Mese molto proficuo, riconciliante direi
War on drugs – A deeper understanding 80/100
Come la bocca impastata dopo una pizza lievitata il giusto, questa amalgama di lunghe composizioni fatte di tradizione, di bassi sazi e batteria secca, chitarre pronte ad elevarsi appena devono e talvolta synth anche fin troppo sbarazzini (Holding on) che vestono scheletri costruiti col pianoforte su cui si poggia questo uggioso mix adenoidale di Bob Dylan e Bryan Adams che è il timbro di Granduciel funziona bene ed addirittura meglio del precedente, acclamatissimo Lost in the dream, nonostante una sforbiciata di un paio di canzoni (quindi almeno 10 minuti) non avrebbe fatto male, ma va bene così.
Bark Psychosis – Hex 91/100
La forza sta nella debolezza, specie in molti dischi post rock (questo è un disco post rock). Quella sensazione costante di essere dietro, coperti dal compagno più alto nella foto di fine anno scolastico, una persistente nebbia di rassegnazione che è la sostanza stessa di questo disco magistrale, dal suono pulitissimo e chirurgico, ma non freddo: sta nel lento morire della chitarra, nota dopo nota, sempre più lentamente, di A street scene, nella Madchester andata a male da almeno qualche mese di Big shot, nella corsa verso il dirupo fermandosi sempre all’ultimo istante di Fingerspit, persino nell’unico momento vigoroso, Eyes & smiles, coi suoi deliri di tromba e le urla finali, che però sono come l’abbaiare frenetico del chihuahua che tenta di far capire all’esterno che si sta autoconvincendo di non avere paura. Fino al lungo, ambientale sipario che cala di Pendulum man, in cui finalmente si pare di aver trovato l’equilibrio, anche se alla fine il disagio è più egli occhi degli altri che nella propria testa. Disco prezioso.
The Warlocks – Phoenix 81/100
Nati da una costola dei Brian Jonestown Massacre, questo sono fondamentalmente. Acido e drogatissimo noise garage ripetuto e ripetente, che gode della droga perché riesce a reggerla, e quindi non c’è mai un vero down, o quantomeno non è mai veramente molesto, come dimostrano sprazzi divertiti come Shake the dope out, Baby blue e The dope feels good. Fino a chiudere il trip con Oh shadie, lunga e trascinata fino all’ultimo rantolo di vita prima di andarsene a dormire il sonno degli stolti. Pronti a ricominciare domani.
Area – Maledetti (maudits) 88/100
Disco che dire suonato da Dio è dire poco. Inglobati nella definizione larghissima di prog italiano, qui di prog c'è poco (a parte Gerontocrazia e Giro,giro,tondo). Musica talmente vibrante, viva, percussiva e violenta che non c’è tempo per specchiarsi, a partire dal delirante intro Evaporazione. Diforisma urbano è delirante funk jazz rock tipo On the corner di Miles Davis senza Miles Davis (e quindi senza jazz), Scum è prima lungo delirio di piano ed infine breve delirio di Stratos roboticamente modificato, Il massacro di Brandeburgo è musica classica classica (cioè, per dire..). Stratos parco per ¾ di disco decide di mandare tutto a puttane spiattellando tutto il menu di urla indiane, grugniti animaleschi e varie ed eventuali nella conclusiva Caos (parte seconda) proprio come faranno a breve i P.I.L. nel primo disco con Fodderstompf per raggiungere il minutaggio minimo. Insomma, siamo dalle parti di Faust ed Henry Cow senza dover abbassare lo sguardo per la vergogna.
Robert Fripp – Exposure 90/100
La summa dell’intellighenzia dell’epoca. Un po’ come Eno appena uscito dai Roxy decise di fare a pezzi il glam, creando il migliore disco glam della storia, così Fripp si leva anche le mutande, chiama gli amici (Collins, Daryl Hall, Peter Hammill, Peter Gabriel,Tony Levin, Eno, Terre Roche) e pensa ad una trilogia con atri due dischi, II di Gabriel e Sacred songs di Hall, ma il progetto non va. Comunque, questo è un blob shizofrenico, dove passi dal rock ‘n roll (Burn me up I’m a cigarette) a cioccolatini (Mary, l’ambient in chiusura di Water music, i brevi sketch coi Frippertronics), ed in mezzo Hall e Hammill improbabilissimi ma in qualche modo perfetti crooner di schegge impazzite che si chiamano Disengage, Chicago e I may not have had enough of me but I’ve have had enough of you, una title track che è in stile Laurie Anderson ma con il sangue, oltre ad una gemma assoluta come Here comes the flood: Gabriel piano e voce, Eno synth e Fripp che pizzica le corde. 3-0 e tutti a casa.
Spacemen 3 – Sound of confusion 80/100
Il difetto è che ci sono 3 cover, che per quanto fatte bene sono cover e lo sai. I pezzi autografi sono invece delle bombe, Losing touch with my head in particolare, sembra di sgasare con un hammer in un labirinto di edere.
Raime – Quarter turns over a living line 83/100
Antracite come un marciapiede, bassi profondi come pompe di drenaggio, clangori e graffi metallurgici, è fare da colonna sonora a John Carpenter o ad un ipotetico Batman di Nolan senza hype durante una notte senza stelle.
PJ Harvey – The hope six demolition project 83/100
Non so voi, ma questo nuovo non genere che la Harvey si è ritagliata (è rock?) le calza a pennello ed è più interessante oggi di quando si metteva il rossetto rosso sangue. Una marea di ospiti/amici a creare questo disco fatto di strumenti rock che non è rock, non è pop, che sembra guardare al passato ma contemporaneamente sembra un notiziario della BBC in un ipotetico futuro post WWIII, che è sia prendersi il vento gelido a Dover che la polvere infuocata in Afghanistan. Unica e per certi versi sottovalutata
The Breeders – All nerve 76/100
Ritorno graditissimo, e si sente che il ritorno alla stessa lineup dei tempi gloriosi corrisponde ad una alchimia autentica e sincera. Si perde quello studio dell’equilibrio tra i silenzi ed i suoni che aveva caratterizzato alcune della canzoni degli ultimi due dischi, si perde Steve Albini a favore di un ritorno a chitarre/basso più vive e vitali. Idue singoli (Nervous Mary e Wait in the car), così catchy, sono i momenti meno interessanti, molto più succo c’è nelle ondulazioni di voce e sentimento di Space Woman, Walking with a killer e Blues at the acropolis, oltre alla piccola epicità di Dawn: make an effort. Lunga vita.
Feelies – The good heart 83/100
I Rhythms sono meno crazy ma non scomparsi del tutto, vedi The last roundup e Slipping(into something). Notevole la title track eThe high road, per me la migliore, fatta di un giro di chitarra acustica circolare semplicemente celestiale. Peter Buck produce ma è invisibile, come invisibile pare certe volte la voce, cantata quasi per dovere certe volte.
Iron Maiden – Powerslave 80/100
Prima volta assoluta con loro, mi aspettavo assoli di una noia mortale, urli da palle strizzate e batterie inutilmente veloci, invece ho trovato un disco rocciosissimo, ma anche elegante ed equilibrato, letteralmente tenuto in piedi da un basso pazzesco.
Riascolto: Television – Adventure 85/100
L'avventura era nell'altro disco, ma sono comunque di un altro pianeta