidente che certa impostazione “iconoclasta” abbia fatto pulizia secondo suoi ben peculiari e inadeguati parametri. In nome e difesa della cultura africano-americana si è creata una cultura africano-americana inesistente, nella quale l’artista non era in realtà libero di essere sé stesso secondo i parametri delle sue varie tradizioni ma doveva creare e comportarsi ideologicamente secondo parametri, canoni, inclinazioni dettate da un’impostazione aliena come quella eurocentrica. Poiché la via verso l’inferno è, come si sa, lastricata di buone intenzioni, per tutelare la cultura dell’africano-americano alcuni studiosi e commentatori nelle improprie vesti di burattinai hanno creato e preteso d’imporre a degli intellettuali trattati (per l’appunto) da burattini un copione distaccato dalla realtà di quella stessa cultura, provocando così un razzismo alla rovescia. Si è preteso che l’intellettualità africano-americana si comportasse, in tutt’altro contesto e con necessità affatto diverse, come l’intelligencija europea dettava. Gli intellettuali africano-americani che non hanno aderito al copione sono stati derisi, ignorati, accusati di aspirazioni bianche o, peggio, di essere “commerciali”.
In tal senso la vicenda della cosiddetta fusion (e delle sue varie ramificazioni) è esemplare: il termine, prima di venire soppiantato dall’altrettanto inerte ma più specifico smooth jazz, è giunto a essere epitome della discendenza più abnorme e deforme del jazz. Un ibrido repellente e ambiguamente prono ai gusti più deteriori di un pubblico borghese e apolitico, in cui sono stati confinati con equa imperizia sia professionisti del più claudicante intrattenimento, sia artisti di sostanziale rilevanza ma non allineabili ai canoni dettati dagli “ismi” del momento. Lo stesso approccio aveva già dettato in precedenza la condanna del cosiddetto mainstream come fenomeno “normalizzatore” e omologante delle innovazioni diffuse dalle avanguardie, e aveva, di fatto, espunto dalla storia del jazz artisti e correnti che non avessero dimostrato manifestamente un antagonismo nei confronti del sistema, che si trattasse di Louis Armstrong o Wayne Shorter (che proprio un paio di anni fa uno studioso come Giampiero Cane accusava di vivere nell’ala imprenditoriale del mondo jazzistico dove si produceva un jazz hollywoodian-turistico secondo soltanto al folk revival o al piattume della terza strada), della Swing Era o del cosiddetto West Coast Jazz.
L’ostilità nei confronti delle correnti che hanno cercato con minori inibizioni di riallacciare il jazz alle sue radici popolari (ammodernatesi nel frattempo) e al contesto della cosiddetta “musica d’evasione” (termine spregiativo e errato che ingloba impropriamente anche quell’entertainment con cui il jazz ha avuto di sovente rapporti) accomuna – per quanto con motivazioni diverse – sia la critica engagée che quella più tradizionalista: il “cedimento” nei confronti dei linguaggi popolari è comunque inteso non come una dinamica del tutto naturale per una struttura che affonda le sue radici in una molteplicità e in un’inclusività di vernacoli, bensì come un’infrazione all’ortodossia musicale (secondo un Canone dai contorni estremamente ristretti e discutibili) o ideologica.
Non è casuale che lo stesso Cane, nel riferirsi con marcato disprezzo nei confronti di Shorter (protagonista anche di un cospicuo numero di collaborazioni e incisioni considerate da alcuni marcatamente “eterodosse”, da Herbie Hancock ai Weather Report), alluda – nello stesso scritto (una recensione di un concerto del sassofonista) – alla direzione esotic-edonistic-onanistica di un’incisione di Miles Davis come In A Silent Way: le sperimentazioni del cosiddetto “periodo elettrico” di Miles Davis, a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, possono ben rappresentare, infatti, l’inizio di un periodo che aveva già avuto dei precursori, perché la preoccupazione di non “separare” il jazz dai suoi rapporti con il repertorio popolare ha toccato artisti diversi come James P. Johnson o Louis Jordan o, ancora, quegli interpreti che con il primo R&B, e in concomitanza con il declino delle grandi big-band, cercarono di tenere insieme una molteplicità di elementi in grado di garantire al jazz un pubblico più ampio.
L’interesse di Davis (e di altri artisti) a combinare l’improvvisazione di matrice jazzistica con il volume di suono, l’energia ritmica e i timbri elettrici del funk (soprattutto) e del rock difficilmente nasceva da una semplice volontà di “commercio” e “arricchimento” (lo stesso Davis avrebbe commentato nella sua autobiografia che egli non aveva mai pensato che il jazz potesse diventare a museum thing locked under glass like all other dead things, that were once considered artistic) quanto, assai più probabilmente, da una diversa idea della funzione sociale della musica improvvisata. A ben vedere, e considerate le dovute differenze, i “conservatori” identificatisi nel mainstream e, in anni più recenti, nella rilettura neoclassica (e venata di nazionalismo) dello hard bop praticata dai cosiddetti young lions, e i “progressisti” fautori dell’instabilità (e perciò del mutamento) permanente affermatasi con l’ala più radicale (ed oggi eminentemente europea) del movimento sorto con il free jazz, mantengono e condividono – per quanto con intenzioni diametralmente opposte – una visione forzosamente elitaria del jazz che, peraltro, trova pochi appigli nella storia di tale musica. I conservatori proiettano un’immagine del jazz come creatura fragile e necessaria di protezione all’interno di un recinto sacro e fortemente delimitato e protetto, i presunti progressisti intendono estrapolare il jazz dalle sue radici più specificamente africano-americane per farne uno strumento dell’internazionalismo rivoluzionario, sotto il quale albergare le molte forme improvvisative che, nei più diversi contesti culturali, sono sorte dal jazz stesso. Curiosamente, in tale ambito le varie forme di crossover e di fusion hanno invece – per quanto non sempre ineccepibilmente – mantenuto il jazz, pur se in movimento, all’interno del contesto americano e/o africano-americano senza con questo articolare un programma politico (Wynton Marsalis, cogliendo le istanze di un intellettuale discutibile e discusso ma sopraffino come Stanley Crouch, in una conversazione con Eric Porter parlava apertamente di counter stereotypes of black inferiority and validate a legacy of African American cultural achievement) ma praticando comunque un costante abbattimento delle barriere razziali che negli anni Settanta erano ancora più forti di oggi negli Stati Uniti. Curiosamente ancora, sia i cosiddetti “conservatori” che i “progressisti” (continuiamo a denominarli così per pura comodità spicciola) tendono a attribuire al jazz – per motivi diversi – un ruolo ritagliato a imitazione della musica accademica europea, distaccandolo ancora di più dalle sue radici popolari: ambedue le categorie, che sono costretto per motivi di spazio a delineare sommariamente, esprimono giudizi diffidenti se non severi sulle sperimentazioni compiute fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, intendendo così stabilire in modi diversi un recinto sacro al cui interno viene posizionato il jazz, separato non solo da gran parte del suo passato folclorico e popolare, ma anche da buona parte di quella contemporaneità che a esso deve comunque non poco. La tradizionale inclusività fagocitante del jazz viene così ad essere limitata e indirizzata artificiosamente.
I rapporti del jazz con la molteplicità vernacolare e linguistica della cultura africano-americana e americana sono storicamente inestricabili: i tentativi di operare in un modo o nell’altro una conventio ad excludendum secondo schemi “in provetta” hanno, di fatto, fortemente condizionato la sua capacità di rivolgersi alla sua comunità storica e di allargarne i confini. Quello che taluni hanno denominato “commercializzazione” è, in non pochi casi, nient’altro che uno dei tanti aspetti comunitarî di quell’ambito che Guthrie Ramsey, Jr. denomina afro-modernismo (G. Ramsey, Jr., Race Music: Black Cultures from Bebop to Hip-Hop, University of California Press, Berkeley 2003), cioè quel complesso di tracce e percorsi attraverso i quali, nel corso della loro storia, gli africano-americani si sono espressi all’interno della cultura americana. Non è un caso, però, che lo stesso Ramsey guardi con indifferenza a certe sperimentazioni volte a riconnettere il jazz alla propria comunità: egli non nomina neanche pagine davisiane come In A Silent Way o Bitches Brew, reputando di gran lunga più significativa ed efficace come momento iconico per le comunità africano-americane degli anni Sessanta la pubblicazione nel 1968 del futuro inno del nazionalismo nero, Say It Loud di James Brown. La sua motivazione è presto detta e, in un certo senso, condanna all’oblìo quel jazz che si era reso di difficile accesso per le masse africano-americane: Brown’s decidedly ‘southern-flavored’ musical rhetoric galvanized African American communities, linking urban with rural, the North with the South, black revolutionaries with school children, militant, avant-garde artists with audiences possessing more ‘mainstream’ tastes. Il successo di James Brown è il successo di un artista che infrange le barriere fra arte e commercio, che rielabora le proprie radici popolari senza rinnegarle e che conquista il successo senza rinunciare alla propria identità storica, ma addirittura facendone il perno di un manifesto politico e razziale. Il che, a ben vedere, e checché ne pensi Ramsey, è l’operazione che, con minore successo popolare, conduce Miles Davis, aprendo la strada –fra l’altro- a nuovi modi, per gli improvvisatori africano-americani, di esporre e affermare la propria identità culturale. Egli, infatti, rinuncia a un tratto specifico della tradizionale fisionomia jazzistica, alla scomposizione e ricomposizione di materiali compositivi usati abitualmente (quali, ad esempio, gli standard) e sui quali si era costruita una prassi originale che contraddistingueva il jazz, e ne affermava l’identità africano-americana, anche per la sua capacità di manipolare, alterare, rinnovare, sovvertire il lessico e la sintassi della cultura dominante.
Non vi è dubbio che il nazionalismo africano-americano rappresentato da artisti quali Stanley Crouch e Wynton Marsalis, sottolineando gli aspetti più complessi e altamente sofisticati dell’improvvisazione jazzistica, ricusi nettamente l’inferiorità creativa e culturale degli africano-americani sostenuta dalle tesi tradizionali del razzismo. Così facendo, esso sembra altresì implicare che i materiali popolari dai quali il jazz ha tratto una non trascurabile parte della sua peculiare identità siano di minore rilevanza.
L’idea di una commistione con il rock (che, per quanto affondi parte delle sue radici nella tradizione africano-americana, è stato a lungo un linguaggio essenzialmente praticato da musicisti bianchi e rivolto alla borghesia bianca) non poteva e non può certo avere un ruolo accettabile per chi pratica, a torto o a ragione, una visione esclusivista e elitaria del jazz, distinta dalle sue origini popolari. La stessa visione eroica, epica e mitopoietica probabilmente avrebbe avuto non poche difficoltà a riconoscersi nella controcultura rappresentata da certo rock, nella rivoluzione sessuale, nell’uso di sostanze psichedeliche: il jazz condivide la problematica di altre strutture passate definitivamente e integralmente dal commercio e dall’intrattenimento all’arte più esoterica e intransigente. In tale contesto, chi beneficia di una qualunque forma di successo si trova in una posizione dominata, laddove si trova in un ruolo dominante chi, a torto o a ragione, non ha rapporti con la “popolarità”. Il che non sempre riflette i reali valori in campo.
L’uso di materiali e pratiche tratte dal rock, dal funk, dal soul, dall’hip hop è stato dunque avvertito come una violenta intrusione nel linguaggio del jazz, con una voluta indifferenza nei confronti di una storica e manifesta comunanza di radici. Avendo creato all’interno della cultura africano-americana un’artificiale gerarchia, alla cui cima stava ovviamente il jazz, ogni altro materiale non poteva che risultare di natura inferiore: non era più importante come tali materiali venissero elaborati, ma quali materiali potevano essere o meno accettati; in poche parole, la tradizione africano-americana s’è trovata ingiustificatamente a disprezzare sé stessa per l’imposizione di parametri esogeni, spesso eurocentrici per nascita e tendenti a svalutare o sottovalutare elementi estremamente significativi della sua costituzione. È interessante notare come gli alfieri del “conservatorismo”, così come quelli del “progressismo”, nell’analisi “in provetta” del jazz tendano a escludere un pensiero relazionale, cioè quel metodo che conduce a caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un sistema, dal quale deriva il suo senso e la sua funzione. Si trascurano molti degli aspetti che hanno caratterizzato l’eccezionalità anche violenta e drammatica dell’esperienza africano-americana e che, pure nell’articolazione di una struttura linguistica come il jazz, s’è spesso dovuta affidare ad un emergenziale senso pratico che di frequente lascia l’essenziale a livello implicito e che dà il via invece, sulla base dell’esperienza acquisita in pratica, a strategie “pratiche”, nel doppio senso di implicite, non teoriche, e di comodo, adeguate cioè alle esigenze e alle urgenze dell’azione. “Progressisti” e “conservatori” hanno volutamente insistito sull’”elevatezza” del “discorso” jazzistico, sottolineandone e sopravvalutandone la “complessità” e il virtuosismo (tecnico e linguistico): tutto ciò che non corrispondeva a tali tratti (per quanto la forza espressiva del jazz abbia fatto leva proprio sull’ibridazione e sul sincretismo, sulla capacità di elaborare con cospicua efficacia espressiva materiali anche volutamente semplici e flessibili) veniva perciò scartato (sebbene il jazz sia nato e cresciuto da una “poetica dello scarto”) come volgare, commerciale, gratuito, superfluo (si pensi a quanto siano stati travisati e incompresi lavori fondamentali per la riappropriazione dei vernacoli africano-americani da parte delle avanguardie come “Attica Blues” di Archie Shepp e “New Grass” di Albert Ayler). Si sono così affermati dei criteri di esclusione che hanno di fatto chiuso e istituzionalizzato il jazz all’interno di un recinto sacro quanto equivoco e ambiguo. Esso, a sua volta, ne ha escluso qualsiasi ulteriore sviluppo all’interno delle sue eredità popolari, per quanto logiche, pertinenti e tradizionali. È stata esercitata, da due versanti opposti, la stessa “violenza simbolica” (peraltro estesa al mondo dell’insegnamento, che nel jazz – non coincidentalmente – è diventato di primaria importanza), tesa alla gestione pratica e alla manipolazione, nonché alla devitalizzazione, di una cultura e delle sue elaborazioni. Per citare Pierre Bourdieu: Si è soliti dire che la cultura è una specie di codice comune a due locutori, che fa sì che i due locutori associno lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso senso; dunque la cultura è un medium di comunicazione, perché il linguaggio è un medium di comunicazione. Si può dire che a partire da una teoria della cultura o del linguaggio, o di qualsiasi altro strumento simbolico, si può elaborare una filosofia del consenso. Il consenso è il fatto di essere d’accordo sul codice di comunicazione. Ebbene, penso che la nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza simbolica è una dominazione che suppone un codice comune. E questo è importantissimo: la dominazione all’interno di una società si compie sulla base di un codice comune, nella misura in cui, attraverso il sistema di insegnamento, i dominati acquistano un minimo di accesso al codice culturale comune, che una forma di dominazione può esercitarsi su di loro (http://www.caffeeuropa.it/attuali…/131attualitabourdieu.html).
Come afferma più esplicitamente Tony Williams: You can’t make a definition of jazz. (…) Writers and scholars who didn’t play music came along and told people that this music was an art form. That’s fine, because that’s what many of the musicians wanted it to be regarded as. But what it did was to make everyone conscious of it as an art form. The same thing that happened to classical music almost happened to jazz; it almost became sterile with people playing only for very elite purposes. The approach was no longer human at times (in Tony Williams: Report on a Musical Lifetime, di Vernon Gibbs in “Downbeat” 43:2, 29 gennaio, 1976).


“It Is As It Is” di Thundercat è perciò un buon pretesto (come tanti altri) per comprendere certi fenomeni connessi alla tradizione improvvisativa africano-americana, che ha mantenuto e continuato a mantenere uno stretto rapporto con le proprie radici (compreso perciò lo storytelling della trasmissione orale), con la tradizione popolare e la relativa connessione con le masse africano-americane, con le forme e strutture del song e del blues, con lo spirito del groove e del funk, con il senso della trasversalità linguistica (in questo caso dal jazz al funk, hip-hop e pop), con la cosmogonia del Black Cosmos e della Cosmic Music, con il creativo delirio della Afro-Psychedelia, con l’afrocentrismo e l’afrofuturismo di George Clinton (la cui eredità è nettamente percepibile in alcune pagine), con lo spirito della soul music, con il verseggiare frenetico e argutamente vacuo delle dirty dozen, con la dolorosa sofferenza della “negritudine” nel mondo dominato dalla cultura bianca. Elementi già reperibili in Drunk, lavoro precedente del bassista e che qui vengono reiterati con un senso di vuoto doloroso nel ricordare amici e collaboratori scomparsi precocemente: tracce di blues affiorano nel perpetuare la reazione alla perdita, al riparo talvolta di un pop che pare lieve e che, in realtà, maschera realtà più intricate che si rivelano nelle pagine in cui funk, soul e jazz s’incrociano con sontuosa arditezza strumentale e che talvolta si risolvono nella fulminea brevità di annotazioni e lacerti. Dietro alla scintillante facciata, Thundercat ripercorre, come altri artisti africano-americani prima di lui, un cammino in cui futuro e passato sono strettamente, inscindibilmente avvinti.


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You're an island of tranquillity in a sea of chaos. :.:: Last.fm

 

jazz-sebastian-bach-2.png

 

The sun is far away
It goes in circles
Someone dies
Someone lives
In pain
It is burning
Into the thin air
Of the nature
Of a culture
On the dark side
Under the moon

#2 tonysuper

    Classic Rocker

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Inviato 05 maggio 2020 - 09:54

Riassumo:

 

faccio sfoggio di cultura per 300 righe al solo scopo di giustificare che mi piace un disco di contemporary/urban R&B  sperimentale asd

A me piace Beyoncé, mi basta una riga per dirlo asd asd

 

Bellino il disco di Thundercat, ma anche Black radio di Robert Glasper per rimanere in tema, oramai un classico.

 

La comunità jazz è ancora "traumatizzata" da cose successe 50 anni fa, che nascono da un errore di fondo: l'illusione di tracciare un percorso di una storia, di un fiume. Oramai è una diramazione di thread, una massa di linguaggi e non si può dire "questa è la via", è antistorico... sono appunto passati 50 anni e ancora si parla di certe cose.

 

Ornette Coleman o Miles Davis? Fu vera contrapposizione?

 

On the Corner è inaccessibile tanto quanto certi dischi di Free, nonostante sia stato venduto come funk,

il Prime Time di Ornette faceva in pratica hip hop moderno a volte.


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#3 Lota

    Groupie

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Inviato 05 maggio 2020 - 16:24

Riassumo:

 

faccio sfoggio di cultura per 300 righe al solo scopo di giustificare che mi piace un disco di contemporary/urban R&B  sperimentale asd

A me piace Beyoncé, mi basta una riga per dirlo asd asd

 

 

 

Lo trovo anche io esagerato un papiro del genere per un disco di Thundercat, se scopre Shabaka Hutchings che fa? Scrive la Divina Commedia?


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