1. Hieroglyphic Being And The Configurative Or Modular Me Trio – The Seer Of Cosmic Visions
La prima scelta è ideologica. Siccome tutti voi somari non lo avete neanche inserito si prende il primo posto. Prima scrivete Jamal Moss su google immagini, inquadrate il tipo e poi cominciamo a parlare, grazie. Questo disco è l'unico wormhole di cui ha senso parlare nel 2014. Un viaggio intergalattico tra ipno-rotazioni techno, sciami meteorici e supernove. Imbroglio perchè è un raccolta, ma i pezzi hanno tutti avuto una nuova veste per l'occasione. Cromosferico.
2. Heroin in Tahiti – Canicola
Resistenza della presenza, mondo-magico, calura, spiriti e tarantolati. Il duo romano attinge all'apparato simbolico di Ernesto de Martino, che è forse la mente più avvincente con cui mi sono scontrato quest'anno. Aggiungeteci che V. Mattioli è una delle mie penne preferite in Italia e che in copertina spicca la Cattedrale di Taranto di Giò Ponti e capirete la mia sintonia verso questa ottima mezz'ora di psichedelia. È il made in Italy che mi interessa. Corale.
3. Owen Pallett – In Conflict
Owen Pallett cresce. Lui è un vero talento cristallino e questo si sapeva, ma la sensazione è che in questo disco si sia messo a fare sul serio concentrandosi meglio nella scrittura di “canzoni” oltre che sulle già ottime orchestrazioni. Oltre a firmare 2 o 3 dei pezzi più belli e intensi dell'anno, riesce a fare il suo primo album bello e compiuto da inizio a fine.
4. Human Hands – Human Hands
Location: shit towns of the midlands, UK (che poi sarebbe Birmingham). Disco emotivo e viscerale dell'anno che ha preso lo spazio occupato dai FBYC i tempi scorsi. Without warning, a partire dall'arpeggio iniziale, è già un piccolo e personale classico.
5. Andrew Jackson Jihad – Christmas Island
“open up your murder eyes and see the ugly world that spat you out”
Se contassi con le dita le volte in cui quest'anno ho sentito questa frase dovrei essere Bodhisattva Guan Yin. Hanno più o meno l'effetto dei Neutral Milk Hotel o dei Decemberist: folk-rock canterone, testi sbilenchi (Getting naked and playing with guns -There’s a gerbil in the microwave, a baseball bat in everyone – WTF?), una strabiliante capacità di imprimersi nella memoria semantica.
6. Wildbirds & Peacedrums – Rhythm
Sono bravissimi, in completo stato di grazia. In questo capitolo si scorgono più evidenti e limpide inclinazioni pop-soul sul solito tappeto poliritmico di Andreas Fire!Orchestra. Basico, pulito, il loro miglior disco. Li ho persi dal vivo di un soffio, li avrei forse messi in top 3.
7. Cut Hands – Festival of the Dead
William Bennett, ex inascoltabili Whitehouse, si sta sballando verso l'universo tribale e voodoo tahitiano, ghanese e congolese, ma non riuscendo a scappare dal fatto di essere un lattiginoso pioniere dell'industrial più gelida e disumana ne esce fuori un risultato piuttosto vicino a quello che facevano i The Anti-Group Communications o a una versione più oscura e technoide dei 23 Skidoo (non lasciando però nessuno spiraglio aperto al funk o al jazz). Si appropria con insolenza di una tradizione, la estrapola dal contesto e la rende per lo più una speculazione estetica e vagamente fascista, ma poco importa, le percussioni diventano lame ghiacciate, compulsive e alimentano un senso di inquietudine davvero profondo. Pik Badaluk.
8. Oren Ambarchi – Quixotism
è davvero complesso districarsi nella produzione di uno prolifico come Ambarchi. Quinxotism è una suite unica di cinque brani, che parte estremamente minimale su un semplice click-clack glitchato per poi farsi più techno nel mezzo e percussiva nel finale. Attenzione maniacale ai dettagli soprattutto nelle transizioni, ottimo apporto di collaborazioni (Brinkmann alle percussioni, O'Rourke alla tastiere, un sottile lavoro di microfono a contatto di Crys Cole). Il suono migliore dell'anno.
9. Franco Battiato – Joe Patti's Experimental Group
Aphex togliti di mezzo che arriva Frengo. Togli il fatto che abbia 73 anni, togli il fatto che si chiami Battiato e io lo consideri da prima una delle anime più vaste del globo, togli il fatto che ha rilasciato l'intervista più entusiasmante dell'anno (insieme forse alla Bozulich) in cui parla di paganesimo e di come dalle voci sia passato a percepire “presenze”, togli il fatto che torni con il capitano Shack dalle parti dell'Isola Elefante, ecco, tolto tutto questo, che non è poco, questo disco è veramente uno dei più godibili dell'anno. Un Illuminato.
10. Alex G – DSU
Questo dischetto è come il brodino e il purè: confortevole. Il piccolo bignamino 90ies ha rapito anche me, la copertina è giustissima e la sua faccetta da mini-David Pajo gli danno il perfetto “physique du role”.
11. Plastikman – EX (Performed live at the Guggenheim, NYC)
Ha ricevuto recensioni pessime, ma chi non lacrima su EXhale semplicemente non ama la techno. Prodigo.
12. La Piramide di Sangue – Sette
Un canone estetico e iconografico indirizzato su un esoterismo vagamente raffazzonato e confuso, ma spensierato, divertente e suggestivo. C'è un po' di tutto: scale armoniche mediorientali, riff e cavalcate tribali, teatralità spinta. Ti saluta tanto Guenòn.
13. OOIOO – Gamel
Io stravedo per tutto quello che riguarda Yoshimi P-Wee e stravedendo non sono lucido. Il disco è veramente interminabile, un po' indigesto e se lo si paragona alle intuizioni anche melodiche del loro capolavoro che è per me Gold and Green un po' impallidisce, ma è un motore di analogie talmente strampalato ed effervescente che diventa amorevole. Pareidolico.
14. Andrea Belfi – Natura Morta
Disco rosa dell'anno (su Ariel e Teho/Blixa). Belfi (quest'anno anche nel convincente Il Sogno del Marinaio) torna al suo, quindi alle percussioni. Io non sono un esperto del genere, ma sentire un disco di elettroacustica così godibile, privo di lungaggini e auto-compiacimenti è per me piuttosto raro. Si struttura due crescendo a tratti quasi motorik, che formano insieme un'unica suite tanto densa e sintetica quanto fortemente evocativa.
15. Arandel – Solarispellis
Si si, In D era un'altra cosa, ma questo questo personaggio (dalla maschera più brutta della storia della musica) con un occhio tappato, su un piede solo e 38 di febbre fa un disco migliore di Abbott e Vibert messi assieme e ai loro apici.
16. Todd Terje – It's Album Time / Juan McLean – In A Dream
Il primo è calato tantissimo dall'inizio dell'anno ed è stato sostituito in corsa dal secondo. Primo e secondo semestre. Ormai un po' stomacato da questa atmosfera cocktail samba sarei tentato di non metterlo, ma è un disco magistrale per la sua vivacità compositiva e per essere così tanto “analogico”. Insomma, credo rimarrà lì affianco a Dimitri, pronto a servirmi nelle giuste occasioni.
17. The Budos Band – Burnt Offering
Praticamente i Black Sabbath se suonassero afro-beat. Ho la vostra attenzione?
18. Electric Wurms – Musik, Die Schwer zu Twerk
Side project dell'indomabile Wayne "Labbra Fiammanti" Coyne. Ricalca un'iconografia fino al limite del parodistico, ma lo fa con il gusto che gli è solito e nella sua brevità è di una compiutezza rara. Ballad space-kraut , la rarefatta cover degli Yes epurata dai sui slanci ritmici e lasciata nuda, ma soprattutto la lamina acida ed infuocata di Transform!!! (con i tre punti esclamativi già dal titolo, ma ne servirebbero una distesa bella lunga, perchè è da braccia al cielo per quanto energica ed è un po' l'unica maniera per descriverla scrivendone). Per gente che vuol bene al R(u)ock.
19. Meridian Brothers – Salvadora Robot
Eblis Alvarez è un personaggio interessantissimo, di cui non si è parlato molto. Caraibico, polistrumentista. Il suono è una commistione elettronico-acustico che lo avvicina a qualcosa di Raymond Scott e il nostro Umiliani, ma sopratutto al grande Tom Zè. Per quel che capisco i testi sono bellissimi e surreali.
20. Adult Jazz – Gist Is
Si allontana molto dai miei ascolti (infatti è un consiglio). Disco che mi fa incazzare, per quanto sprechi un talento vero di composizione e una capacità insolita di disseminare i brani di veri e proprio imprevisti melodici. Gran parte dell'album non è all'altezza ed è per lo più cantilenante. Rimangono in mano due ottime canzoni (Mum e Idiot Mantra), un po' di rimpianto e molta attesa per il futuro.