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Max Manfredi - Dremong [2014] E Di Altri Tesori Sepolti


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#1 Tom

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Inviato 10 novembre 2014 - 11:04

Ho iniziato a scriverlo come post in Cantautori italiani poco noti, ma visto che mi è scappato una specie di "Guerra e pace" ci apro il topic, via.
 
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2014 Dremong
E' uscito da poco l'ultimo disco di Max Manfredi. Uscito tra l'indifferenza quasi generale e temo destinato a restare rapidamente ignorato da quasi tutti. Come sempre. Confermandolo come il segreto meglio tenuto della canzone italiana degli ultimi vent'anni.
Mi gratto la testa cercando di spiegarmi il perché uno dei più genialoidi cantautori degli ultimi vent'anni resti un signor nessuno presso anche molti appassionati del genere.
 
Colpa del nome? Con quel prosaico e ottottotresco Max che suona più da compagnone di scuola che da Artista con la maiuscola? Colpa del suo aspetto da giostraio losco (ingrigendosi però è migliorato)? Colpa di quelle allucinanti copertine che sfregiano ogni suo album? Colpa della sua appartenenza alla nobile, ma decisamente fuori moda, scuola genovese?
 
Ok, non è musica da amore al primo, e spesso neanche al secondo, ascolto. Capisco bene che sia roba destinata alla nicchia. Capisco meno bene come faccia fatica ad arrivare anche alla nicchia.
Tipo, che se dall'ultimo mi ascolto l'incantevole striscia di canzoni che va da Pioggie a Il negro non mi spiego in che altre faccende siano affaccendate le orecchie dei sensibili verso un certo tipo di atmosfere poetiche. O se invece mi soffermo sui primi brani e colgo i chiari riferimenti al progressive italiano mi chiedo dove siano gli appassionati di quel genere, una volta tanto che avrebbero anche dei testi veri e seri legati alla musica.
 
Ma per ora basta lagne, che questo topic è come uno di quei film che iniziano dalla fine, ma poi parte il flashback e ci di deve sorbite l'intera storia.
 
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Max Manfredi
 
Genovese, 58 anni. 5 dischi all'attivo. Una media quasi perfetta di 6 anni tra un disco e l'altro.
 
Metto subito le mani avanti su quello che notano tutti al primo ascolto: sì, timbro vocale e dizione ad un primo impatto assomigliano a quelli De André, con cui ha anche collaborato e che è sicuramente un suo modello di riferimento. Ma andando oltre la prima impressione non ci si mette più di un paio di canzoni per dimenticare una somiglianza tanto ingombrante.
 
Diciamo anche che è uno di quei cantautori inclassificabili e un po' stramboidi, che incidono cose inclassificabili e un po' stramboidi. E la cosa è ok se vi piace il genere. Ma se non vi piace potreste farvi incuriosire dal fatto che piace a uno come me, che in genere si stufa facilmente dell'originalità ad ogni costo.
 
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1990 Le parole del gatto
La "parole del gatto" in genovese sono le parolacce. Esordio talentuoso e acerbo. Più che Manfredi stesso, che aveva già 34 anni, ad essere acerbi erano (e sono) certi riflessi condizionati di un certo tipo di musica italiana a cui soprattutto all'epoca non scappava nessuno. Così mescolati insieme ad arrangiamenti e accostamenti parecchio originali abbiamo quei suoni generici che da secoli si sentono in tutti i dischi nostrani. Comincia con uno stralunato drum'n'bass plasticoso di vita notturna e finisce con una affettuosa ballata sui reduci della prima guerra mondiale. In mezzo sei canzoni che descrivono la vita di quell'eterna Zona del Crepuscolo che è la provincia italiana, descritta attraverso artisti scalcinati, piazzisti tristi, tangueros da balera, bagascie, perdigiorno e ubriachi. Il tutto cantato in modo stravagante e imprevedibile, come un istrione da teatro o un avvinazzato in un vicolo. Già caratteristiche le sue non-storie divaganti, i surrealismi linguistici, l'aggettivazione folle, l'uso spericolato di nomi, sigle e termini desueti (che non sempre è semplice afferrare senza testi alla mano).
 
Quasi come contrappasso per l'ossessione metropolitana che aveva imperversato per tutti gli anni 80, la tematica provinciale era evidentemente molto sentita nel 1990, dato che affiorava in molti dischi italiani di quell'anno, tra cui altri due esordi destinati a ben altre fortune rispetto a Max Manfredi, l'affine Capossela di All'una e trentacinque circa e il Ligabue del disco omonimo.
 
Inizio già notevole (e notato da nessuno), ma il meglio era tutto da venire.
 
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1994 Max
Il "vero" Max Manfredi in un certo senso comincia qua. E con uno dei più bei dischi italiani dei 90.
Rispetto all'esordio le canzoni sono meno ostiche, più musicali e suadenti, per quanto ancor più imprevedibili. I testi diventano dei meravigliosi rebus , raggiungendo la giusta densità poetica, assecondati da arrangiamenti sofisticati ed elastici. Un album dove ognuna delle nove canzoni (divise da sei brevi siparietti) rappresenta un mondo a sé, con le sue atmosfere, il suo stile, i suoi temi. Una di quelle volte in cui la totale discontinuità diventa elemento unificante e ne esce un coerente e compatto ritratto di qualcuno o qualcosa dentro all'Italia e all'Europa a metà dei 90. Un avvolgente guazzabuglio di surreali atmosfere on the road, malinconie genovesi, fantasie erotiche e culturali sulle bionde e sulla Russia, atmosfere natalizie un po' desolate e un po' affettuose, profezie di serene e sognanti apocalissi, incubi della Storia e utopie sanguinanti, riflessione sull'amore che mescolano paradossi alla Cohen con il grottesco alla Ciampi, inseguimenti di antiche atmosfere popolari, come ne La fiera della Maddalena... dove a metà canzone entra in scena "quella" voce e... va beh. Ma poi poteva non essere men che bello un disco con titoli fantastici come Strade che non portano a Roma, La USL non passa l’amore, Il coro dei ranocchi?
 
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2001 L'intagliatore Di Santi
Un album il cui fascino è inversamente proporzionale all'insensatezza grafica della copertina. Le canzoni stavolta sono più piane e normali, costruite persino con la tradizionale alternanza tra strofe e ritornelli. C'è in generale un'aria più leggera, voltatile, mediterranea con testi disancorati da interpretazioni stringenti ed univoche, che procedono ormai per ironiche astrazioni e libere associazioni, ma senza scivolare nel nonsense fine a se stesso. Un'opera in cui non si può non notare l'ingombrante presenza del fantasmone deandréiano, che dimora, aleggia o sfiora quasi tutte le canzoni. Evocazione stregata ottenuta attraverso il filtro magico di una sincera e reale affinità, lontana da ogni sospetto di ruffianeria e inchino al santino, visto che il De André richiamato è quello meno frequentato e canonizzato. Dicuamo quello acido e sulfureo di Amico fragile, Il naufragio della London Valour, Giugno '73. Nonostante le identiche iniziali, MM non combina pasticci alla Mickey Mouse de "L'apprendista stregone", ma sa controllare e domare i pericolosi incantesimi che certi confronti posso scatenare. Lo fa con la limpida autorità dell'ispirazione, scrivendo, musicando e cantando una serie di bellissime canzoni, che hanno una loro personalità e una loro voce. E poi è tutto maxmanfrendiano quel miscuglio di neve sognata da un marinio, di medioevo fantasticato in mezzo alla modernità, di storie d'amore non si mai quanto immaginate o vissute.
Il suo album di gran lunga più accessibile.
 
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2004 Live in blue
Talmente poco conosciuto da non potersi permettere neanche di andare in tournée, si inventa quasi un'attività live, battezzando La Staffa il suo gruppo di musicisti. Bel disco, che recupera qualche brano dei 90 (all'epoca introvabili anche in rete) e che potrebbe valere come [non-]greatest hits e introduzione, non fosse più introvabile dei dischi in studio. Tre inediti di tutt'altro che minori: Il molo dei greci, Tabarca, Coriandoli d'acqua.
 
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2008 Luna persa
La relativa compostezza del disco precedente si sposa alla fantasiosa anarchia di "Max", con salti di palo in frasca stilistici e tematici. Il clima è quello suo solito onirico e surreale, ma l'inquinamento tossico della realtà aleggia in più brani. Con quasi perfetta alternanza si susseguono meravigliose ballate di malinconico calore a brani più acidi e nervosi. Tanto per indicare due poli opposti: se l'iniziale e tetra L'ora del dilettante è quasi una variante de La domenica delle salme aggiornata all'epoca dei reality come filosofia di vita generale, la soave Aprile è invece una toccante elegia sulla gioventù che echeggia il Lorenzo De Medici de "La canzone di Bacco", passando per Odoardo Spadaro. Per quanto mai manichei e sempre guarniti da metafore sanamente libere e ambigue, i brani che affrontano la prosaicità del sociale suonano a volte fin troppo acri, quasi ripiegati sulle loro stesse parole. Ma con un po' di pazienza e disponibilità possono ammaliare anche quelle, come la title track che chiude il disco con i suoi torrenziali 12 minuti, una "Desolation Row" tra Kusturica e Carmelo Bene. A conferma dell'alternmanza tra dolce e salato prima però c'è la sua canzone che preferisco, il lieve e sognante carillon country di Il treno per Kukuwok...
 

 
2014 Dremong [reprise]
Fine del flashback e ritorno al prsemte. Chissà se qualche paziente masochista sarà arrivato a leggere fin qua. Dopo gli ormai canonici sei anni di attesa, dunque, la sua nuova opera. Un disco cruciverba, come sempre. Dove all'inizio si fa fatica ad incastrare tutte le parole e le canzoni nelle giuste file e caselle, ma alla fine ci si ritrova per le mani qualcosa di quadrato e armonioso. Un Max Manfredi irriducibilmente amaro e pessimista, ma più luminoso e meno spigoloso rispetto all'album precedente. Da il La al disco la title track, una favola crudele e misantropa, dove però il Dremong (una creatura dell'immaginario tibetano, l'antenato dello Yeti) accetta con sereno distacco il suo martirio e la sua estinzione. Una malinconica serenità che illumina tutte le altre canzoni, dove vengono passate in rassegna gli ormai abituali personaggi e le tipiche atmosfere del suo microcosmo. E mai come in questo caso scatta forte l'incantesimo se si è disposti a lasciarsi incantare e avvolgere dalla poetica, non accomodante, ma avvinghiante, di questo autore. Poi, toh, per non fare troppo il melenso cito l'unica canzone che mi sembra un inciampo durante l'ascolto: Rabat Girl che sembra fin troppo Capossela quando sembra fin troppo Tom Waits.
 
Approdato al terzo decennio d'attività discografica, Max Manfredi seppellisce un altro tesoro, ma non sono in vista Jim Hawkins o Long John Silver intenzionati a scoprirlo. I pochi e solitari, ma fortunati, Ben Gunn scrutano inutilmente l'orizzonte.


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#2 Tom

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Inviato 12 novembre 2014 - 21:44

Rubo una bella intervista presa da qui.

Non ne avevo mai lette di sue. Credevo fosse uno abbastanza refrattario a rilasciarle, ma noto che in giro invece se ne trovano altre. Semplicemente non le avevo mai cercate. Sembrerebbe uno di quei tipi che i giornalisti odiano intervistare tipo Capossela o Bergonzoni. ashd

 

MAX MANFREDI: il nuovo disco si intitola “Dremong

 

Ecco un altro frutto, decisamente positivo, di Musicraiser. Ad essere finanziato, questa volta, è il nuovissimo lavoro di inediti di Max Manfredi uscito per Gutenber Music e curato da Primigenia Produzioni. 14 tracce a cavallo tra fantasia e realtà, tra progressive e tinte medioevali, spaziando tra terre lontane e viaggi fantastici. Dieci di queste tracce firmate a 4 mani con Fabrizio Ugas che ha curato in prima persona gli arrangiamenti e molte delle scelte artistiche e stilistiche che rendono questo lavoro un lasciapassare per un viaggio interminabile tra gli alti ranghi della poesia fatta canzone a cui il nome di Max Manfredi è legato indissolubilmente ormai da oltre 20 anni. Ecco una bellissima intervista per gli amici di Box Musica.

 

Dal Tibet al progressive, dalla canzone d’autore italiana ai suoni etnici orientali. Da dove nasce una simile cocktail?

 

Il Tibet e il progressive hanno questo elemento in comune… che li conosco pochissimo. Quindi, sono per me particolarmente affascinanti per farci delle canzoni. La canzone d’autore italiana la conosco, nel bene e nel male. Normalmente mi rifaccio alla mia, alle mie vecchie canzoni, che son quelle che più m’infuenzano adesso;  e a qualcosa d’altro  che mi è capitato di sentire ed amare, da ragazzino o dopo. Poi c’è il fado, c’è il rebetiko, c’è il Lied tedesco. Ci sono le mie “influenze” musicali, intese proprio come febbri, come malattie che stravolgono il mondo e obbligano al riposo e al sogno ed al ripensamento.

 

Perché l’immagine di questo orso, di questo Dremong? La bestia che sembra uomo, l’inquietudine, la leggenda. Cosa dobbiamo leggere tra le righe ascoltando questo disco?

 

Quel che volete. Picasso diceva che se uno ascolta cantare un uccello, mica si chiede che voglia significare, a meno che non sia un ornitologo, aggiungo io. Per interpretare una tempesta ci vuole un meteorologo, o un fisico. Per godersela, basta un entusiasta, magari ben riparato. Uomo, inquietudine, leggenda. Orso. Vogliamo dire che cosa può esserci in comune fra l’orso del Tibet e uno che fa canzoni? Che dalla loro bile si estrae farmaco, cosmetico ed afrodisiaco. Ma nel caso dell’orso, questa non è una metafora romantica, ma una trista realtà.

 

Almeno in 3 brani in cui ricorre in un certo modo il tema degli extracomunitari, della resistenza, dello sfruttamento. È un caso o è un messaggio ben preciso che si incastra nel leitmotiv di tutta l’opera?

 

Non me n’ero accorto. Ma sai, voglio citarti i versi di un poeta scapigliato, mi pare sia Emilio Praga (controllate). “Canto una misera canzone, ma canto il vero”. Il “vero”, frammenti di reale, di cronaca, di vissuto, compaiono sempre nelle canzoni. E l’alienazione del lavoro non fu solo uno sfogo di anime belle e perditempo, è un problema apocalittico urgente sempre, e gravissimo. Si potrebbe dire “prioritario”, se vivessimo oggi  in una società mediatica dalle gerarchie almeno credibili. Invece sono gerarchie  incredibili e, come tali, sono incontestabili.

 

Gibilterra, la Grecia, tantissimo sapore d’oriente, ovviamente Genova e tanto altro ancora. A parte i tuoi luoghi di origine, il resto è un viaggio reale che ci racconti oppure qualcosa che disegni solo attraverso queste canzoni?

 

Genova, in questo disco, è finalmente, e più che mai, la finestra da cui vedere altre finestre ed altri panorami… compreso quello di Genova stessa.

Nelle canzoni, verità e realtà non possono corrispondere del tutto. Poco importa se son stato anni a Gibilterra, invece, quando chi la conosce mi dice che ne ho tracciato un fedele ritratto. E non solo, perché qui non facciamo guide turistiche: bisogna averne rubato il sangue. Ho vissuto anni in Grecia, non ci sono mai stato? E che importa, quando un Greco trasferitosi a Genova  ti dice, ascoltando una tua canzone “Se hai scritto questa canzone, NON E’ POSSIBILE che tu non abbia sangue greco”. Sei mai stato a Lisbona? E’ essenziale saperlo, per le due antiche signore nerovestite che, guardandoti comprese, ti sussurrano: “le tue canzoni sono dei fados!”. I Greci classici praticavano la Nekìa, l’evocazione dei Morti. Per farli venire su, i Morti, dall’Ade, ci voleva l’offerta del sangue, il sangue, ad esempio, di un capretto (la civiltà Greca classica era pastorale e non vegana). Sempre di sangue si parla, “il sangue del poeta”, come diceva Cocteau, “il sangue del fanciullo”, come delirano a vario titolo Marlowe, Whitman, Campana… che significa ciò? Che ci son riferimenti letterari nelle mie canzoni? Col cavolo. Semmai ci son dei  chupito di sangue che ho in comune con altri ragazzini vampiri.
Un altro grande poeta, Heine, parlando di Dante riferiva come, secondo le cronache del tempo, le popolane avessero paura di quest’uomo dal volto bruciato dal sole dei pellegrinaggi, e mormorassero  fra loro: “Quest’uomo è stato in inferno”. E Heine, tuttora romantico, sempre pensando a se stesso  e mirabilmente blasé , commenta: “Era vero, Dante è stato in inferno: è stato in esilio!”

Ecco, se io non fossi “sempre in esilio” non scriverei nulla. Quindi che senso ha chiedersi da dove scrivo? Ma l’esilio è come il tunnel della droga secondo i comici Ceccon e Balbontin: uno non ne esce, se lo arreda.

 

Questo nuovo disco è il frutto di una campagna promozionale su Musicraiser. Tu che sei passato oltre 20 anni di musica in italia, puoi dire che questa è una delle alternative efficaci alla crisi di oggi, oppure pensi ci sia ancora tanto da fare?

 

Penso, come dice il poeta: “Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare”. Ma penso che oggi gli esami di realtà crollano, o sono almeno rimandati, o sono INVALSI. Quando non c’è più da giocare, i duri giocano. Non c’era nulla da perdere, diceva Marx del proletariato, adesso invece non c’è nulla da vincere. Tremino coloro che hanno da perdere qualcosa! Chi non ha nulla da vincere è invincibile.
Tra parentesi, ho usato questo termine, “proletariato”. Non trovate strano e rivelatore che abbia la stessa desinenza di un altro termine oggi abusato e usato a sproposito, che è “cantautorato”? I cantautori son forse i proletari dell’arte musicale? -Ato indica forse un participio passato, che indica un passato irraggiungibile? Acqua pestata nel mortaio? Rido. Io mi son sempre definito “il gerundio della canzone italiana”.

 

La tua canzone d’autore oggi? Dal disco “Le parole del gatto” a questo “Dremong”, com’è cambiato Max Manfredi e come il nuovo pubblico da incontrare?

 

Cambiano le modalità dell’incontro. Oggi vieni a conoscere personalmente quasi tutti i tuoi estimatori o, con termine impietoso, i tuoi “fans” (celeberrimo, proverbiale fra di noi il lapsus dell’appassionato confuso che ti apostrofa: “TU SEI UN MIO FAN!”). Nello stesso tempo, non c’è più la necessità, o l’opportunità, di un grande mediatore a cui affidarsi. Adesso che il mercato non esiste più (se non a livelli erratici, internazionali, ancora più assurdi nelle loro modalità, che quelli nostrani), proprio adesso  si organizza e si condensa fra miriadi e miriadi di proposte diverse. Se fossi, e non sono, uno che ha studiato – scienze – direi, in modo frattalico.

 

Se ti chiedessi di scegliere una delle 14 canzoni di questo disco? Quale e perchè?

 

Avete presente il Re Lear? Mai si sceglie fra i propri figli, mai si investiga l’amore,  porta male.
Ci son bambine che si portano in letto i peluche a turno, uno diverso ogni notte, e poi a ripetere, per non far torto a nessuno di loro.  Continueranno così  da grandi? E’ comunque una strategia saggia.
Le canzoni, mettetevelo bene in testa, sono organismi viventi. Se son morti, è peggio: son morti che  camminano, nuotano, cavalcano veloci.
Ascoltano tutto  alla lontana, come i cani che riposano. Sentono tutto e colgono solo qualcosa. Capiscono tutto, come i gatti, ma fanno finta di niente.
Dovete temere le canzoni, e amarle, come si temono e amano i robot e i golem. Come si amano e si temono gli Angeli. Come si temono i figli.
Chiedono a un bambino: “A chi vuoi più bene, al papà o alla mamma?” Poi magari succede che li ammazza entrambi, e allora la risposta diventa un’inezia.


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#3 chronochromie

    Laurea presso Facoltà di Non Rispondere

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Inviato 14 novembre 2014 - 10:28

Notato da nessuno, non direi... i giornalisti del giro del Tenco non fanno altro che esaltarlo di qua e di là... a Genova pare che esista solo lui... se avesse tanto talento (che ha, è innegabile) quanta boria e presunzione sarebbe il Leonardo da Vinci della canzone italiana.


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Prima ch'io mi profilassi...

#4 Tom

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Inviato 14 novembre 2014 - 11:57

Dovessimo fare un elenco di pupilli del "giro Tenco" che al di là di quello stesso giro non contano un tubo, la lista sarebbe lunga quanto tutti i loro palmarès degli ultimi 20 - 25 anni. Le uniche eccezioni sono quando certificano fenomeni già esistenti, cosa che potrebbe fare chiunque.

 

Manfredi come personaggio non lo conosco proprio e non mi pronuncio.


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#5 il canneggiatore

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Inviato 05 dicembre 2014 - 13:01

Doriano o bibino?

 

Comunque, al di là del tifo calcistico (io tifo quelli orizontali, ma il mio cantautore preferito tifava gli altri... era il suo unico difetto, caro Fabrizio...), mi hai incuriosito, con quale parto?


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#6 Tom

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Inviato 05 dicembre 2014 - 13:40

Il più musicale e compatto (e deandreiano) è "L'intagliatore di santi".

Il più personale e genialoide "Max".

Ma anche l'ultimo può essere una buona base di partenza.


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#7 Tom

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Inviato 22 dicembre 2021 - 20:02

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2021 Il grido della fata
Stavolta ci sono voluti otto anni e un crowdfunding per risentirlo, ma alla fine c'e' riuscito a incasellare un altro dei suoi album-cruciverba. I testi sono i soliti rebus, anche se forse stavolta meno criptici del solito. Anche le musiche sono meno intricate, forse e' il suo album piu' "pop", relativamente parlando, ma non mancano i consueti sobbalzi stilistici, a cominciare dal semi-quasi-rap d'apertura "La scimmia grigia". L'inverno, la neve e il gelo hanno sempre abbondato nei suoi album, ma stavolta gli e' uscito un album davvero invernale e freddo, anche per via di un uso piu' massiccio di suoni elettronici. Atmosfere invernali che possono essere accoglienti come in un racconto di Dickens, ma che possono avere anche il grigiore interiore di un Kafka. Non l'ho ancora digerito tutto per bene, ammesso che si possa farlo con i suoi dischi, ma occhio e croce direi che il "lato B" e' uno dei vertici della sua discografia. E non che il "lato A" sia da meno, anzi, anzi e' li' che piazza una genialata di poesia bislacca come questa:
 

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