Mi interessa riprendere il discorso nato nel topic dedicato a Franco Califano.
Per quei lidi mi ero lanciato in innocenti e affettuose provocazioni quali la teoria dell'invidia di fondo dietro il malumore per un bene sociale non spartito in modo equo e tante altre buffonate che non volevano certo farvi prudere le mani, prurito di cui mi scuso, spero questo topic possa essere un buon "grattino".
In ogni caso, rovistando tra tutte quelle cianfrusaglie, vi trovo dei concetti intorno a cui il mio pensiero gira, e che vorrei discutere con chi tra voi è interessato.
Un tempo ero molto animato dai sentimenti di giustizia sociale e da aspirazioni quali il volere i diritti uguali per tutti, tant'è che molta rabbia che mi nasceva di fronte a certe situazioni aveva la sua origine da queste che oggi considero delle mere utopie in contrasto a ciò che accadeva.
Ad un certo punto della mia vita notai come esistesse una separazione tra me e la realtà , ovvero come credessi con la mente ed il cuore nella giustizia e nell'uguaglianza sociale mentre esse stesse non esistevano e, andando indietro nel tempo con i miei studi, non erano mai esistite.
Ovunque per le strade, per le campagne, per gli edifici pubblici vedevo, toccavo, ascoltavo l'esistenza di diritti diversi a seconda del ruolo e dello stato sociale dell'individuo. L'uguaglianza sociale non esisteva se non nella mia mente o, perlomeno, nel mio amore per essa: essa era un fantasma nato dal rovesciamento di un aspetto vero e reale della vita e che chiamo col nome di ideale.
A questo punto voglio rispondere all'obiezione di Bandit che mi ha fatto sul topic califaniano quando scrissi:
se valutiamo l'ideale come qualcosa che non ha attinenza con la realtà , dovrai darmi credito che si spera nell'ideale perché si rifiuta la realtà .
Non vedo perché si dovrebbe.
In realtà non lo reputo un dovere, ma un semplice stato delle cose. Infatti si chiama ideale ciò che non compare nella realtà , altrimenti si chiamerebbe "reale". Se la realtà soddisfacesse l'uomo, che motivo avrebbe egli di sperare e credere in qualcosa che va oltre la realtà stessa? Evidentemente spera divenga reale qualcosa che è solo nelle sue aspirazioni perché la realtà già esistente non lo appaga e quindi la rifiuta.
Bandit mi pone un'altra obiezione interessante quando dico:
si sono mai visti ricchi, principi e vescovi sperare nella giustizia o in qualche altro ingenuo ideale?
Sì, perchè?
Credo che non si siano in realtà visti i veri sentimenti del ricco, ma solo le sue parole. Se il ricco ad esempio avesse in sé davvero il desiderio dell'uguaglianza sociale, smetterebbe di essere ricco per contribuire realmente all'uguaglianza sociale, distrubuendo ciò che di suo è un di più rispetto al di meno di chi non è ricco; considerato anche il fatto che questa sia l'unica mossa reale possibile per rendere reale il proprio ideale di uguaglianza sociale, essendo impossibile far divenire al contrario tutti ricchi.
In ultimo rispondo a quest'ultima obiezione di Bandit quando affermai:
se l'ideale di uguaglianza non è una realtà raggiungibile perché la vita reale è altro
Chi l'ha detto?
Non l'ha detto nessuno, che io sappia, è solo una mia considerazione. In verità , io l'ugualgianza sociale tra tutti gli uomini non l'ho mai vista, né la vedo, ma in un certo senso mi piacerebbe essere smentito.
Dette queste cose, vi è un altro intervento in merito da postare, è quello di Boleyn Ground:
il discorso realtivo alle diseguaglianze sociali lo faccio [...] relativo ad un atteggiamento che ho visto in altre sezioni e altre situazioni (gente tipo l'utente ale) che partecipa moralmente alle godurie altrui pur essendo probabilmente colpito in prima persona dai trattamenti di disuguaglianza sociale.
Qui il discorso si fa più complesso, perché determina l'atteggiamento di fronte all'ideale nel reale.
Trovo l'obiezione di Boleyn Ground sensata, e anche molto interessante perché apre uno scenario.
Perché avere un atteggiamento che ammette una goduria per il di più di un uomo agevolato economicamente a discapito dell'uguaglianza sociale e, inoltre, a discapito della propria persona? Non ho risposte a ciò, posso solo analizzare le mie sensazioni e le mie impressioni di fronte a certe situazioni.
Nel caso di Califano, ad esempio, al di là ovviamente del suo operato artistico, azzardo a dire che se proprio non provo un senso di piacere, in ogni caso non provo rabbia o dispiacere a sapere che chiede (e che possa ottenere) i soldi che io, personalmente, in un anno sarei più che felice di guadagnare rispetto alla mia situazione odierna.
Credo ciò derivi da una presa di coscienza della realtà e di un'accettazione della diversità dei percorsi individuali di tutti gli altri al di fuori di me. Credo nella fortuna e nella sfortuna nei destini degli uomini, e vedo con i miei occhi i frutti di queste "dee", mentre ho visto la mia rabbia e di molti altri come me di fronte alla disuguaglianza sociale, ma non ne ho visto né toccato i frutti; ho visto la lotta e l'impegno di duemila anni perché i diritti di ciascuno fossere riconosciuti, ma registro solo situazioni sociali paradossali, come ad esempio un maggior riconoscimento di diritti verso uno schiavo romano o greco nell'antichità , rispetto ad un operaio della Fiat di oggi. Se in effetti dei diritti, oggi, sono stati conquistati, questo solo in alcuni paesi, e comunque negli stessi ne vengono calpestati di nuovi, come se il tutto fosse l'eterno gioco del martello con cui colpisci una marmotta facendola rinculare nel terreno mentre da un altro buco ne spunta un'altra.
Mi chiedo quindi: qual è la strada da seguire? Non bisognerebbe forse rivalutare di nuovo i propri valori e crearne, o perlomeno trovarne, di nuovi, visto che questi che abbiamo rimangono solo nel mondo delle idee e la realtà continua a disgustarci?