Misteriosamente assente finora, fa il suo ingresso nelle pietre miliari una delle più felici intuizioni del decennio 90.
Chi l’ha detto che il saccheggio non possa essere una forma d’arte? Esattamente venti anni fa, Richard Melville Hall, per gli amici Moby, forniva all’assunto una dimostrazione pressoché inconfutabile. E, non pago di ciò, si spingeva oltre, suggerendo una verità ancor più ardita: anche un disco può essere saccheggiato a sua volta come un supermarket, come se fosse anch’esso un prodotto da bancone. “L’ho fatto solo per far sì che la gente ascoltasse la mia musica”, giustificherà candidamente la scelta di licenziare tutte le 18 canzoni di “Play” per spot pubblicitari, film, documentari e programmi tv. Il risultato è che ogni singola nota dell’album è ormai patrimonio comune dell’umanità, penetrata sottopelle nella mente di ognuno di noi, proprio come il famigerato chip di “Matrix”. Non bastasse la popolarità, ad attestare le dimensioni del fenomeno provvedono le cifre: 12 milioni di copie vendute (massimo bestseller indie), quasi due anni a spasso nelle classifiche. Un boom planetario che suggellerà una delle più acclamate colonne sonore di fine millennio. Un colpo di genio, sì, ma anche di culo. Perché l’esile dj cresciuto in una comune hippie del Connecticut stava quasi per mollare tutto... Ma riavvolgiamo il nastro – per restare in tema – e ripartiamo da Manhattan, New York, anni Novanta. (...)
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