Davide, io capisco la tua posizione, ma davvero pensi che oggi possano essere questi bollitissimi U2 a uccidere alcunché? Per me sono anni che la musica mainstream - gestita sempre dai soliti noti - ha massacrato la scienza del refrain, di cui gli stessi U2 furono tra i più ispirati interpreti qualche decennio prima. Cosa conta, oggi, Bono Vox per un pubblico di ventenni? Peggio i Coldplay, semmai.
Claudio, ti racconto questo breve episodio: anni fa, forse cinque, forse meno, comunque in un frangente temporale che rientra nella quasi attualità, mi trovavo all'interno di un tram milanese, illuminato dal sole pomeridiano e domenicale.
D'un tratto, ecco le porte aprirsi e lo spazio mobile affollarsi di una miriade di giovani, felici, belli, saranno stati quasi 20, chiassosamente contagiosi. Avevo gli auricolari, ciò nonostante il frastuono emesso dalle loro corde vocali mi portava repentinamente a sfilarli per poter udire quali rime fossero a portarli all'imminente estasi corale.
Era un brano di Vasco Rossi, uno degli ultimi Vaschi, un Rossi da 21esimo secolo inoltrato, istantaneamente recepito anche se lievemente stonato; una di quelle canzoni asciugate fino all'osso, con ritmica super basica, tre parole in croce e un filotto di ehhhh e ahhhh e ohhhh...
Non potei trattenermi da un'analisi fra me e me: Vasco era riuscito a catturare un'altra generazione, la quinta probabilmente e per riuscire nell'ennesima impresa aveva semplificato ulteriormente i suoi spartiti che, ricordiamolo per i più propensi all'immediato sarcasmo, nel primo lustro di carriera l'avevano mostrato come protagonista a tratti, non rari, di un cantautorato logorroico, ancorché dotato della migliore agilità funky rock e derivati.
Poi arrivarono i primi slogan, inseriti in maniera avanguardistica, post Battiato, poi via via una proposta sempre più legata al movimento del bacino, della schiena, delle braccia, un incitamento sempre più fisico.
E, con il passare delle stagioni, un adeguarsi sempre più spinto ai dettami del ritornello corale, piatto, come la ritmica sottostante, prevedibile dopo pochi secondi, con strofa che sembrano capitate lì per caso, ma invece no, servono solo per preparare il terreno all'esplosione catartica, che è sempre più uguale ogni giorno che passa.
Gli U2 sono i Vaschi mondiali, come se non potessero farne a meno, costretti ad adempiere a un ruolo, quello di conquistatori sempre e comunque: quindi suoni (s)gonfi, quasi da videogioco, quando invece nei primi 15 anni di carriera si erano sempre dimostrati lungimiranti, anticipando i trend, cambiandoli, accorgendosi che determinate mode avevano il fiato corto (udire la produzione di Joshua e inserirla nel panorama 1986-87, provateci, sembra venir fuori da un altro universo, quello di sempre, nel senso di eterno; avrebbe funzionato anche dieci anni prima e funziona anche oggi).
Claudio, gli U2 sono al numero 1 ovunque, di nuovo, per l'ennesima volta, e per farlo, oltre a far leva su un grandissimo ufficio stampa e sul prestigio pari a quello dei Pink Floyd, stanno seguendo un tracciato da loro stessi inaugurato, ma ora veramente portato all'eccesso.
Ecco perché, nonostante qualcuno abbia voluto vedere nella recensione ironia, scherno, ho scritto di un album che potrebbe risultare epocale: perché oltre non si può andare, occorre virare. E il cambio di registro deve arrivare dai big, U2, Coldplay etc, perché sono loro a smuovere tutto, ad avere il massimo airplay.
Sebbene paia impossibile, e magari forse lo è, accidenti!, si può scrivere musica popolare anche in un altro modo. Un contemporaneo di Bono, tale Morrissey non lascia ai posteri sequenze di note biodegradabili che possono essere utilizzate in una miriade di contesti, fino a perdere anima e e unicità.
Perché sembra quasi che l'industria mainstream spinga verso una tipologia di canzone che possa e debba funzionare come sottofondo, come soundtrack per spot adv, come riempimento di ogni spazio, per forza.
Ma poi non rimane quasi nulla: negli ultimi dieci anni che brani evergreen hanno lasciato gli U2?