Ribadisco che non sono in disaccordo sulla protesta in generale, anche se, forse, il discorso andrebbe ampliato. Il tipo di curiosità su cui fa leva il biopic di turno non è poi lontano dall'ammicco sornione dell'ennesima riedizione di un, per dire, Frankenstein (ben due, a pochi mesi, nel 2016): parliamo sempre di un interesse indotto dalla genericità di un riferimento culturale che vogliamo far nostro. Quanti hanno letto le poesie della Dickinson prima di vedere il film di Davies? E tra quelli che hanno riso del Victor di McGuigan, chi ha letto il romanzo della Shelley? Questo per dire una banalità, infine: che il problema non mi pare rintracciabile nel biopic, nella storia vera, nel supereroe, quanto nella debolezza di un comune immaginario ridotto ai minimi termini. Vorrei anche fare una deriva - e siamo all'opposto, ma credo in un minimo comun denominatore - sugli horror e quanto a essi nuoccia l'obbligo di essere intelligenti per soddisfare un pubblico avido di campi lunghi e inquadrature fisse, ma qui si va fuori strada - seppure, credo, non troppo.
Ora, il centro della questione. Tom, dici: opere dove l'importante e' la messa in scena di un determinato soggetto e solo molto secondariamente come viene filmato. Lo prendo come definizione di una categoria in cui includi A Quiet Passion. Ecco, qui non sono d'accordo. Questo film non è concettualmente uguale a quello sui Queen - che non ho visto, ma mi fido della rece e degli insulti che si è beccato nel thread apposito. Terence Davies non è un James Wan qualsiasi, ma un autore con alle spalle una personalissima poetica e un preciso sguardo sul mondo innanzi a sé, coltivato in decenni di cinema praticato e vissuto. Le sue ossessioni sono il tempo, la memoria, il disfacimento e la morte. Ha iniziato negli anni 80 mettendo in scena la propria infanzia e realizzando una delle trilogie più belle sull'amore per il cinema, culminante ne Il lungo giorno finisce. Quei movimenti di macchina ariosi e sognanti, quegli intermezzi per cui (credo) si è erroneamente citato Malick sono invece il corollario di uno stile onirico e personalissimo, che è maturato nel giro di tre cortometraggi e tre anni di scuola di cinema e che Davies non ha mai abbandonato. A Quiet Passion ha, certo, dialoghi brillanti - e un po' facili; ha colori limpidi negli esterni e soffusi negli interni - siamo in un '800 di maniera? può anche darsi, quel che Davies cerca di darci non è il ritratto di un'epoca, ma di un'anima. Entra in punta di piedi nel mondo della Dickinson, si fa spazio con garbo e poi la sorprende, a più riprese, nel mezzo di quegli scarti della sua vastissima immaginazione. Per dire: la sequenza serale in cui ascoltiamo la voce di lei che dice una poesia (quella che recita The Heart asks Pleasure - first- e termina invocando il privilegio di morire) e intanto una panoramica muove attorno svelando i vari membri della famiglia impegnati in letture, cucito e ozi vari e che poi si conclude sul volto della Dickinson sconvolto da una qualche rivelazione improvvisa mi par che riesca far sentire con grande intensità - nel contrasto tra la quiete di un ozio serale, un lento e continuo movimento sugli arredi, le parole superbe di lei, il suo sguardo curioso e lo stesso, d'un tratto, confuso e disorientato - quei vuoti che si aprono nelle sue poesie. E non è solo forza di parole, per me, ma, appunto, di messa in scena, della capacità di Davies di lavorare sul tempo e lo spazio.
Dell'inizio, che già inscrive in una precisa scelta di campo la disperazione cognitiva della poetessa, ho già detto. La seconda parte è, poi, un lungo e dolorosissimo procedere lungo l'ossessione della morte, del disfarsi di ogni cosa. Il lungo giorno finisce inizia con l'immagine di una composizione floreale che va sfiorendo in time-lapse, mentre il minuetto di Boccherini, indifferente alla bellezza che gli muore accanto, suona tutta la sua allegra spensieratezza. Davies batte sempre sullo stesso chiodo e se la sua ossessione per i padri autoritari ha, forse, trovato una felice risoluzione nella figura del genitore della Dickinson, quella per la morte e la malattia rimane una ineludibile costante.
Sospetto, poi, che un film psichedelico sarebbe fuori luogo. La Dickinson non ha mai cercato di sanare i contrasti, anzi li ha sempre accresciuti, coltivati e il più evidente è appunto quello tra la vita ritirata e la sua sconfinata immaginazione. L'equilibrio e il garbo dell'inglese Davies mi sembrano perfetti per restituirle, in questo, tutta la sua complessità.
Insomma: non è sbagliato l'appunto, ma andrebbe al più fatto nel thread di Mary Shelley. L'unica cosa che A Quiet Passion condivide con la categoria sopra proposta di film disinteressati alle forme e alle atmosfere del cinema è l'eventuale fatto di essere biografico.