Inviato 28 dicembre 2011 - 11:08
Da quando mi sono avvicinato al mondo del cinema (1998-1999: ma solo dal 2001 ho cominciato a frequentare la sala con regolarità) non mi era mai capitato di attendere un film con tale trasporto come accaduto qualche mese fa con “The tree of life” di Terrence Malick. Ricerche frequentissime in rete per scovare materiale appetibile che potesse tappare l’ansia dell’attesa, ipotesi su ciò che il film avrebbe potuto essere, significare per il cinema contemporaneo e per me stesso. Non solo considero “La sottile linea rossa” il miglior film degli anni Novanta (o meglio: degli ultimi venti anni), ma la poetica del cineasta texano si avvicina indissolubilmente alla mia persona. I gesti e le parole che scorrono nei suoi quattro precedenti film mi appartengono, sono bagaglio del mio essere.
Ho visto “The tree of life” in maggio, primo giorno di proiezione, primo spettacolo. L’ipotesi di scriverne subito una recensione cessò immediatamente. Se mi si chiedeva un’opinione sul film facevo fatica a mettere due parole assieme e tra un mugugno e l’altro mi riproposi di vederlo “entro la fine dell’anno”, con calma. Non era uno dei film della mia vita, come speravo, ma nemmeno una semplice opera insoddisfacente. Una rilettura era d’obbligo.
L’ho ripreso ieri e seppur ancora incapace di scriverne una recensione (ma alla fin fine cosa importa?), nonché un confronto successivo, proverò almeno a commentarlo, a ordinare le idee.
La citazione biblica iniziale esplica in maniera inoppugnabile le intenzioni di Malick. Fare un film su Dio, che può d’altra parte intravedersi nella fiammella che apre il film e che ritorna in più di una occasione. Scelta, quella di sottolineare ciò che in precedenti occasioni Malick aveva suggerito, che appesantisce il film. Malick non si limita a porre domande, ma fornisce anche delle risposte o, quantomeno, dice chiaramente che ad alcune di quelle domande risposte concrete (da trovare nel nostro spazio, nel nostro mondo) non ce ne sono. La grazia non soltanto sfiora la pellicola, la accarezza, tocca lo spettatore, ma la schiaccia: Mrs. O’Brien non solo accoglie sulla propria mano una farfalla, ma fluttua nell’aria e, cosi’ facendo, schiaccia quella delicatezza propria delle immagini malickiane.
Il primo minuto del film è meraviglioso: le immagini della futura Mrs. O’Brien bambina, tra campi, bestiame e con magica musica di accompagnamento, si ricollegano al ricordo del soldato Witt de “La sottile linea rossa”, della morte della madre nella casa della giovinezza. Il successivo blocco, con la notizia della morte del figlio è molto bello e non interrompe la rischiosa linea narrativa della sublime attesa.
La sequenza del cosmo e della nascita della Terra è stata forse la più discussa, probabilmente non è la più importante, ma certamente si presta a svariati dibattiti. Trovo suggestivo e vagamente inquietante il blocco cosmologico con la Lacrimosa di Zbigniew Preisner in sottofondo, buono ma non eccezionale quello della creazione della terra e delle forme viventi, passabile la sequenza dei dinosauri (pur realizzati in maniera non soddisfacente), che però si presta alla precedente critica: ribadire e sottolineare cose che sarebbe stato meglio sussurrare.
Seguono poi quelli che considero senza dubbio alcuno i dieci minuti più belli del film, tra i frammenti più alti filmati da Terrence Malick. L’amore tra due adulti, il pancione della futura mamma, il parto, i primi passi, la crescita, l’interazione tra i due bambini. Tutto bellissimo. E’ ingenuo voler rappresentare la madre che dice al figlioletto “li’ è dove vive Dio”, con il dito puntato verso il cielo, ma bisogna tener conto che una madre di una cittadina americana negli anni ’50 se cattolica è assolutamente verosimile che lo faccia.
Qui comincia la fase più lunga del film, quella che vede Jack protagonista, i suoi primi turbamenti (religiosi, affettivi, anche sessuali), la divisione tra una madre tanto amorevole e un padre duro, la scoperta del dolore, il mistero della vita. E’ il blocco narrativo che ha messo d’accordo più spettatori, quello salvato anche dai critici scettici. E’ il più lungo, il più autobiografico, il più consapevole, il più sicuro. Di una sincerità inequivocabile. Poteva durare 30 minuti in meno ma anche 3 ore in più (e difatti prima o poi vedremo la director’s cut). Il piccolo problema è che molte sono le ripetizioni, le domande che rimbombano a volte senza significative variazioni, i giochi fanciulleschi, i confronti con i due genitori, l’insistenza sull’elemento acqua. Non in tutto c’è freschezza. Con piglio documentaristico ma senza essere un documentario, racconto di formazione senza una vera trama. La grandezza di Malick sta nel rendere grandiosa ogni singola scena, rendere bella una corsa, una marachella di un ragazzino, un dettaglio di una pianta o un animale. Di una bellezza molto lontana da quella di spot e videoclip, dall’estetica della “bella immagine”. La bellezza malickiana rende bella la banalità, o meglio, abolisce il concetto di banalità. Ogni dettaglio ha un proprio valore, una propria importanza. Ogni foglia o capello è parte integrante della complessità (e della bellezza) del mondo. Attimi cinematografici che valgono intere carriere ma che, in questo caso, legate l’una all’altra soffocano un po’ il film, la scelta di mostrare una perpetua bellezza che attraversa il film ma non una trama appesantisce il tessuto.
Quando la storia dell’infanzia di Jack giunge al termine la domanda che ci si pone è: dunque, funziona il collegamento tra la nascita del mondo e l’infanzia della famiglia a Waco? Tra macro e micro? Tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo? Solo in parte: il messaggio è ben chiaro, ma l’amalgama è soltanto parziale. La sequenza del cosmo risulta alla fin fine sommaria, nel senso che poteva essere applicata (pur con qualche variazione) a “La sottile linea rossa” (li’ un collettivo, qui essenzialmente un singolo) e, facendo uno sforzo, addirittura a “The new world”. Malick non riesce a rendere indissolubile il legame tra i “due film”. C’è un concetto, ma l’urgenza espressiva resta sconnessa.
Il finale non aiuta. Non è nemmeno brutto, ma bello non è. Lo si può prendere come un Paradiso e l’immaginario è tutt’altro che inedito, lo si può prendere come limbo, come stato mentale, come danza tra vivi e morti, ma anche questa l’abbiamo già vista altrove. Purtroppo il finale, punto cruciale, d’approdo, non ha quasi nessuna forza visionaria né poetica e, cosa forse più grave, emoziona poco. E’ incerto, fragile, crolla come un castello si sabbia.
Con “The tree of life” Terrence Malick si è voluto spingere in territori rischiosi, esplorati da pochi prima di lui, almeno in campo cinematografico. Forse è voluto andare oltre colonne portanti della cinematografia che hanno saputo abbracciare una concezione ampia sull’uomo e la sua natura, l’esistenza umana, la vita (da “2001: Odissea nello spazio” a “8½”, da “I racconti della luna pallida d’agosto” a… “La sottile linea rossa” dello stesso Malick!), ma è stato respinto molti passi indietro forse, semplicemente, perché oltre una certa soglia non è possibile andare.