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Films "polar" francesi


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137 replies to this topic

#1 Dudley

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Inviato 08 maggio 2009 - 17:25

Insomma, se ne era parlato con Corey da un'altra parte qui nel forum, siamo dell'opinione che il genere menzionato meriti un "topic" tutto suo! Uno spazio dunque dove discutere di Melville, Sautet, Corneau, Giovanni e degli attori Ventura, Belmondo, Delon, Gabin, etc. etc.

Fatevi sotto dunque! "Vive la France, vive le polar!"


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#2 corey

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Inviato 08 maggio 2009 - 21:15

Inizio l'inserimento delle riflessioni fatte in questi mesi nel topic egregiamente aperto da Dudley, che ringrazio per l'iniziativa, partendo dallo storico "protopolar" Pépé le Moko. Poi, per quanto possibile e con calma, procederò in ordine cronologico.

Il bandito della Casbah (Pépé le Moko, 1937) di Julien Duvivier con Jean Gabin, Lucas Gridoux, Mireille Balin, Line Noro

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E' l'unico "noir puro" (intreccio criminale + dinamiche poliziesche + caratterizzazione dell'antieroe marginale) della stagione del Realismo Poetico. La regia di Duvivier (spesso tacciato di abile tecnicismo innamorato dei suoi effetti) è semplicemente strepitosa: generosa ma non barocca, esotica ma non accattivante, dinamica ma non caotica. Gabin monumentale: la sua pacatezza noncurante che s'infiamma improvvisamente in collera incontenibile prefigura, pur rimanendo inimitabile, la rabbia compressa di Lino Ventura o la lapidaria tensione di Lee Marvin. "Pépé le Moko" è film epocale per almeno un miliardo di motivi:
1- l'ambientazione in una Casbah-patchwork che incolla con rudimentale sfacciataggine pezzi di Algeri, Marsiglia e location rigorosamente ricostruite in studio;
2- la sottile attrazione/repulsione che lega Pépé (Gabin) all'ispettore Slimane (Gridoux), l'attendismo del quale ha un acre retrogusto dostoevskiano;
3- la nostalgia per Parigi che s'incarna nella "femme lumière" Gaby (Balin);
4- la galleria di truands che circonda Pépé come un coro tragico incanaglito in feccia;
5- la lenta degenerazione della Casbah da luogo di libertà e impunità a carcere a cielo aperto;
6- il progressivo disfacimento fisico e psicologico di Pépé, che da dominatore dello spazio si rimpicciolisce a ometto soffocato dall'ossessione evasiva e da una passione intrisa di masochismo;
7- il virtuosismo delle riprese che fa di ogni sequenza un pezzo di bravura e di originalità (la presentazione iperframmentata della Casbah in apertura, l'esecuzione "alla pianola meccanica" dell'untuoso informatore Régis, le folli e surreali discese in città di Pépé, lo stupefacente carrello finale in avanti su Gaby);
8- la rappresentazione dei turisti francesi che visitano Algeri per vampirizzarla folkloristicamente e liquidarla con una frasetta impacchettante ("In ogni caso io mi sono molto divertita e tuttavia ho sempre trovato il sole di un triste.")
9- l'amicizia fraterna/filiale tra Pépé e il giovane Pierrot (Gilbert Gil, straordinariamente somigliante a Jean-Pierre Léaud)
10- lo splendido e doloroso ritratto di Inès (Noro), donna che tradisce per soverchio d'amore nei confronti di un uomo sfuggente come un'anguilla e prepotente come un tiranno.
E, su tutto, una canzonetta di impudente solarità ("Que faut-il?") che "le Moko" (termine gergale che indica un uomo proveniente da Marsiglia) intona alla vigilia di un appuntamento galante con Gaby. Un film seminale, ça va de soi.
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i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#3 corey

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Inviato 09 maggio 2009 - 11:12

Anche se non è un polar vero e proprio (a mio avviso è molto più corretto definirlo un noir), il film di Clouzot merita di essere inserito per un paio di motivi: in primo luogo poiché magnifico e in seconda battuta perché stabilisce il modello dell'ispettore scettico, mal pagato e disilluso difensore dell'ordine borghese. Un modello che verrà ripreso e approfondito da molti polar successivi.

Legittima difesa (Quai des Orfèvres 1947) di Henri-Georges Clouzot, con Louis Jouvet, Bernard Blier, Suzy Delair

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Morbosissimo noir tratto dal romanzo Légitime defénse di S.A. Steeman, Quai des Orfèvres segna il ritorno alla regia di Henri-Georges Clouzot dopo il fraintesissimo Il corvo (1943), assurdamente accusato di collaborazionismo dalla sinistra dell'epoca per aver fornito un'immagine supinamente negativa della Francia (un po' come i rimproveri di disfattismo piovuti addosso, ma da destra stavolta, ai film del Neorealismo italiano). Come al solito Clouzot interpreta il genere in chiave sottilmente sociologica, sfruttando le atmosfere torbide e ambigue del noir per lanciare strali infuocati al perbenismo imperante. Nulla e nessuno è risparmiato dal furioso livore di questo ritratto in nero: la raccapricciante prepotenza dell'alta borghesia, l'opportunismo delatorio del ceto medio, l'arrivismo delle classi più umili, il colonialismo canagliesco della patria tutta. Un impressionante vuoto morale vissuto nella più totale indifferenza. Donde la sordida immagine urbana, popolata da figure anonime, a testa bassa, immerse nell'ombra.

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In questo grigio inferno quotidiano, la seducente cantante di music-hall Jenny (Suzy Delair) cerca di sfondare nel mondo del cinema avvalendosi della concupiscenza del laido ma influente Brignon (Carles Dullin). Il possessivo marito Maurice (Bernard Blier) non è d'accordo e, in preda a un tremendo raptus di gelosia, si precipita a casa di Brignon armato di pistola. Ma una volta arrivato qui trova il ripugnante Brignon accasciato al suolo con la testa fracassata. Chi lo ha ucciso? Per quale motivo? Si scatenano le indagini dell'ispettore aggiunto Antoine (Louis Jouvet), squallido tutore dell'ordine animato da un infallibile esprit de géométrie.

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Affidando alle luci di Armand Thirard il compito di creare un clima figurativo dominato da contrasti e chiaroscuri, Clouzot riserva tuttavia immagini di sfacciata luminosità per esaltare il provocante erotismo di Jenny Lamour e l'accecante desiderio coltivato per lei dalla migliore amica del marito, la bionda fotografa Dora (Simone Renant). Splendida soluzione visiva per comunicare obliquamente una tensione erotica altrimenti inconfessabile.

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Ma il profilo psicologico più sofferto e toccante è quello dedicato a Maurice Martineau, marito completamente dedito al culto della sua Jenny, divorato dalla gelosia e vittima di un retaggio mentale imprigionante, quello della normalità. Il male si disegna sul suo volto bianchiccio come ombra inesorabile, la consapevolezza di essere schiavo di convenzioni alienanti non gli è concessa: sente l'ingiustizia franargli addosso come un evento naturale. Solo, sepolto sotto un senso di colpa che si mescola micidialmente alla fatalità, vede una sola via d'uscita all'infelicità: il vetro dell'orologio in frantumi, il suo polso, le vene...

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Un noir meraviglioso, molto più malato del successivo I diabolici (1955), molto più malvagio del precedente Il corvo, nonostante il finale codardamente consolatorio.
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#4 bluetrain

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Inviato 10 maggio 2009 - 21:18

Legittima difesa (Quai des Orfèvres 1947) di Henri-Georges Clouzot, con Louis Jouvet, Bernard Blier, Suzy Delair

Un noir meraviglioso, molto più malato del successivo I diabolici (1955), molto più malvagio del precedente Il corvo, nonostante il finale codardamente consolatorio.


L'ho visto proprio l'altra sera, film strepitoso. Concordo sulla stonatura del finale edulcorato, che tuttavia non toglie nulla alla ferocia messa in scena fino agli ultimi minuti della pellicola.

Però, in che senso lo trovi più malato de "I diabolici" (che per me è film immenso, magistrale nella gestione della tensione nel corso della narrazione)? La rappresentazione in chiave "sociale" dell'umanità non mi sembra poi molto più dignitosa nel film del '55...
In ogni caso, complimenti per la recensione, ottima come sempre.
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#5 corey

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Inviato 11 maggio 2009 - 08:52

Innanzitutto ti ringrazio per i complimenti, particolarmente graditi perché nel corso di questi mesi ho potuto apprezzare i tuoi gusti cinematografici e musicali (anch'io sono un patito di blues in prima battuta e di jazz in seconda).

Quanto ai film di Clouzot provo a spiegarmi decentemente. Ho sempre trovato Les diaboliques un film sopravvalutato (tanto quanto Il corvo è stato prima frainteso e poi esaltato e quanto Legittima difesa messo in ombra dai due titoli citati). Il corvo, nel suo sinistro e indistinto gracchiare, e I diabolici, nel suo disseminare la narrazione di falsi indizi, mi sono sempre sembrati eccessivamente grotteschi, a un solo passo dalla caricatura.

Soprattutto I diabolici, con le sue tensioni conflittuali stridenti e la sua volontà di fare dell'educandato un microcosmo sociale, mi risulta eccessivamente rigido e schematico. La malvagità dei personaggi è troppo ostentata e sbandierata, così come la messa in scena, tutta protesa a costruire una suspense dai riflessi horror, mi pare una rimasticatura di modelli ultraclassici (il bellissimo Angoscia di Cukor e l'inarrivabile Rebecca di Hitchcock).

Quai des Orfèvres, al contrario, è molto più smorzato e intimamente disturbante sia nella progressione drammatica che nell'orchestrazione messa in scena. Perché molto più malato de I diabolici? Semplice: se nella pellicola del 1955 le dinamiche erotiche, pur soggette a rimescolamenti repentini, sono chiaramente leggibili ed esplicitamente enunciate, in Legittima difesa è il clima stesso del film ad essere impregnato di una concupiscenza diffusa e insinuante (fondamentali in questo le luci di Armand Thirard).

Detto altrimenti, il clima sordido e voluttuoso di Legittima difesa, surriscaldato da improvvise ebollizioni metaforiche (il latte che trabocca dal pentolino che "sta per" l'amplesso tra Jenny e Maurice) o intirizzito da trattenute passioni saffiche (il desiderio sublimato fotograficamente dell'algida Dora), instaura un regime erotico serpeggiante e accecante, che rende quasi ogni sequenza un piccolo delirio di voluttuosa morbosità (basti pensare alla prima scena del film, in cui il gelosissimo Blier interrompe un'esecuzione al piano per bacchettare la moglie che si lascia allegramente palpare un ginocchio dall'attempato Leo: la sua gelosia è immediatamente piazzata sotto il segno dell'ottusità e della paranoia).

Spero di essermi spiegato in modo soddisfacente. Poi, ovviamente, si tratta di punti di vista. Resta il fatto che ai miei occhi tra Legittima difesa e gli altri film di Clouzot che ho visto, Vite vendute incluso, c'è un abisso.
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#6 bluetrain

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Inviato 11 maggio 2009 - 09:28

Sei stato chiarissimo ed esaustivo, grazie.
L'unico punto della disamina che non mi trova concorde è il giudizio un po' troppo severo, su "I diabolici", ma per questa volta, passi.  ;D
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#7 corey

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Inviato 11 maggio 2009 - 11:54

13 aprile 1955: a poco più di un anno di distanza dal fondativo Touchez pas au grisbi di Jacques Becker, Jules Dassin, cineasta americano costretto ad emigrare in Francia a causa della caccia alle streghe che imperversa negli Stati Uniti, adatta il secondo romanzo chiave della Série Noire fondata nel 1945 da Marcel Duhamel, Du rififi chez les hommes di Auguste Le Breton (pubblicato nel 1953, lo stesso anno di Touchez pas au grisbi di Albert Simonin). Come i due romanzi di Simonin e Le Breton segnano l'irruzione e il successo degli scrittori francesi nella Série Noire, così i due film di Becker e Dassin pongono le basi del polar, il "noir alla francese".

A rigore, ci sarebbe un altro titolo da citare: La grande razzia (Razzia sur la Chnouf) di Henri Decoin, uscito nelle sale parigine il 7 aprile 1955, una settimana prima di Du rififi chez les hommes, ma dal punto di vista cinematografico il film di Decoin, pur importante sotto il profilo storico e tematico (è il primo polar in assoluto a fare del traffico di droga il tema centrale della narrazione), è infinitamente meno significativo di quelli di Becker e Dassin.

Rififi (Du Rififi chex les hommes, 1955) di Jules Dassin, con Jean Servais, Robert Manuel, Carl Möhner, Jules Dassin, Magali Noël, Marie Sabouret

Uscito dal carcere dopo cinque anni di detenzione, Toni "le Stéphanois" (Jean Servais) punisce a cinghiate la sua ex compagna Mado (Marie Sabouret) e si impegna in un nuovo colpo: rapinare la famosa gioielleria "Webb" di Rue de la Paix (a due passi da Place Vendôme) insieme all'amico fraterno Jo (Carl Möhner), all'italo-francese Mario (Robert Manuel) e a Cesare "il milanese" (Jules Dassin), massimo esperto di casseforti in circolazione.

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Se Grisbi è mitografia del milieu, Rififi ne è la fenomenologia. Il romanticismo evocativo tratteggiato l'anno prima da Jacques Becker viene spazzato via dall'amara secchezza di Jules Dassin, cineasta americano costretto ad emigrare in Francia dalla crociata anticomunista del senatore Joseph McCarthy. Ancora una volta ci troviamo di fronte all'adattamento di un romanzo Série noire, quel Du rififi chez les hommes di Auguste Le Breton che contende a Touchez pas au grisbi di Albert Simonin il primato delle vendite. E ancora una volta ci troviamo di fronte all'epopea di un truand attempato ma ancora pronto a combattere per difendere amici e reputazione. Una vecchia gloria in cerca di un riscatto personale, soprattutto nei confronti di se stesso.

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Ma se il ritratto beckeriano della truanderie si nutre di figure leggendarie e traccia una topografia completamente avulsa dal tessuto urbano (come se i luoghi del milieu non appartenessero alla stessa fascia di realtà della Parigi diurna), Dassin, forte dell'esperienza quasi neorealista de La citta nuda (The Naked City , 1948), conficca le vicende antieroiche di Tony e compagni nel corpo della Ville Lumière, sfruttando al massimo l'interazione tra personaggi e spazi. La metropoli romba, sferraglia e rumoreggia, dettando tempi e azioni, nascondendo pericoli e offrendo osservatori privilegiati: è soltanto padroneggiando mentalmente lo spazio urbano (emblematica la sequenza della "passeggiata mnemonica" di Jo) che il colpo potrà andare a buon fine, nonostante un rischioso imprevisto.

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Pur rinunciando ad alcune durezze del magnifico libro di Le Breton (pieno zeppo di particolari scabrosi e raccapriccianti, come l'odore di merda che si respira durante le sparatorie), Dassin, coadiuvato in sede di sceneggiatura da René Wheeler e dallo stesso Le Breton, ne rispetta fedelmente il crescendo drammatico, annerendo progressivamente i toni della narrazione e piazzando nel centro del film una delle due più belle sequenze di rapina della storia del genere (l'altra, assai simile, porta la firma di monsieur Melville e non a caso si sviluppa all'interno di una gioielleria di Place Vendôme). In un silenzio pressoché totale e con un montaggio ridotto all'essenziale (le rare ellissi sono rigorosamente cronometrabili), Dassin dà prova di un virtuosismo registico (che impalpabilità i suoi long take!) e di un'inventiva scenica (su tutte la trovata dell'ombrello come raccoglitore di detriti) semplicemente sublimi.

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Pregnanza del contesto metropolitano e sontuosità formale non sono tuttavia gli unici pregi del film: man mano che la vicenda assume contorni sempre più tragici, Rififi accantona leziosità e preziosisimi per farsi iconografia di un incubo. Le atmosfere tra il debosciato e lo scanzonato della prima parte si incupiscono inesorabilmente in toni lividi, funerei, addirittura allucinati in occasione della corsa in macchina finale. Sequenza che, insieme all'esecuzione di Cesare il milanese (soavemente interpretato dallo stesso Dassin sotto lo pseudonimo di Perlo Vita), imprime al film una secca torsione espressionista che impedisce di rinchiudere questo strepitoso noir nella gabbia critica del semidocumentarismo.  Personalmente (eresia!) lo preferisco al pur fascinosissimo Grisbi.

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#8 William Blake

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Inviato 11 maggio 2009 - 14:38

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Dopo una rapina a Milano, Abel Davos, condannato in contumacia, rientra clandestinamente in Francia con la famiglia. Perde la moglie e a Parigi i vecchi amici l'abbandonano, tranne uno, Stark, in casa del quale si rifugia, ma la polizia lo bracca finché, dopo altri delitti, è catturato, condannato e giustiziato. Da un romanzo (1958) di José Giovanni che collabora alla sceneggiatura con il regista, il 1° vero film di Sautet. Ventura e Belmondo per la prima volta in coppia.

Asfalto che scotta (Classe tous risques, Francia/Italia 1960)

Un film di Claude Sautet. Con Jean-Paul Belmondo, Sandra Milo, Lino Ventura

Recuperato su IRIS, dopo che se n'era parlato nel thread "Film noir" (il solito corey, se non erro). Polar che si divide fra l'ambientazione urbana (si veda l'inizio) e uno sviluppo più claustrofobico, durante il quale il protagonista è costretto a nascondersi. Forse la parte centrale dura troppo e rischia di apparire lento, ma serve a rendere l'idea dell'abitudine alla macchia, all'invisibilità. L'avvicinarsi alla fine è l'avvicinarsi della morte. Un film teso, dove Sautet riflette sulla solitudine e sulla fine delle vecchie amicizie, in maniera secca e amara. Monumentale Lino Ventura (e a fine decennio lo sarà ancor di più nell'armata delle ombre di Melville), bravo il giovane Belmondo. Da riscoprire.
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Ho un aspetto tremendo, e non bado a vestirmi bene o a essere attraente, perché non voglio che mi capiti di piacere a qualcuno. Minimizzo le mie qualità e metto in risalto i miei difetti. Eppure c'è lo stesso qualcuno a cui interesso: ne faccio tesoro e mi chiedo: "Che cosa avrò sbagliato?"

#9 corey

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Inviato 12 maggio 2009 - 08:39

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Dopo una rapina a Milano, Abel Davos, condannato in contumacia, rientra clandestinamente in Francia con la famiglia. Perde la moglie e a Parigi i vecchi amici l'abbandonano, tranne uno, Stark, in casa del quale si rifugia, ma la polizia lo bracca finché, dopo altri delitti, è catturato, condannato e giustiziato. Da un romanzo (1958) di José Giovanni che collabora alla sceneggiatura con il regista, il 1° vero film di Sautet. Ventura e Belmondo per la prima volta in coppia.

Asfalto che scotta (Classe tous risques, Francia/Italia 1960)

Un film di Claude Sautet. Con Jean-Paul Belmondo, Sandra Milo, Lino Ventura

Recuperato su IRIS, dopo che se n'era parlato nel thread "Film noir" (il solito corey, se non erro). Polar che si divide fra l'ambientazione urbana (si veda l'inizio) e uno sviluppo più claustrofobico, durante il quale il protagonista è costretto a nascondersi. Forse la parte centrale dura troppo e rischia di apparire lento, ma serve a rendere l'idea dell'abitudine alla macchia, all'invisibilità. L'avvicinarsi alla fine è l'avvicinarsi della morte. Un film teso, dove Sautet riflette sulla solitudine e sulla fine delle vecchie amicizie, in maniera secca e amara. Monumentale Lino Ventura (e a fine decennio lo sarà ancor di più nell'armata delle ombre di Melville), bravo il giovane Belmondo. Da riscoprire.


Pregevole recensione. Giusto un paio di tignose osservazioni: Eric Stark non è amico di Davos, ma del suo socio Raymond Naldi, morto nello scontro a fuoco con le guardie (perciò Eric si presta coraggiosamente all'incarico di Fargier di andare a recuperare Abel). Il giovane Stark non ha mai visto Davos prima di incontrarlo nell'ufficio postale di Nizza e questo è un elemento assai importante nella trama: Abel si inferocisce proprio perché i suoi vecchi amici hanno mandato uno sconosciuto anziché rischiare ed esporsi in prima persona. Il latitante considera la vigliaccheria degli amici parigini un vero e proprio tradimento.

L'altro disaccordo riguarda la parte centrale, che a tuo avviso "rischia di apparire lenta". Personalmente trovo che l'approccio fenomenologico di Sautet, teso a privilegiare la nuda successione degli eventi con ellissi misuratissime, sia l'autentico punto di forza del film: è proprio grazie allo stile semidocumentaristico (che lascia spazio ai cosiddetti "tempi morti") che il film riesce a ritagliarsi un'autonomia stilistica rispetto alle convenzioni prettamente funzionali del genere. Ed è proprio grazie a questo stile asciutto e dilatato al tempo stesso che il film di Sautet si apparenta al cinema di Melville.
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#10 corey

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Inviato 12 maggio 2009 - 08:57

Il coltello sotto la gola (Le couteau sous la gorge 1955) di Jacques Séverac con Jean Servais, Jean Chevrier, Madeleine Robinson, Michèle Cordou

Marsiglia. Al chirurgo Hourtin (Jean Servais) rapiscono il figlioletto. E' stato il Cinese, bandito appena espulso dalla gang del Maltese (Jean Chevrier) per aver macchiato di sangue una rapina in banca. Per recuperare il figlio senza coinvolgere la polizia (condizione posta dal rapitore per restituire il bambino incolume), Hourtin si rivolge proprio al Maltese, a cui tempo prima aveva salvato la vita estraendo un proiettile dalla pancia (in un'operazione clandestina a cui il chirurgo si era prestato tanto malvolentieri quanto disinteressatamente).

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Insipido polar non troppo distante per atmosfere (ambientazione urbana) e protagonista (Servais) da Rififi, uscito nello stesso anno. Ma Jacques Séverac non è certo Jules Dassin e la messa in scena tradisce una staticità e una macchinosità irriscattabili da qualsiasi miracolo cinematografico. La sceneggiatura tratteggia i gangster come una confraternita di benefattori che non esitano a punire la testa calda (il Cinese), cacciandolo dalla banda e devolvendo la sua parte di bottino alla famiglia della donna che costui ha così crudelmente ucciso. Il capobanda poi si fa in quattro (e si becca un altro po' di piombo in corpo) per mostrarsi riconoscente col chirurgo, risultare degno agli occhi della propria donna e liberare il bimbo rapito con sprezzo del pericolo. Persino la polizia, sornionamente rappresentata dal vecchio commissario Lussac (Yves Deniaud), chiude un occhio affinché i buoni sentimenti trionfino indisturbati. Il coltello sotto la gola ovvero il pernicioso imborghesimento del genere. Unico particolare degno di nota: l'ambientazione a Marsiglia (pare sia uno dei primi polar ambientati nella capitale del Midi), che qua e là fa capolino portuale senza determinare un fico secco.
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#11 William Blake

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Inviato 13 maggio 2009 - 00:35


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Dopo una rapina a Milano, Abel Davos, condannato in contumacia, rientra clandestinamente in Francia con la famiglia. Perde la moglie e a Parigi i vecchi amici l'abbandonano, tranne uno, Stark, in casa del quale si rifugia, ma la polizia lo bracca finché, dopo altri delitti, è catturato, condannato e giustiziato. Da un romanzo (1958) di José Giovanni che collabora alla sceneggiatura con il regista, il 1° vero film di Sautet. Ventura e Belmondo per la prima volta in coppia.

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Un film di Claude Sautet. Con Jean-Paul Belmondo, Sandra Milo, Lino Ventura

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Pregevole recensione. Giusto un paio di tignose osservazioni: Eric Stark non è amico di Davos, ma del suo socio Raymond Naldi, morto nello scontro a fuoco con le guardie (perciò Eric si presta coraggiosamente all'incarico di Fargier di andare a recuperare Abel). Il giovane Stark non ha mai visto Davos prima di incontrarlo nell'ufficio postale di Nizza e questo è un elemento assai importante nella trama: Abel si inferocisce proprio perché i suoi vecchi amici hanno mandato uno sconosciuto anziché rischiare ed esporsi in prima persona. Il latitante considera la vigliaccheria degli amici parigini un vero e proprio tradimento.


memorandum: mai fare copia/incolla da mymovies asd

Ed è proprio grazie a questo stile asciutto e dilatato al tempo stesso che il film di Sautet si apparenta al cinema di Melville.


vero, anche se avrei detto che questa parentela sia più sotto il profilo ideologico, sebbene una sudditanza di questo genere fosse probabilmente inevitabile ::)
a posteriori posso dire di aver apprezzato la tipologia di narrazione da te sottolineata, che si sviluppa come una stringente spirale che risucchia il protagonista; la lentezza è appunto un rischio apparente, per una scelta stilistica pensata.
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#12 corey

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Inviato 13 maggio 2009 - 10:52

E' del 1956 il primo polar "destrutturante" della storia del genere. L'autore, manco a dirlo, è un certo Jean-Pierre Melville. Signori: la Nouvelle Vague "avant la lettre".

Bob le flambeur (1956) di Jean-Pierre Melville con Roger Duchesne, Daniel Cauchy, Isabelle Corey, André Garet, Guy Decomble

Soprannominato "le flambeur" (il dilapidatore) a causa della rovinosa passione per il gioco d'azzardo, il navigato truand Bob (Roger Duchesne) organizza un colpo al casinò di Deauville insieme all'amico Roger (André Garet) e al giovane Paulo (Daniel Cauchy), che lo considera come un modello da emulare in tutto e per tutto. A mettere i bastoni tra le ruote a Bob e soci saranno la scapestrata Anne (Isabelle Corey) e il bonario commissario Ledru (Guy Decomble), nonché la sorte.

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Finalmente, nel 1956, dopo i primi adattamenti di celebri opere letterarie ("Le silence de la mer", 1947, e "Les enfants terribles", 1949), Melville gira il suo primo polar (o meglio una commedia di costume travestita da polar): "Bob le flambeur". Scoraggiato dalla visione di "Giungla d??asfalto" di John Huston, Melville rinuncia al proposito originale di comporre un quadro autentico del milieu e rimaneggia la sceneggiatura scritta nel 1950 in modo tale da ottenere un film allegro e volutamente anacronistico (il milieu è sì ritratto, ma con i ricordi del 1935), che sdrammatizza i toni hustoniani (la vanità degli sforzi) stemperandoli con l??amicizia e col gioco come attività fine a se stessa.

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Figura già leggendaria di un passato recente, Bob (interpretato dall??attore-truand Roger Duchesne) vive nel suo habitat naturale tra Montmartre e Pigalle, spazio che gli garantisce protezione, rispetto e incolumità, a tal punto che viene invitato a salire su una macchina della polizia e accompagnato davanti a un locale dal commissario Ledru (Guy Decomble). Al tempo stesso ??cielo e inferno?, Montmartre-Pigalle è rappresentata con assoluta scioltezza visiva da Melville, che riprende la "flânerie" aurorale di Bob come se questi fosse un pesce nel suo acquario. Coadiuvato nell??adattamento - soprattutto nei dialoghi - da Auguste Le Breton, autore di quel "Du rififi chez les hommes" che nel 1953 ha conteso il primato delle vendite al bestseller in assoluto della Série Noire "Touchez pas au grisbi" di Albert Simonin (dello stesso 1953), Melville è piuttosto soddisfatto del risultato, fatta eccezione per l??abuso dell??argot fatto da Le Breton, che trovava volgare ed eccessivamente soggetto ad invecchiamento (come affermerà anni dopo).

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Melville è stato definito ??il più americano dei registi francesi?, ma la definizione più esatta l??ha data Gilles Jacob, il deus ex machina del festival di Cannes, nel 1966: ??le plus français des metteurs en scène americains et le plus americain des metteurs en scène français?. Per misurare la distanza al tempo stesso abissale e infinitesimale che lo collega al (e al tempo lo separa dal) cinema americano conviene considerare l??incipit del film che ha fatto tornare Melville sui suoi passi: "Giungla d??asfalto" (1950) di John Huston. Se il film di Melville rappresenta Parigi come un cerchio incantato che protegge e abbraccia Bob, Huston stabilisce fin dall??inizio un rapporto di ostilità tra la città (una città imprecisata del mid-west, anche se gli esterni sono stati girati a Los Angeles) e il suo protagonista. Costretto a muoversi in ampie distese e strade deserte, Dix (Sterling Hayden) si sposta furtivamente negli spazi metropolitani, nascondendosi dal pattugliamento della polizia. Neanche il rifugio offerto dal diner gestito dall??amico Giulio (James Whitmore) lo mette al riparo: i poliziotti vi fanno irruzione e lo prelevano per portarlo in centrale.

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Se Bob è circondato amorevolmente Parigi, Dix è accerchiato minacciosamente dalla metropoli: la simbiosi si incrudelisce in rigetto. Anche i tempi del racconto non potrebbero essere più differenti: Melville si attarda nella descrizione dei luoghi frequentati da Bob (del resto, come afferma lo stesso Melville, ??Bob è un figlio di Parigi?) e impiega 44 minuti prima di entrare nel vivo dell??azione (il colpo al casinò di Deauville), mentre "The Asphalt Jungle", in pura ottica noir americana, è molto più spiccio ed economico, concedendo alla rappresentazione della città lo stretto necessario e procedendo con un fraseggio narrativo molto più serrato (sequenze di pochi minuti, incalzare dell??azione). Melville sembra insomma inverare la massima di Godard secondo cui: ??I francesi non raccontano storie, fanno qualcos??altro?.

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Siamo alle soglie della Nouvelle Vague (ad un anno dal primo lungometraggio di Chabrol, a due da quello di Truffaut e a tre da quello di Godard) e sappiamo quanto la "flânerie" rappresenti un vero e proprio caposaldo del cinema degli ex giovani turchi. La vicinanza tra Melville e Godard, vera e propria amicizia fraterna alla fine degli anni ??50 e nei primi ??60 (finché nel 1963 Godard rimprovererà a Melville di avergli rubato il finale di "Fino all??ultimo respiro"), trova espressione cinematografica attraverso un colloquio incrociato nei film dei due cineasti. Se Jean-Pierre omaggia Jean-Luc in "Deux hommes dans Manhattan" (1959) inquadrando le sigarette BOYARDS fumate dall??amico, Godard restituisce il favore in "A bout de souffle", regalandogli uno splendido cameo nella parte dello scrittore Parvulesco.

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Torniamo all??incipit di "Bob": il vagabondare per le strade parigine, pur molto distante dalla stringatezza hustoniana, ha un significato molto meno esistenziale di quello che avrà per Godard e compagni. Qui girovagare per Place Pigalle si configura al tempo stesso come libero e spensierato passeggiare in uno spazio amico, ma anche come non poter fuoriuscire impunemente dal perimetro familiare: per Bob lasciare Parigi significa andare incontro ai guai. In questo senso, per Bob Parigi è spazio tanto vitale quanto concentrazionario: una prigione dorata. L??archetipo di una concezione dello spazio che difende e imprigiona al tempo stesso lo troviamo in quello che secondo Gervasini è il film che ??inaugura il filone del gangster movie alla francese? (quindi sarebbe il primo polar della storia): "Pépé le Moko" ("Il bandito della Casbah", 1937) di Julien Duvivier, girato tra Algeri, Marsiglia e gli studi di Joinville non lontani da Parigi. Anche nel film di Duvivier il truand di mezza età Pépé (Jean Gabin) è protetto e segregato da uno spazio leggendario: la Casbah di Algeri. Introducendo lo spazio con una panoramica orizzontale e alternando scorci di Algeri con riprese fatte nei teatri di posa di Joinville, Duvivier restituisce il caotico brulichio della Casbah, al tempo stesso stabilendo un parallelo con Montmartre. Nell'incipit un ispettore di polizia dice: ??Non siamo qui a Place Pigalle, siamo ad Algeri?, alludendo così al fatto che Place Pigalle è il rifugio della malavita parigina. Le due sequenze ??rimano? non solo per modalità di messa in scena (panoramica orizzontale + discesa agli inferi), ma anche per le caratteristiche associate ai due luoghi: perdizione, frenetica vivacità e vizio.

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Ma al di là del parallelismo Montmartre-Casbah, c??è un altro film che l??incipit di "Bob le flambeur" evoca in forma senz??altro più consapevole: "Touchez pas au grisbi" (1954) di Jacques Becker. L??incipit è emblematico: una panoramica orizzontale sui tetti di Parigi che svela lentamente il profilo urbanistico della Ville Lumière, correggendo leggermente la traiettoria per inquadrare meglio il Sacré Coeur (in gergo tecnico questo aggiustamento si chiama "récadrage" o "reframing") e fermandosi sulle strade di Pigalle dove brilla l??insegna luminosa del Moulin Rouge. Ma Becker, ligio al precetto della funzionalità più essenziale, stacca subito sul volto ben illuminato di Gabin all??interno del bistrot di madame Bouche, il suo quartier generale. La relazione tra Parigi e Max è come se fosse un dato scontato, non bisognoso di dettagli superflui: cinematograficamente è ottenuta per giustapposizione. Quella di Bob e Montmartre, al contrario, è ottenuta per immersione, in uno splendido scialo di tempi morti.

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Melville giunge persino a subordinare la logica narrativa a quella ambientale, preferendo attardarsi nella descrizione e tirare via alcuni passaggi tramici importanti, quale quello che motiva l??amicizia tra il commissario Ledru e Bob, ridotto a una semplice battuta di dialogo in cui l??ispettore racconta ai suoi colleghi come anni prima Bob abbia deviato un colpo di pistola esploso da un bandito e indirizzato a lui. Quanto questo trattamento sia incompatibile con la logica narrativa "mainstream" ce lo mostra il remake del 2002 di Neil Jordan, che inizia preoccupandosi di saturare questa lacuna del racconto. In un tripudio di "freeze frame" e "step-framing" Jordan non solo mostra l??antefatto che nel film di Melville era relegato al semplice accenno, ma illustra dettagliatamente le ragioni che hanno spinto Bob a deviare il colpo di pistola del giovane spacciatore algerino: lo ha fatto per evitargli una condanna eccessivamente dura e per non farlo espellere dalla Francia. Evidentemente l??ambiguità melvilliana (nell??originale il commissario Ledru dice che non ha mai saputo con precisione perché Bob ha deviato il colpo) dà ancora filo da torcere al cinema contemporaneo.

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Inutile aggiungere, infine, che "Bob le flambeur" rappresenterà un modello di riferimento per gli imminenti esordi dei cineasti della Nouvelle Vague, proprio come "Le silence de la mer" (1947), che tuttavia non ha soltanto spianato la strada ad una prassi produttiva ultraeconomica e disubbidiente alle regole ufficiali, ma ha anticipato quel "cinema della soggettività" che si affermerà negli anni '50 e '60, un cinema fatto tutto di verità interiore in cui la macchina da presa diventa un mezzo di scrittura flessibile e sottile al pari del linguaggio scritto. Se "Bob le flambeur" ha indicato alla Nouvelle Vague nascitura la direzione da seguire, "Le silence de la mer" ha letteralmente spalancato nuovi orizzonti all'espressione cinematografica tutta. Melville è il cinema.
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i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#13 corey

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Inviato 14 maggio 2009 - 07:19

L'unico punto della disamina che non mi trova concorde è il giudizio un po' troppo severo, su "I diabolici", ma per questa volta, passi.  ;D


Per rincarare la dose (;D), ecco la tignosissima recensione del film di Clouzot che ho scritto qualche anno fa per "dvd cult".

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Crudeltà. Persecuzione. Annientamento. Questo l??universo morale dipinto da Clouzot. A tinte fosche, tragicamente, perché ??un quadro è immancabilmente morale quando è tragico e quando riflette l??orrore delle cose che rappresenta?, come recita la lapidaria citazione in apertura di film. Nessuna parentesi rassicurante, nessuna pausa distensiva, nessuna vera tregua. Neanche quando la progressione drammatica sembra cedere il passo a soste ricreative: è umorismo che gronda malvagità, riso che si contrae in rictus, quello de I diabolici. Non diversamente va per i personaggi. Nel jeu de massacre triangolare messo in scena da Clouzot, i protagonisti sono divorati da sentimenti inconfessabili: avidità, gelosia e perfidia sono le scintille che infiammano i loro cuori, precipitandoli nell??abisso della colpa. E tutt??intorno un coro di personaggi minori abbrutiti dal cinismo, rosi dall??invidia, consumati dall??opportunismo. Perfino i bambini, piccoli mostri già esperti nell??arte della prevaricazione, gracchiano e malignano incessantemente, ostentando una ricchezza arrogante, proiezione di futuro potere. Un mondo senza scampo, nerissimo.

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Eppure, per essere realmente disturbante, I diabolici difetta di un ingrediente essenziale: la potenza visiva. Soprattutto quando, come in questo caso, la materia narrativa giunge da un testo letterario, la forza della pellicola dovrebbe scaturire dalla violenza affilata dello sguardo, dalla durezza tagliente dell??occhio. Invece Clouzot, oscillando tra l??Hitchcock di Rebecca e il Cukor di Angoscia (due modelli ultraclassici), si rifugia in uno stile palesemente convenzionale, costellato sì di riflessi e segnali sinistri, ma in fondo privo di autentica visionarietà. L??ambientazione claustrofobica e l??illuminazione contrastata, peraltro ineccepibili, non bastano a fare del collegio un campo di tensioni mentali e fratture scardinanti: l??angustia spaziale non evolve in angoscia e la suspense non sfugge all??impressione di artificio. Restano le prove maiuscole degli interpreti (la Signoret su tutti, ovviamente), una manciata di sequenze di buon artigianato, quasi tutte immerse nell??acqua, e una sobrietà esemplare nell??uso delle sottolineature musicali. Ma i modelli rimangono lontani, molto lontani. Diabolicamente.

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#14 Dudley

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Inviato 14 maggio 2009 - 08:54

Bene ragazzi, avanti così, che io intanto prendo nota di tutti questi bei titoli!  :)
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#15 bluetrain

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Inviato 14 maggio 2009 - 09:19


L'unico punto della disamina che non mi trova concorde è il giudizio un po' troppo severo, su "I diabolici", ma per questa volta, passi.  ;D


Per rincarare la dose (;D), ecco la tignosissima recensione del film di Clouzot che ho scritto qualche anno fa per "dvd cult".


Sei perfido, ma ti sei fatto perdonare ante con Bob le flambeur (tra l'altro: esiste doppiato in italiano? Io ne ho una copia in francese con i sottotitoli in inglese, che, per carità, va benissimo e forse va fin meglio, visto che è in lingua originale, ma mi piacerebbe vederlo in italiano per concentrarmi maggiormente sulle inquadrature ed i particolari.

Bene ragazzi, avanti così, che io intanto prendo nota di tutti questi bei titoli!


Prendi nota, che sono tutti film pazzeschi, compreso I diabolici  ;D (l'unico che non ho visto è Il coltello sotto la gola, ma a sentire Corey non dev'essere indimenticabile)!
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#16 corey

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Inviato 14 maggio 2009 - 09:58

Di Bob le flambeur in teoria dovrebbe circolare qualche vhs registrata negli anni Ottanta, quando Claudio G. Fava organizzò per la RAI un ampio ciclo su Melville (nove film su tredici). In quel frangente Fava fece comprare e doppiare dalla RAI i primi tre inediti (Le silence de la mer, Les enfants terribles e Bob le flambeur giustappunto), mai entrati nel circuito delle sale italiane prima di allora. Ma tutto ciò solo in teoria, poiché l'unica versione che sono riuscito a reperire è quella criterion, coi sottotitoli in inglese. Tra l'altro anche a Torino, in occasione della retrospettiva sul patron di Rue Jenner, la copia proiettata è stata quella originale.

Quanto a Il coltello sotto la gola, fatta eccezione per l'inedita ambientazione marsigliese, si tratta di un film assolutamente trascurabile. Mi domando perché la HOBBY AND WORK, a cui sono comunque grato per la pubblicazione della collana dedicata ai noir francesi, abbia deciso di editare una pellicola così insulsa anziché titoli altrettanto misconosciuti ma di gran lunga più interessanti (tipo Le mura di Malapaga, 1949, di René Clément, Vagone letto per assassini, 1965, di Costa-Gavras o Una vampata di violenza, 1966, di Robert Enrico).

Dal momento che sto procedendo in ordine cronologico e sono arrivato al 1956, ripropongo la recensione del potabile Sangue alla testa del parigino Gilles Grangier.

Sangue alla testa (Le sang à la tête, 1956) di Gilles Grangier, con Jean Gabin, Monique Mélinand, Paul Frankeur, Claude Sylvain, Georgette Anys.

Proprietario della maggiore compagnia di pescherecci del porto di La Rochelle, Francesco Cardinaud (Jean Gabin) è un uomo di umili origini che si è fatto strada con intraprendenza e tenacia e per questo è invidiato e detestato da chiunque. Quando sua moglie Marthe (Monique Mélinand) lo tradisce col debosciato Mimile (José Quaglio), vecchia fiamma appena ritornata dal Gabon, la comunità tutta esulta malignamente, vedendo nella scappatella della moglie un duro colpo al prestigio del coriaceo Cardinaud. Francesco inizia così una ricerca instancabile, dapprima ignaro dell'accaduto ma rendendosi gradualmente conto, complici i pettegolezzi e le frecciatine di cui è oggetto, di essere un cornuto patentato. Scortato nelle perlustrazioni dal rissoso amico Drouin (Paul Frankeur), proprietario di una nave da trasporto col dente avvelenato nei confronti di Mimile, scova finalmente i due amanti clandestini sull'île de Ré (situata di fronte a La Rochelle), ma l'epilogo è assai diverso del previsto...

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Tratto dal romanzo di Georges Simenon Le Fils Cardinaud e adattato dal regista Gilles Grangier insieme al mostro sacro Michel Audiard (anche autore dei dialoghi), Sangue alla testa a ben vedere non è un vero e proprio noir, quanto piuttosto un singolare ibrido tra mélo e detective story senza tuttavia seguire fino in fondo la logica né dell'uno né dell'altra. In realtà - e trattandosi di un adattamento da Simenon non potrebbe essere altrimenti - gli autentici centri d'interesse del film sono altri due: le psicologie e l'ambiente sociale.

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Le personalità dei vari personaggi sono delineate con sottigliezza e incisività, grazie a caratterizzazioni sicure dal punto di vista sentimentale (la moglie di Cardinaud si sente un'estranea a casa sua e vede nella scappatella con Mimil un vitale ritorno alla giovinezza) e sapientemente sfumate nei dialoghi ricchi di sottintesi e arguzia (all'istitutrice dei figli che si fa maliziosamente avanti con Francesco approfittando dell'infedeltà della moglie, Francesco replica: "Vi pago per occuparvi dei miei figli, non per farmene uno"). Lo studio psicologico non si limita però alla definizione statica dei caratteri, lasciando spazio a elaborazioni e ripensamenti che vanno indovinate nei comportamenti e nelle espressioni (in questo Gabin è insuperabile: basta un'occhiata o un cipiglio per farci percepire la ruminazione interiore).

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L'altro fulcro drammatico del film è senz'altro la descrizione del microcosmo di La Rochelle, centro portuale sulla costa atlantica e inequivocabile emblema della realtà provinciale negli anni '50 (dove i contrasti tra le varie classi sociali sono ancora perfettamente leggibili). Cardinaud è il classico homo novus scaltro e implacabile negli affari, ma rigidamente obbediente ai riti borghesi e tollerato a stento dai membri di quella classe agiata che lo ritengono immancabilmente un parvenu. L'abbigliamento illustra perfettamente la sua doppia natura di cittadino ingessato e lavoratore inesorabile: appesantito da un cappotto con le spalle tondeggianti e da un cappello scuro troppo calcato quando indossa l'uniforme borghese, slanciato da un giaccone di pelle nera e da stivali alla coscia quando imperversa nel mercato del pesce.

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Ma se Sangue alla testa coinvolge e convince nei suoi aspetti psicologico-sociali, in quelli squisitamente cinematografici risulta piuttosto deludente e deficitario. La messa in scena del mestierante Gilles Grangier è piuttosto meccanica e un intrigo così carico di astio comunitario avrebbe certamente avuto bisogno di una mano più spregiudicata e feroce (Henri-Georges Clouzot sarebbe stato il regista ideale). Certo, Grangier si tiene alla larga da calligrafismi e prolissità, ciononostante il tentativo di disegnare il contesto ambientale di La Rochelle e dintorni è troppo episodico e intermittente per determinare un'interazione significativa tra spazio e racconto. Da segnalare comunque un uso discreto della profondità di campo (soprattutto negli interni) e qualche squarcio portuale sufficientemente esatto (l'assistente alla regia è Jacques Deray, futuro autore de La piscina, 1969, e Professione: poliziotto, 1983).

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#17 bluetrain

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Inviato 14 maggio 2009 - 10:25



Quanto a Il coltello sotto la gola, fatta eccezione per l'inedita ambientazione marsigliese, si tratta di un film assolutamente trascurabile. Mi domando perché la HOBBY AND WORK, a cui sono comunque grato per la pubblicazione della collana dedicata ai noir francesi, abbia deciso di editare una pellicola così insulsa anziché titoli altrettanto misconosciuti ma di gran lunga più interessanti (tipo Le mura di Malapaga, 1949, di René Clément, Vagone letto per assassini, 1965, di Costa-Gavras o Una vampata di violenza, 1966, di Robert Enrico).


Allora mi toccherà, visto che la sto collezionando, tramite edicola, e sono già oltre la metà (ho una ventina di titoli ad oggi). Davvero un'ottima inizaitiva, ne avevamo già parlato nel topic sul noir.
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#18 corey

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Inviato 18 maggio 2009 - 12:46

Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l'échafaud, 1957) di Louis Malle con Jeanne Moreau, Maurice Ronet, Georges Poujouly, Yori Bertin, Lino Ventura

Parigi, venerdì, ore 19. D'accordo con la sua amante Florence, Julien Tavernier, ex paracadutista reduce dalla guerra d'Indocina attualmente impiegato nella compagnia del potentissimo Carala, uccide il datore di lavoro (nonché marito di Florence) inscenando un suicidio dello stesso. Il piano è perfettamente congegnato, ma una sciocca disattenzione (una corda dimenticata sul parapetto dell'ufficio di Carala) costringe Tavernier a tornare all'interno dell'edificio mentre il portiere sta per disattivare la corrente e chiudere il palazzo. Tavernier resta bloccato nell'ascensore, Florence lo attende invano al solito caffè...

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Struggente meditazione sul binomio "Amore e Destino" in chiave noir, "Ascensore per il patibolo" è il primo lungometraggio di Louis Malle, giovane operatore (classe 1932) specializzato in riprese subacquee per Jacques Costeau (col quale ha realizzato l'anno prima il blasonato "Le monde du silence"). Tratto da un romanzo dozzinale di Noël Calef, "Ascenseur pour l'échafaud", con la sua risaputa miscela di amore, morte e suspense, potrebbe addirittura sembrare un polar convenzionale, tanto la progressione drammatica è serrata e incalzante. Tra struggimenti mélo e messinscene suicide, il canovaccio narrativo altro non è difatti che l'ennesima variazione sul tema dell'amore impossibile tra due amanti ostacolati dal fato.

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Ma è proprio la feroce implacabilità della separazione, magnificata cinematograficamente da Malle con un incipit telefonico visivamente vertiginoso, a offrire all'esordiente cineasta l'occasione di piegare il genere verso profondità indimenticabili. Dopo la telefonata iniziale, Florence e Julien (Jeanne Moreau e Maurice Ronet, entrambi in stato di grazia) sono destinati a non comunicare, non condividere gli stessi spazi e non incontrarsi mai, pur essendo accomunati dal medesimo destino.

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Paradossalmente questa crudele segregazione "apre" il film alla deriva stilistica: mentre Julien è irrimediabilmente imprigionato nell'ascensore, Florence lo cerca disperatamente per tutta Parigi indovinandolo ovunque ma non trovandolo mai. Malle - ed è questa la trovata più esaltante della pellicola - filma i due spazi antitetici come se fossero luoghi analoghi: la buia cabina dell'ascensore diventa un territorio da smantellare e interrogare come se fosse una scatola cinese, mentre la sfavillante oscurità della Ville Lumière si tramuta inesorabilmente in un contenitore vuoto, privo della sola presenza agognata da Florence. Desiderio e angoscia impregnano indifferentemente i due spazi, facendo dell'uno la cassa di risonanza dell'altro.

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Giustamente il film è diventato celebre per le spaesate camminate notturne di Jeanne Moreau nelle strade di Parigi, passeggiate rese ancora più lancinanti e astratte dagli assolo della tromba di Miles Davis (inutile ricordare che le musiche sono il frutto di una sola notte di registrazione, durante la quale il trombettista, accompagnato da un sax, un piano, un contrabbasso e una batteria, ha improvvisato davanti alle immagini mute che passavano sullo schermo). Eppure senza la capacità "quasi bressoniana" mostrata da Louis Malle nel fare dell'ascensore uno spazio cinematograficamente produttivo il film non avrebbe lo stesso equilibrio compositivo.

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Sarebbe delittuoso, infine, non mettere in relazione il polar del 1957 di Malle con quello girato l'anno prima da Jean-Pierre Melville: "Bob le flambeur". Non soltanto entrambi anticipano e spianano la strada alle intemperanze stilistiche della nascitura Nouvelle Vague, ma i due film sono strettamente legati dalla presenza di Henri Decaë, che della Nouvelle Vague sarà il direttore della fotografia per eccellenza. Si può anzi tranquillamente affermare che "Ascensore per il patibolo" è il polar complementare a quello melvilliano, il suo controtipo negativo: se in "Bob le flambeur" Melville e Decaë immergevano Montmarte e Pigalle in un'aura crepuscolare dal sapore diffusamente nostalgico, in "Ascenseur pour l'échafaud" Malle e lo stesso Decaë anneriscono decisamente i toni, dando a Parigi un aspetto tenebroso e angosciosamente minaccioso. Così, se "Bob le flambeur" è il ritratto sorridente di una Parigi che abbraccia i suoi figli, "Ascensore per il patibolo" è il ghigno maledetto di una metropoli che si allea col Destino per separare gli amanti, ai quali non è concesso che un abbraccio fotografico gravido di conseguenze fatali. "Mais là nous sommes ensemble. Là, en quelque part, réunis".

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#19 bluetrain

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Inviato 18 maggio 2009 - 14:37

A commento, dico solo che la foto seguente (scattata ovviamente durante le sessions - rectius, la session - di Miles per la colonna sonora) è da circa 2 anni lo sfondo del mio cellulare.

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#20 corey

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Inviato 20 maggio 2009 - 07:30

Nonostante sia già presente nel forum un topic dedicato a Melville, trovo che Deux hommes dans Manhattan meriti di essere inserito qui essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché, pur non essendo un polar in senso stretto, è totalmente permeato di suggestioni noir (l'ambientazione newyorkese notturna, la ricerca di un uomo scomparso da parte di un giornalista e un fotografo che si comportano esattamente come detective privati) e in secondo luogo poiché a mio avviso rappresenta l'anello di congiunzione ideale tra noir americano (concentrato sull'azione e sulla tensione) e reinterpretazione francese del genere (maggiormente attenta alla descrizione dei caratteri e degli ambienti).

Inoltre è un film fondamentale anche dal punto di vista dei rapporti con la nascente Nouvelle Vague: non soltanto Godard assoldò il compositore Martial Solal per il suo primo film (Fino all'ultimo respiro, 1960) dopo aver apprezzato le sue sonorità jazz in Deux hommes dans Manhattan, ma in questo film Melville porta alle estreme conseguenze l'approccio caméra-stylo già adottato due anni prima per Bob le flambeur. Se in Bob Melville impiegava ben 44 minuti per entrare nel vivo dell'azione (il colpo al casinò di Deauville), in Deux hommes l'azione stessa (la ricerca del delegato francese dell'ONU) diventa un semplice pretesto per filmare liberamente la città. Il rapporto tra racconto e suggestione spaziale è rovesciato, insomma: la narrazione si mette al servizio della descrizione, sfilacciandosi in mille notazioni ambientali. Buona lettura.

Recensione già pubblicata su www.spietati.it (Speciale Jean-Pierre Melville)

Le jene del quarto potere (Deux hommes dans Manhattan, 1959, b/n) di Jean-Pierre Melville con Jean-Pierre Melville, Pierre Grasset, Jean Darcante, Jerry Mengo, Jean Lara

New York, ore 15.32 del 23 dicembre. All??assemblea generale dell??ONU non è presente il delegato francese Fèvre-Berthier. L??agenzia «France Presse» viene informata poco dopo: nessuno conosce il motivo della sua assenza e il redattore capo incarica Moreau ?? profondo conoscitore dei locali notturni della metropoli - di ritrovare il diplomatico. Per condurre la sua indagine notturna, Moreau pretende la collaborazione di Delmas, fotografo spregiudicato dal bicchiere facile. I due perlustrano Manhattan in lungo e in largo scoprendo che Fèvre-Berthier è morto per un attacco cardiaco nell??appartamento dell??amante, un??attrice del Mercury Theatre. Intenzionato a sfruttare la ghiotta occasione, Delmas inscena una morte peccaminosa e scatta fotografie scottanti con l??intenzione di venderle a peso d??oro a qualche quotidiano. Moreau disapprova e, insieme al direttore del suo giornale, lo costringe a consegnare il rullino incriminato. Ma Delmas rifila loro un rullino fasullo e, immortalate anche la moglie e la figlia del defunto, se la dà a gambe. Dopo averlo cercato lungamente, Moreau e la figlia di Fèvre-Berthier lo ritrovano all??alba, completamente sbronzo, nel suo bar preferito. Mandato al tappeto da Moreau con un solo pugno e guardato malinconicamente dalla bella ragazza, Delmas esce dal locale, estrae i rullini dalla tasca del cappotto e li getta in un tombino. Poi si allontana sullo sfondo, ridendo.

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Considerato a torto un film poco riuscito (e come al solito è Melville ad essere il critico più feroce di se stesso, ripudiando il film in nome di una salutare autoironia), Deux hommes dans Manhattan è al contrario un??opera fondamentale per comprendere il suo cinema. Il titolo originale (di quello italiano non mette conto parlare, tanto è indecente) è esemplare: gli uomini e lo spazio. E la notte, occorre aggiungere, la notte americana, la giungla d??asfalto newyorkese fredda e scura come non mai. Il film si apre alle 15.32 del 23 dicembre, ma il commento della voce narrante ci dice immediatamente che il pomeriggio è già alla fine e che si stanno  accendendo i lampioni: su New York regna la notte, l??oscurità è il suo elemento naturale, Manhattan il suo cuore di tenebra.

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Il ??grandioso edificio di vetro universalmente noto come Palazzo delle Nazioni Unite?, emblema delle attività ufficiali e punto di partenza dell??intera vicenda, è difatti rappresentato come un  corpo estraneo.

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Per descrivere la seduta dell??ONU da cui risulta assente il delegato francese Fèvre-Berthier (assenza che darà il via alla ricerca del giornalista Moreau e del fotoreporter Delmas), Melville ricorre infatti a inquadrature acquistate da una casa di cinegiornali.

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Il cineasta dà la colpa al direttore del servizio cinematografico dell??ONU, responsabile di avergli impedito di filmare una seduta vera e propria, ma è evidente come questa anomalia giochi a favore dell??impianto spaziale del film, rafforzando il senso di intrinseca illegalità di New York. Nel loro girovagare notturno alla ricerca di Fèvre-Berthier, Moreau e Delmas si addentrano infatti nelle viscere della metropoli esplorandone i luoghi della trasgressione. Alla parola d??ordine di ??Cherchez la femme!?, i due interpellano le varie donne frequentate dal diplomatico scomparso: prima Judith Nelson, attrice del Mercury Theatre, poi Virginia Graham, affascinante cantante di jazz, e infine la scontrosa spogliarellista Bessie Smith. Puntualmente liquidati da tutte ?? neanche nel bordello più cool della città riescono a sapere qualcosa ?? iniziano a rassegnarsi, quando la radio trasmette la notizia che Judith Nelson ha appena tentato il suicidio. I due si precipitano in ospedale, eludono la sorveglianza e le estorcono con la forza una confessione scottante: Fèvre-Berthier è a casa dell??attrice, morto. Le cose si complicano ulteriormente: ligio all??etica professionale e lacchè del capo, Moreau informa subito il direttore del giornale, mentre Delmas, fotoreporter spregiudicato e senza scrupoli, ne approfitta per inscenare una morte peccaminosa e realizzare un servizio fotografico scandalistico. Neutralizzato astutamente l??obbligo di consegnare il rullino al direttore di Moreau, Delmas riesce addirittura a terminare il reportage e a mettersi in fuga, dopo aver fotografato la vedova Fèvre-Berthier e la giovane figlia (che nel frattempo aveva pedinato i due giornalisti per tutta la notte). Moreau e la giovane Fèvre-Berthier si mettono quindi in cerca di Delmas, che ha un debole per i superalcolici, e riescono infine a trovarlo, all??alba, in un bar da lui frequentato abitualmente. Con un solo pugno Moreau lo manda al tappeto, mentre la giovane donna lo guarda intensamente. Fuori dal locale, solo, Delmas getta i rullini in un tombino e si mette in cammino, ridendo fragorosamente. Non è ozioso soffermarsi sulla ricchezza della trama, poiché al film è stata più volte rimproverata la debolezza dell??aneddoto e l??esilità della storia. Assurdamente. Deux hommes dans Manhattan presenta difatti un intreccio di grande complessità e imprevedibilità, agitando più di una questione morale e delineando ritratti umani più sfaccettati di quanto sembri. Ciò che invece difetta al film è la tensione drammatica; il che, a ben vedere, non è affatto un limite ma la conseguenza estetica dell??assunto: Manhattan è immersa in un??oscurità assoluta, statica, immanente.

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Non si danno variazioni di tono o d??intensità, tutto è inesorabilmente nero. Fin dall??inizio sappiamo che i vari passaggi non potranno che condurci ad una verità intrisa di morte: Manhattan è ontologicamente noir. Quello che conta è allora la fenomenologia di questa verità immanente, le molteplici manifestazioni di questo teatro di tenebra: dal palcoscenico del Mercury Theatre ai camerini delle spogliarelliste, dagli studi di registrazione Capitol alla fredda camera del Roosevelt Hospital. New York è un gigantesco obitorio, questo ci dice Melville fin dalle prime immagini del film, a Manhattan non vivono uomini, soltanto immagini: Manhattan è un luogo dell??immaginario.

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Ed è questo il motivo che porta Melville a rappresentare spesso Moreau/Delmas come  silhouette in controluce e le strade di New York come  labirinti pulsanti di luci artificiali.

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New York è il cinema noir e Deux hommes dans Manhattan ne è la glorificazione suprema. In questo senso è letteralmente assurdo rintracciare una componente documentaristica o descrittiva nel film: Deux hommes è puro distillato cinéphile, sono immagini di secondo, terzo, ennesimo grado quelle che lo sostanziano.

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Così l??appartamento di Judith Nelson è la ricostruzione di un interno di Giungla d??asfalto di John Huston (definito da Melville ??il più bel film del mondo?), così i vicoli, i marciapiedi e le piazze sono puro precipitato cinematografico e così, infine, la drastica limitazione dei movimenti di macchina deriva dalla visione di Un volto nella folla di Elia Kazan.

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Perfino il gesto finale di Delmas (un  Pierre Grasset splendidamente malandrino) possiede un inconfondibile sapore hustoniano: gettando nel tombino i rullini fotografici che potrebbero cambiare la sua vita professionale, Delmas proclama beffardamente l??assoluta vanità degli sforzi umani e, contemporaneamente, l??insensatezza del tutto di fronte alla bellezza dello  sguardo di una donna.

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Ancora una volta è questione d??immagine. Tremendamente sottostimato dalla critica, Deux hommes dans Manhattan è infine noto per essere l??unico film di Melville in cui il regista è anche attore: interpreta infatti il personaggio di Moreau, giornalista apparentemente integerrimo ma in realtà meschino leccapiedi del direttore. ? opinione comune, tanto per cambiare suffragata dallo stesso Melville, che la sua prova sia bolsa, monocorde, addirittura disastrosa. Non siamo d??accordo: a nostro avviso l??impaccio di Melville attore conferisce valore aggiunto alla sua interpretazione, arricchendo il personaggio di Moreau di un??untuosità e di una bassezza davvero ripugnanti. L??imbarazzo del Melville attore, insomma, si converte in ambiguità psicologica del personaggio, rendendo la figura di Moreau uno dei caratteri più viscidi e spregevoli della sua intera filmografia.

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#21 corey

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Inviato 21 maggio 2009 - 06:05

Maigret e il caso Saint Fiacre (Maigret et l'affaire Saint Fiacre, 1959) di Jean Delannoy con Jean Gabin, Michel Auclair, Valentine Tessier

Contattato dalla contessa del castello di Saint-Fiacre a causa di una lettera anonima che le preannuncia la morte imminente, il commissario Maigret si reca nel minuscolo villaggio della Bretagna per scongiurare il pericolo. Ma durante la funzione delle Ceneri, proprio come le era stato annunciato, la contessa, già debole di cuore, schiatta per arresto cardiaco. Maigret era in chiesa a pochi metri da lei quando la contessa è spirata, ma, nonostante le apparenze di una fatalità, il corpulento commissario è convinto trattarsi di assassinio. Qualcuno a conoscenza della fragilità cardiaca della contessa le deve aver procurato uno choc emotivo letale. Come è stato possibile? Chi è il colpevole?

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Premesso che detesto il Maigret cinematografico e le sue insinuanti sottigliezze psicologiche, questo film del 1959 girato con irreprensibile mestiere da Jean Delannoy e interpretato con altrettanta sicurezza da Gabin ha cercato di farmi cambiare idea, senza peraltro riuscirvi. Ben confezionato, ben recitato e ben fotografato, ma che piattezza vedere un film il cui unico interesse risiede in un'indagine tanto sorniona quanto infallibile (indagine che per giunta si risolve con deplorevole sbrigatività).

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#22 corey

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Inviato 28 maggio 2009 - 09:31

Leggero passo indietro per recuperare uno dei tre titoli fondamentali del genere:

La grande razzia (Razzia sur la Chnouf, 1955) di Henri Decoin con Jean Gabin, Marcel Dalio, Lino Ventura, Albert Rémy, Magali Noël

Richiamato dagli Stati Uniti per riorganizzare il traffico di droga a Parigi, Henri Ferré detto "Le Nantais" (Jean Gabin) è alle dipendenze del boss Liski (Marcel Dalio), che gli affida il bar "Le Troquet" come copertura e quartier generale. Lisette (Magali Noël), la cassiera del locale, si innamora presto di lui, mentre i due scagnozzi Roger le Catalan (Lino Ventura) e Bibi (Albert Rémy) si occupano di eseguire gli ordini di Liski spalleggiando Henri nella ristrutturazione della rete della droga. Ma "Le Nantais" sembra comportarsi in modo strano...

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Uscito nelle sale parigine il 7 aprile 1955, "La grande razzia" è il secondo dei tre polar fondativi del genere: difatti, assieme a "Grisbi" di Jacques Becker (uscito nel marzo del 1954) e a "Rififi" di Jules Dassin (uscito il 13 aprile 1955), "Razzia sur la chnouf" stabilisce il canone del noir alla francese: narrazione secca ma con particolare attenzione alle psicologie, rappresentazione realistica del sottobosco criminale e un certo gusto romantico per i rapporti umani che si traduce in notazioni minute (le bevande, il cibo, le piccole debolezze quotidiane) e in risvolti sentimentali di trattenuta tenerezza.

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Adattamento dell'omonimo romanzo di Auguste Le Breton (autore di spicco della "Série Noire" e presente nel film in una breve apparizione come biscazziere), "La grande razzia" è il primo polar in assoluto a confrontarsi direttamente col tema della droga (presentato come un autentico flagello nella didascalia iniziale) ed è il primo ruolo poliziesco di Gabin, che fino ad allora aveva vestito prevalentemente panni criminali o tragici (da "Pépé le Moko" di Duvivier al già citato "Grisbi", passando per i personaggi tormentati de "L'angelo del male" di Renoir o "Alba tragica" di Carné).

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Eppure, nonostante gli indubbi meriti fondativi, il film di Henri Decoin (un cineasta appartenente alla generazione dei registi francesi "di qualità") è nettamente inferiore sia al precedente "Grisbi" che all'immediatamente successivo "Rififi": se rispetto al polar di Becker evidenzia forti limiti drammatici ed evocativi (la narrazione si dispiega assai schematicamente e le atmosfere difettano di suggestività), rispetto alla pellicola di Dassin tradisce una scarsa originalità stilistica (le sequenze che si vorrebbero più espressive e scioccanti, come quelle dedicate agli effetti della droga, si risolvono in triviale sensazionalismo). Restano invece impresse nella memoria la rocciosa interpretazione gabininana e, soprattutto, la feroce brutalità del duo Ventura/Rémy, "truands" dai modi spicci e dal grilletto facile che non esitano un istante ad imbracciare revolver e mitra per ingaggiare sparatorie all'ultimo sangue con la polizia, anche quando ormai tutto è perduto.

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#23 corey

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Inviato 07 giugno 2009 - 10:13

Chi ha ucciso Bella Shermann? (La mort de Belle, 1961) di Edouard Molinaro con Jean Desailly, Alexandra Stewart, Monique Mélinand, Jacques Monod, Marc Cassot, Yves Robert

Bella Shermann, giovane e desiderabile studentessa americana che frequenta l'Università di Ginevra, viene assassinata nella dimora della famiglia che la ospita. Nell'abitazione dei coniugi Blanchon la notte dell'assassinio c'era soltanto Stéphane (Jean Desailly), professore di storia rimasto a casa per correggere i compiti dei suoi alunni e finire un lavoro al tornio. I sospetti ricadono immediatamente su di lui: ma è stato davvero il pacioso professore a uccidere la ragazza? E, soprattutto, Bella Shermann era quella ragazza candida e innocente che i coniugi Blanchon credevano?

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Dal romanzo del 1952 di Georges Simenon "La mort de Belle", Edouard Molinaro estrae un piccolo gioiello noir dai riflessi ossessivi e soffocanti, una perla nera avvolta nell'atmosfera opprimente della malignità borghese ginevrina dei primi anni '60. Classe 1928, Molinaro, divenuto successivamente celebre per le commedie con Louis de Funès e soprattutto per il film Il vizietto (1978), qui mostra di saper gestire con encomiabile padronanza spazi, tempi e dinamiche psicologiche di una vicenda dai toni sottilmente allucinatori. La parabola dell'uomo inoffensivo e ordinario che, messo con le spalle al muro da circostanze sfavorevoli, sprofonda in un incubo persecutorio ha un che di kafkiano ovviamente, ma Molinaro evita con cura le soluzioni visionarie o barocche, giocando invece sul lento ma inesorabile accumulo di elementi angoscianti e "civilmente" perturbanti.

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Sguardi sospettosi, insinuazioni velenose, diffidenza strisciante: intorno al placido professore di storia del Collegio di Ginevra si stringe la morsa dell'incriminazione collettiva, istigata dal perbenismo borghese e cementata dal più becero conformismo. Situazione già vista e rivista (basti pensare a Il corvo, 1943, di Henri-Georges Clouzot), ma che Molinaro, interpretando perfettamente lo spirito simenoniano, utilizza non tanto per creare una tensione fine a se stessa quanto per scardinare l'intimità dei personaggi principali: Bella (Alexandra Stewart) e specialmente Stéphane (Jean Desailly). Lungi dall'essere quella creatura candida e immacolata che i coniugi Blanchot credono, la giovane studentessa americana è una ragazza maliziosamente annoiata e già esperta nell'arte della seduzione e il quieto professore di storia un individuo insoddisfatto della propria vita incolore e schiacciato dalla personalità trasgressiva del padre (un libertino che ha dissipato i beni familiari per poi suicidarsi prima di diventare vecchio).

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Sono proprio le incrinature dei ritratti ufficiali a rendere questi due personaggi interessanti e profondamente umani. Inevitabile che la storia si premuri di stabilire una relazione tra loro: Bella era segretamente innamorata di Stéphane e lui capisce solo fuori tempo massimo quanto sia stato miope di fronte ai segnali lanciatigli dalla ragazza. L'intreccio criminale altro non è che il pretesto per lo scavo delle psicologie e lo studio d'ambiente: già, perché, pur concentrandosi sui risvolti psicoanalitici, Chi ha ucciso Bella Shermann? non rinuncia affatto alla descrizione del contesto circostante. Molinaro non tratteggia soltanto la giostra di rituali borghesi della comunità (le partite a bridge, le funzioni liturgiche, i convenevoli domestici), ma rappresenta anche la vita urbana nel suo concreto palpitare, dalle conversazioni in riva al lago alle frequentazioni dei locali notturni, passando per l'attività nel collegio e per la flânerie solitaria di Stéphane nella città vecchia.

http://webopac.csbno...e.php?id=418700

Ci sarebbero molti altri aspetti da mettere in evidenza a favore di questo noir ingiustamente misconosciuto - l'uso raffinatissimo della voce over, la distribuzione misurata dei flashback, le musiche gustosamente stranianti di Georges Delerue, la precisione dell'inscatolamento spaziale dei personaggi in casa Blanchon, la trattenutissima carica erotica che attraversa l'intero film, il valore "psichico" di un ubriacone incontrato casualmente da Stéphane nella sua estrema deriva notturna (una "quasi proiezione" della figura paterna), la tensione latente tra svizzeri e francesi - ma purtroppo numerosi meriti della pellicola sono penalizzati dal dvd edito dalla HOBBY & WORK, con la sola versione doppiata, dalla mediocre qualità visiva, dal quadro irrispettoso del formato originale (l'adattamento al format televisivo "mangia" i margini laterali dell'immagine) e funestato da incalcolabili lacune di fotogrammi che tempestano la pellicola, interrompendo spesso e volentieri dialoghi e dinamiche drammatiche. Dommage!
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#24 corey

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Inviato 10 giugno 2009 - 12:30

Il delitto Dupré (Les bonnes causes, 1963) di Christian-Jaque con Bourvil, Marina Vlady, Virna Lisi, Pierre Brasseur, Umberto Orsini

Paul Dupré, ricco cardiopatico di mezza età, muore a causa della somministrazione per endovena di un farmaco da iniettare via intramuscolare. Ad essere accusata è la sua giovane infermiera (ed amante) Gina Bianchi, ma la moglie Catherine non è affatto estranea al letale scambio di fiale...

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Adattamento del romanzo "Les bonnes causes" (1960) del giornalista e romanziere di successo Jean Laborde, "Il delitto Dupré" più che un polar vero e proprio è un noir giudiziario scandito da un ritmo spigliato e percorso da una vena paradossale che lo trascinano spesso e volentieri dalle parti della commedia. Assai distante dai più recenti "legal thriller" hollywoodiani, il film di Christian-Jaque (supremo rappresentante del "cinema di qualità") si destreggia assai abilmente tra tratteggio delle psicologie, definizione delle situazioni e riflessione sull'amministrazione della giustizia. Grazie ai brillantissimi dialoghi di Henri Jeanson (vecchia volpe dei copioni francesi), al bianco e nero smagliante di Armand Thirard (direttore della fotografia, tra gli altri, di Henri-Georges Clouzot) e ad interpretazioni sopraffine (Marina Vlady nei panni della manipolatrice Catherine Dupré, Pierre Brasseur nel ruolo del causidico avvocato Charles Cassidi e Bourvil nella parte del donchisciottesco giudice Albert Gaudet su tutti), "Il delitto Dupré" garantisce 112' di professionalità cinematografica a 24 carati.

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Tutto è assolutamente inappuntabile in questo giallo legale in prezioso cinemascope: l'equilibrio nel dosaggio delle informazioni (l'autentica dinamica del delitto viene rivelata con sorniona nonchalance), la miscela di subdolo cinismo e vanità professionale (la sensuale spregiudicatezza della signora Dupré stuzzica l'amorale istrionismo dell'avvocato Cassidi) e la fitta ragnatela di menzogne che avvolge la verità fino a farla scomparire del tutto (l'astuzia dialettica dell'avvocato riesce a deformare la realtà a suo uso e consumo). Se a tutto ciò aggiungiamo una regia cristallina che non rinuncia a concedersi pezzi di bravura in punti strategici (come l'incipit girato interamente in soggettiva), la descrizione del film risulta sufficientemente chiara: una pellicola argutamente scritta, impeccabilmente interpretata e abilmente diretta. In una parola, calligrafica. Unica perla nera: il personaggio di Bourvil, stringhe perennemente slacciate, reietta incarnazione della giustizia.
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#25 corey

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Inviato 11 giugno 2009 - 08:40

Colpo grosso al Casinò (Mélodie en sous-sol, 1963) di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon, Maurice Biraud, Viviane Romance, Carla Marlier

Appena uscito dal carcere, lo stagionato Charles (Jean Gabin) non perde tempo e, procuratasi la mappa del casinò di Cannes, recluta il giovane e fascinoso Francis (Alain Delon), un suo ex compagno di cella, e il di lui cognato Louis (Maurice Biraud), un meccanico al di sopra di ogni sospetto, per realizzare un colpo miliardario: svaligiare la casa da gioco al termine della stagione estiva (quando la cassaforte è bella satolla). Questi i ruoli del team: Francis dovrà disporre di assoluta libertà di movimento nei camerini della sala per gli spettacoli del casinò "Palm Beach", Louis dovrà soltanto guidare la Rolls Royce di Charles e quest'ultimo orchestrerà tempi e movimenti entrando in azione esclusivamente per prelevare le borse piene di contanti dalla cella blindata della sala da gioco.

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Primo polar di grande successo del regista armeno naturalizzato francese Henri Verneuil (il secondo sarà Il clan dei siciliani del 1969), Mélodie en sous-sol, titolo che significa "Melodia nel sottosuolo" inteso come sottobosco malavitoso, è un caper movie made in France modellato sull'esempio americano di Colpo grosso (Ocean's Eleven, 1960) di Lewis Milestone. Il principio è lo stesso: cast prestigioso (Gabin e Delon per la prima volta insieme), ambientazione di lusso (là Las Vegas, qui la Costa Azzurra) e confezione stilosa (morbide panoramiche, carrellate felpate, tagli ricercati delle inquadrature, spruzzate di jazz come commento musicale). A insaporire il copione (si tratta dell'adattamento del romanzo The Big Grab di John Trinian messo a punto dallo scrittore "Série Noire" Albert Simonin) ci pensano i sapidi dialoghi di Michel Audiard (padre di Jacques, regista di Regarde les hommes tomber e Sur mes lèvres), dialoghista di punta del cinema francese di qualità.

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Ma a differenza del modello americano, il cui unico scopo era quello di sedurre lo spettatore con l'edonismo delle interpretazioni e con una messa in scena extra lusso, il film di Verneuil punta maggiormente sul cesello delle psicologie (Charles è uno scafato truand con ambizioni borghesi desideroso di trasferirsi in Australia insieme alla fedele mogliettina, Francis un ladruncolo tanto volgarotto e tentennante quanto sfrontato e intraprendente, mentre Louis un buon diavolo preda di scrupoli morali a scoppio ritardato) e sulla rappresentazione particolareggiata del colpo (gli ultimi quaranta minuti di film sono occupati dalla descrizione quasi fenomenologica della rapina, con un modus operandi non troppo dissimile da quello adottato nel 1955 da Jules Dassin in Rififi). Ovviamente spiccano, nella lunghissima sequenza dell'hold up, le doti atletiche di Delon, felino ed elegante al punto giusto. Corona il tutto un finale limpidamente hustoniano, in cui la vanità degli sforzi conferisce all'impresa una sua gratuita grandiosità: senza ombra di dubbio la sequenza più tesa e incalzante del film.
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#26 corey

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Inviato 12 giugno 2009 - 08:45

Sciarada per quattro spie (Avec la peau des autres, 1966) di Jacques Deray con Lino Ventura, Jean Bouise, Marilù Tolo, Jean Servais

Pascal Fabre (Lino Ventura), un agente inviato a Vienna per controllare il sospetto operato del suo collega e vecchio amico Margeri (Jean Bouise), si trova invischiato in una lotta tra servizi segreti per il possesso di uno scottante microfilm (custodito nel bastone di Margeri, detto "lo zoppo"). Tra pedinamenti, rapimenti e ricatti vari, Fabre si vede costretto ad usare le maniere forti più di una volta per cercare di salvare la propria pelle e quella dell'amico, che nel frattempo è stato sequestrato dalle spie nemiche. 

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Sesto lungometraggio del cineasta francese Jacques Deray (1929-2003), "Sciarada per quattro spie" è un'ingarbugliatissima spy story che mette a dura prova le capacità raziocinanti anche dello spettatore più motivato. Adattamento del romanzo "Au pied de mur" del giornalista e scrittore Gilles Perrault (classe 1931), "Avec la peau des autres" (questo il titolo originale, alla lettera "Con la pelle degli altri") ricicla situazioni e ambientazioni provenienti da "Il terzo uomo" (1949) di Carol Reed, aggiornandole in chiave francese. A contare sono soprattutto le interpretazioni di Lino Ventura, Jean Servais (l'avvocato Wegelt) e Jean Bouise: facce da polar che danno alla vicenda toni duri e malinconici, quando non apertamente tragici.

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Ma al di là di una vicenda contorta all'inverosimile, in cui i personaggi stessi sono obbligati a fare spesso il punto della situazione aiutandosi addirittura con schemi disegnati, e di una galleria di facce da polar d'annata, "Sciarada per quattro spie" sfrutta decorosamente il set viennese, cogliendo ogni occasione per mostrare la capitale austriaca alla luce del giorno, in esterni notturni o nelle gallerie scarsamente illuminate. E se la pazienza dello spettatore non è travolta dai vertiginosi retroscena o dalla caterva di sorprese, è possibile gustarsi alcune sequenza girate con indubbio senso dello spazio (magari un po' compiaciuto ed estetizzante). Deray sa dove piazzare la macchina da presa e come giocare con le visuali offerte dal set, mantenendosi sempre a debita distanza dal cuore dell'azione e lasciando al montaggio il compito di assicurare la spettacolarità delle sequenze.

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Ovviamente tutto il film, Servais e Bouais permettendo, riposa sulle larghe spalle del granitico Lino Ventura che, fresco della collaborazione con Jean-Pierre Melville in "Le deuxième souffle", qui è in gita premio: tra camminate perentorie sui marciapiedi viennesi e sguardi carichi di sospettosa severità, l'attore italo-francese (nato a Parma nel 1919) dà libero sfogo a tutte le sue doti attoriali, ora inchiodando i suoi occhi inquisitori sul volto del malcapitato di turno, ora producendosi in vigorosi corpo a corpo in cui mettere a frutto il suo passato di lottatore, senza peraltro disdegnare calibrati colpi di pistola equamente distribuiti tra agenti avversari, smidollati traditori e collaboratori caduti nelle grinfie del nemico. Tutto sommato un film guardabile, possibilmente con blocco degli appunti a portata di mano per riordinare la trama.

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#27 bluetrain

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Inviato 15 giugno 2009 - 13:11

Il delitto Dupré (Les bonnes causes, 1963) di Christian-Jaque con Bourvil, Marina Vlady, Virna Lisi, Pierre Brasseur, Umberto Orsini


Ieri sera stavo guadando Il delitto Dupré, quando - a circa 20 minuti dalla fine della pellicola - mi sono tragicamente reso conto che il dvd (originale, porca di quella...) è difettoso e si inchioda irreversibilmente in quel determinato punto.
Sicchè, il finale non mi resta che immaginarlo, per il momento.
Cercando di mantenere un certo aplomb, diciamo pure che è una sitauzione leggermente seccante.
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#28 corey

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Inviato 15 giugno 2009 - 16:33

A me è successa la stessa cosa con il dvd di Chi ha ucciso Bella Shermann?. La rogna fa vorticare abbastanza i testicoli, ma è sufficiente che tu rispedisca il dvd difettoso alla hobby & work descrivendo brevemente i problemi riscontrati e loro ti mandano un altro disco in sostituzione. Le edizioni sono abbastanza scacione (ad esempio il disco de Il delitto Dupré, pur vantando una qualità visiva eccellente, ha solo la versione doppiata, chelipossino!), ma il servizio clienti funge.
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#29 bluetrain

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Inviato 16 giugno 2009 - 23:42

Nel frattempo, nell'attesa di avere la copia sostitutiva, mi sono mulescamente procurato la versione in lingua originale e mi son visto la parte mancante (fortunatamente col francese me la cavo piuttosto bene). Non tutti i mali vengono per nuocere, l'avvocato Cassidi in lingua originale, è davvero su un altro pianeta. Bel film comunque, girato con tecnica a tratti sopraffina.

Edit: Corey, è da un po' che me lo chiedo, di chi è la frase che riporti in firma (mi piace assai)?
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#30 corey

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Inviato 17 giugno 2009 - 00:09

Nel frattempo, nell'attesa di avere la copia sostitutiva, mi sono mulescamente procurato la versione in lingua originale e mi son visto la parte mancante (fortunatamente col francese me la cavo piuttosto bene). Non tutti i mali vengono per nuocere, l'avvocato Cassidi in lingua originale, è davvero su un altro pianeta. Bel film comunque, girato con tecnica a tratti sopraffina.

Edit: Corey, è da un po' che me lo chiedo, di chi è la frase che riporti in firma (mi piace assai)?


Sì, in effetti si tratta di un film molto gradevole, con dialoghi arguti e sottili e numerosi pezzi di bravura sia attoriali (la preparazione notturna dell'incontro col giudice è da manuale della recitazione) che registici (l'incipit su tutti). Ciononostante il film sceglie deliberatamente di non oltrepassare i limiti del calligrafismo. Non che questo sia un male di per sé, beninteso, solo che è una precisazione necessaria per non sopravvalutarlo irragionevolmente. Comunque ti invidio non poco per aver colmato la lacuna in versione originale, mi sa tanto che ti imiterò...

La frase in calce è farina del mio sacco, ça va sans dire ;)
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#31 bluetrain

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Inviato 17 giugno 2009 - 13:39

La frase in calce è farina del mio sacco, ça va sans dire ;)


Stima atque invidia.
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#32 bluetrain

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Inviato 14 luglio 2009 - 14:26


...

Eppure, nonostante gli indubbi meriti fondativi, il film di Henri Decoin (un cineasta appartenente alla generazione dei registi francesi "di qualità") è nettamente inferiore sia al precedente "Grisbi" che all'immediatamente successivo "Rififi": se rispetto al polar di Becker evidenzia forti limiti drammatici ed evocativi (la narrazione si dispiega assai schematicamente e le atmosfere difettano di suggestività), rispetto alla pellicola di Dassin tradisce una scarsa originalità stilistica (le sequenze che si vorrebbero più espressive e scioccanti, come quelle dedicate agli effetti della droga, si risolvono in triviale sensazionalismo). Restano invece impresse nella memoria la rocciosa interpretazione gabininana e, soprattutto, la feroce brutalità del duo Ventura/Rémy, "truands" dai modi spicci e dal grilletto facile che non esitano un istante ad imbracciare revolver e mitra per ingaggiare sparatorie all'ultimo sangue con la polizia, anche quando ormai tutto è perduto.


L'ho visto ieri sera. Sarà che perdo le bave tanto per Jean Gabin quanto per Lino Ventura, e dunque il mio giudizio risulta essere obnubilato dal mio semifanatismo, ma non sei stato un tantino severo nel criticare il film?
D'accordo che due capolavori come Grisbi e Rififi stanno là in cima e sono difficilmente eguagliabili (tenendo in diparte, va da sè, Melville), ma ritengo che anche La grande razzia dica la sua, molto più che dignitosamente.
A ciò si aggiunga che tratta un tema - quello della droga - non certo facile da narrare per l'epoca. Da qui, l'abbozzare con sufficienza quasi un po' "circense" le scene che rappresentano gli effetti degli stupefacenti, ma penso proprio che i tempi non fossero maturi e, in ogni caso, sono aspetti che rimangono di contorno alla pallecola, che incentra la vicenda principale sul topos guardie e ladri e sulle dinamiche psicologiche dei protagonosti.

... narrazione secca ma con particolare attenzione alle psicologie, rappresentazione realistica del sottobosco criminale e un certo gusto romantico per i rapporti umani che si traduce in notazioni minute (le bevande, il cibo, le piccole debolezze quotidiane) e in risvolti sentimentali di trattenuta tenerezza.


Ecco questo lo sottoscrivo in pieno, in particolare la parte grassettata: la scena della cena di Gabin, alla quale si uniscono Ventura e Rémy, è magistrale in questo senso.
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#33 corey

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Inviato 14 luglio 2009 - 23:34

Non escludo di essere stato un po' drastico, lo ammetto. Il fatto è che cronologicamente Razzia sur la chnouf si colloca proprio tra Grisbi e Rififi e come quest'ultimo è un adattamento improntato al realismo di un romanzo "Série Noire" di Auguste Le Breton. Se aggiungi che, insieme ai due titoli menzionati, è considerato uno dei tre polar fondativi, la necessità di ridimensionarlo si impone.
Poi è ovvio che preso singolarmente un suo perché ce l'abbia. Vero anche quanto dici sul trattamento del tema droga e sulla centralità delle dinamiche psicologiche. Il mio giudizio è invece motivato dal confronto obbligato con le pellicole di Becker e Dassin da una parte e dalla valutazione degli aspetti squisitamente cinematografici dall'altra: tranne un paio di eccezioni (la sequenza nel locale africano e il duello finale tra Jean Gabin e Albert Rémy) lo stile di Decoin è tutto fuorché personale e inventivo. Al contrario è visibilmente meccanico e legnoso.
Sulla cena notturna nel locale di Gabin, rivisitazione canagliesca di quella tra Gabin e Riton in Grisbi, siamo totalmente d'accordo: era proprio a quella che pensavo descrivendo il "certo gusto romantico...".
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#34 corey

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Inviato 21 luglio 2009 - 11:44

Entre chiens et loups (2002) di Alexandre Arcady con Richard Berry, Saïd Taghmaoui, Joaquim de Almeida, Anouk Grinberg, Etienne Chicot

Adrien (Richard Berry), virtuoso della rapina malato di cancro in stadio avanzato, e Werner (Saïd Taghmaoui), cecchino mercenario con tendenze suicide, vengono assoldati da un certo signor Radman (Joaquim de Almeida) per compiere una missione in Romania. I due, che non temono la morte per ragioni diverse, devono inscenare un attentato a un politico di dubbia fama per risollevarne la popolarità alla vigilia delle elezioni ed essere uccisi dalle sue guardie del corpo. In cambio ricevono una consistente somma di denaro che servirà al sostentamento della famiglia del primo e al benessere del fratello del secondo. Ma sulla scena dell'imboscata le cose non vanno secondo i piani prestabiliti e Adrian e Werner, lasciati inspiegabilmente in vita, si trovano coinvolti in un vero e proprio intrigo internazionale.

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Adattamento del libro Iaroslav, pubblicato nel 2000 dal romanziere, sceneggiatore e dialoghista Claude Klotz (uomo di fiducia di Patrice Leconte), Entre chiens et loups è il dodicesimo lungometraggio di Alexandre Arcady (padre di Alexandre Aja), mestierante specializzato in film di genere (soprattutto polizieschi e commedie, anche combinati). In questa occasione il regista nato ad Algeri è fiancheggiato, in sede di sceneggiatura, dal figlio e dal suo inseparabile collaboratore Grégory Levasseur, ma il risultato finale, purtroppo, è piuttosto deludente. Nonostante un incipit al fulmicotone, con una rapina ad un aereo sulla pista di decollo con tanto di elicottero da guerra, Entre chiens et loups è difatti un "polaraccio" di bassa lega salvato soltanto da alcune sequenza d'azione pregevolmente girate (il regista della seconda unità è proprio Alexandre Aja) e altrettanto efficacemente montate (accanto alla prima montatrice Joële van Effenterre scintillano le forbici del geniale Baxter). Ma al di là dei meriti tecnici (tra i quali vanno ascritte la fotografia desaturata di Alessandro Feira Chios e la musica di commento di Philippe Sarde e Xavier Jamaux) il polar di Arcady è sensibilmente deficitario sia dal punto di vista narrativo che da quello della caratterizzazione dei personaggi.

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Sbrigative e schematiche, le dinamiche del racconto scivolano via senza trovare un loro baricentro (i rovelli interiori dei protagonisti? le macchinazioni politiche internazionali? l'azione forsennata?), alternando piuttosto meccanicamente quadretti dedicati ora all'una ora all'altra componente dell'intreccio. Ciò che tuttavia delude maggiormente è il disegno dei personaggi: pur potenzialmente interessanti (un rapinatore con le ore contate e un mercenario incontrollabile offrono innumerevoli varianti combinatorie), i due personaggi principali sono segregati nella gabbia psicologicistica dello stereotipo (Adrien il sentimentale scrupoloso, Werner lo sciroccato esuberante). Non diversamente va per il doppiogiochista Radman/Constantin (de Almeida), villain perfido fino all'ultima cellula, e per le figure femminili, relegate al ruolo di mogli lacrimanti e remissive (Marie, la coniuge di Adrien interpretata da Anouk Grinberg) o ridotte al rango di prostitute da eliminare clinicamente (Sonia, la ballerina del locale notturno che mette in guardia Adrien). Una galleria di cliché senz'anima, insomma.

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Va un po' meglio con l'ambientazione: anche se le atmosfere non convincono a sufficienza (specialmente negli interni), le location di Bucarest e dintorni, dove si svolge prevalentemente il film, sono sfruttate con discreta incisività, ritagliando nel set metropolitano scenari adeguati per inseguimenti automobilistici e brutali corpo a corpo e riparando la fuga dei due braccati in boschi rigogliosamente verdeggianti. Quanto alla "chimica" tra Berry e Taghmaoui, benché entrambi gli interpreti non battano la fiacca, resta un'astratta formula scritta sul copione, la loro intesa non oggettivandosi filmicamente e il loro linguaggio attoriale non trovando mai un effettivo terreno di dialogo (né verbale né fisico). Appiccicate col mastice, infine, le due canzoni di Johnny Hallyday (Un monde à part e Entre chiens et loups) che incorniciano il film di Arcady. Fatte salve le qualità tecniche e le aperture ambientali, una delusione cocente.

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#35 dazed and confused

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Inviato 21 luglio 2009 - 15:07

Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l'échafaud, 1957) di Louis Malle con Jeanne Moreau, Maurice Ronet, Georges Poujouly, Yori Bertin, Lino Ventura

Parigi, venerdì, ore 19. D'accordo con la sua amante Florence, Julien Tavernier, ex paracadutista reduce dalla guerra d'Indocina attualmente impiegato nella compagnia del potentissimo Carala, uccide il datore di lavoro (nonché marito di Florence) inscenando un suicidio dello stesso. Il piano è perfettamente congegnato, ma una sciocca disattenzione (una corda dimenticata sul parapetto dell'ufficio di Carala) costringe Tavernier a tornare all'interno dell'edificio mentre il portiere sta per disattivare la corrente e chiudere il palazzo. Tavernier resta bloccato nell'ascensore, Florence lo attende invano al solito caffè...

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Struggente meditazione sul binomio "Amore e Destino" in chiave noir, "Ascensore per il patibolo" è il primo lungometraggio di Louis Malle, giovane operatore (classe 1932) specializzato in riprese subacquee per Jacques Costeau (col quale ha realizzato l'anno prima il blasonato "Le monde du silence"). Tratto da un romanzo dozzinale di Noël Calef, "Ascenseur pour l'échafaud", con la sua risaputa miscela di amore, morte e suspense, potrebbe addirittura sembrare un polar convenzionale, tanto la progressione drammatica è serrata e incalzante. Tra struggimenti mélo e messinscene suicide, il canovaccio narrativo altro non è difatti che l'ennesima variazione sul tema dell'amore impossibile tra due amanti ostacolati dal fato.

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Ma è proprio la feroce implacabilità della separazione, magnificata cinematograficamente da Malle con un incipit telefonico visivamente vertiginoso, a offrire all'esordiente cineasta l'occasione di piegare il genere verso profondità indimenticabili. Dopo la telefonata iniziale, Florence e Julien (Jeanne Moreau e Maurice Ronet, entrambi in stato di grazia) sono destinati a non comunicare, non condividere gli stessi spazi e non incontrarsi mai, pur essendo accomunati dal medesimo destino.

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Paradossalmente questa crudele segregazione "apre" il film alla deriva stilistica: mentre Julien è irrimediabilmente imprigionato nell'ascensore, Florence lo cerca disperatamente per tutta Parigi indovinandolo ovunque ma non trovandolo mai. Malle - ed è questa la trovata più esaltante della pellicola - filma i due spazi antitetici come se fossero luoghi analoghi: la buia cabina dell'ascensore diventa un territorio da smantellare e interrogare come se fosse una scatola cinese, mentre la sfavillante oscurità della Ville Lumière si tramuta inesorabilmente in un contenitore vuoto, privo della sola presenza agognata da Florence. Desiderio e angoscia impregnano indifferentemente i due spazi, facendo dell'uno la cassa di risonanza dell'altro.

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Giustamente il film è diventato celebre per le spaesate camminate notturne di Jeanne Moreau nelle strade di Parigi, passeggiate rese ancora più lancinanti e astratte dagli assolo della tromba di Miles Davis (inutile ricordare che le musiche sono il frutto di una sola notte di registrazione, durante la quale il trombettista, accompagnato da un sax, un piano, un contrabbasso e una batteria, ha improvvisato davanti alle immagini mute che passavano sullo schermo). Eppure senza la capacità "quasi bressoniana" mostrata da Louis Malle nel fare dell'ascensore uno spazio cinematograficamente produttivo il film non avrebbe lo stesso equilibrio compositivo.

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Sarebbe delittuoso, infine, non mettere in relazione il polar del 1957 di Malle con quello girato l'anno prima da Jean-Pierre Melville: "Bob le flambeur". Non soltanto entrambi anticipano e spianano la strada alle intemperanze stilistiche della nascitura Nouvelle Vague, ma i due film sono strettamente legati dalla presenza di Henri Decaë, che della Nouvelle Vague sarà il direttore della fotografia per eccellenza. Si può anzi tranquillamente affermare che "Ascensore per il patibolo" è il polar complementare a quello melvilliano, il suo controtipo negativo: se in "Bob le flambeur" Melville e Decaë immergevano Montmarte e Pigalle in un'aura crepuscolare dal sapore diffusamente nostalgico, in "Ascenseur pour l'échafaud" Malle e lo stesso Decaë anneriscono decisamente i toni, dando a Parigi un aspetto tenebroso e angosciosamente minaccioso. Così, se "Bob le flambeur" è il ritratto sorridente di una Parigi che abbraccia i suoi figli, "Ascensore per il patibolo" è il ghigno maledetto di una metropoli che si allea col Destino per separare gli amanti, ai quali non è concesso che un abbraccio fotografico gravido di conseguenze fatali. "Mais là nous sommes ensemble. Là, en quelque part, réunis".

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Lo daranno a breve in piazza Maggiore, a Bologna, per la ressegna della cineteca. Imperdibile.Avevo letto da qualche parte che Miles Davis non aveva visto in anticipo le scene da musicare e che sotto invito di Malle, improvvisò. E' vera questa storia?
Grazie, corey, il thread è splendido, ricco di notizie e ovviamente ben scritto.
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#36 bluetrain

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Inviato 21 luglio 2009 - 15:17

Pare di si. Non a caso la colonna sonora è una raccolta dei vari takes di ciascun brano, spesso interrotti bruscamente, il che collima con i fatti.
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#37 corey

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Inviato 21 luglio 2009 - 16:59

Lo daranno a breve in piazza Maggiore, a Bologna, per la ressegna della cineteca. Imperdibile.Avevo letto da qualche parte che Miles Davis non aveva visto in anticipo le scene da musicare e che sotto invito di Malle, improvvisò. E' vera questa storia?
Grazie, corey, il thread è splendido, ricco di notizie e ovviamente ben scritto.


Grazie Dazed, tengo molto a questo thread e conto di arricchirlo progressivamente (come spero ci siano altri contributi).

Quanto ai particolari del mesmerizzante commento musicale di Davis, devo rivedere i contenuti extra del dvd edito da hobby & work: c'è un'intervista a René Urtreger, il pianista di Mies, in cui viene raccontata in dettaglio la fatidica notte. Non appena ho un po' di tempo lo faccio, promesso.
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#38 corey

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Inviato 21 luglio 2009 - 21:58

Appena reduce dalla ennesima visione dell'intervista a quell'uomo meraviglioso che è René Urtreger (l'incredibile luminosità del volto riflette una chiarezza di esposizione letteralmente esaltante), tengo fede alla promessa.

Le dichiarazioni di Urtreger sono quanto mai cruciali, poiché aiutano a collocare la performance di Davis nella giusta prospettiva, sfatando il mito dell'improvvisazione assoluta. Non è vero che i musicisti siano arrivati in sala di registrazione totalmente all'oscuro del film: pur non sapendo con esattezza se Miles avesse visto la pellicola interamente montata, Urtreger afferma senza possibilità di dubbio che Davis l'aveva già vista qualche giorno prima dell'incisione, tant'è che aveva suggerito loro degli schemi musicali da abbinare ad alcune sequenze che lo avevano particolarmente colpito. Insomma i musicisti, che a differenza di Miles non avevano visionato le immagini, avevano comunque ricevuto da lui delle indicazioni schematiche sui temi da sviluppare e conoscevano a grandi linee il soggetto del film, anche se non sapevano con certezza a quale sequenza si sarebbero dovuti adattare gli schemi musicali suggeriti da Davis. Ma, continua Urtreger, la cosa fu piuttosto semplice perché ogni musicista disponeva di uno schermo personale sul quale controllare le immagini e calibrare la durata dei brani.

In definitiva, stante l'attendibilità delle affermazioni di Urtreger, se è vero che quello realizzato negli studi del Poste Parisien fu un commento musicale sostanzialmente improvvisato (ma per i jazzisti l'improvvisazione è né più né meno che la norma), non si trattò di improvvisazione virginale ma, quanto meno per il tema principale, di improvvisazione su schemi precedentemente abbozzati. Spero di essere stato utile ed esaustivo  :)
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#39 dazed and confused

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Inviato 21 luglio 2009 - 22:32

Appena reduce dalla ennesima visione dell'intervista a quell'uomo meraviglioso che è René Urtreger (l'incredibile luminosità del volto riflette una chiarezza di esposizione letteralmente esaltante), tengo fede alla promessa.

Le dichiarazioni di Urtreger sono quanto mai cruciali, poiché aiutano a collocare la performance di Davis nella giusta prospettiva, sfatando il mito dell'improvvisazione assoluta. Non è vero che i musicisti siano arrivati in sala di registrazione totalmente all'oscuro del film: pur non sapendo con esattezza se Miles avesse visto la pellicola interamente montata, Urtreger afferma senza possibilità di dubbio che Davis l'aveva già vista qualche giorno prima dell'incisione, tant'è che aveva suggerito loro degli schemi musicali da abbinare ad alcune sequenze che lo avevano particolarmente colpito. Insomma i musicisti, che a differenza di Miles non avevano visionato le immagini, avevano comunque ricevuto da lui delle indicazioni schematiche sui temi da sviluppare e conoscevano a grandi linee il soggetto del film, anche se non sapevano con certezza a quale sequenza si sarebbero dovuti adattare gli schemi musicali suggeriti da Davis. Ma, continua Urtreger, la cosa fu piuttosto semplice perché ogni musicista disponeva di uno schermo personale sul quale controllare le immagini e calibrare la durata dei brani.

In definitiva, stante l'attendibilità delle affermazioni di Urtreger, se è vero che quello realizzato negli studi del Poste Parisien fu un commento musicale sostanzialmente improvvisato (ma per i jazzisti l'improvvisazione è né più né meno che la norma), non si trattò di improvvisazione virginale ma, quanto meno per il tema principale, di improvvisazione su schemi precedentemente abbozzati. Spero di essere stato utile ed esaustivo  :)


Splendido!! Grazie Corey!
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#40 corey

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Inviato 26 agosto 2009 - 20:39

Le Poulpe (1998) di Guillaume Nicloux con Jean-Pierre Darroussin, Clotilde Courau, Aristide Demonico, James Faulkner, Julie Delarme, Yves Verhoeven, Stéphane Boucher

Investigatore senza padroni né clienti a cui rendere conto, Gabriel Lecouvreur (Jean-Pierre Darroussin), detto "le Poulpe" a causa delle sue lunghe braccia, è sulle tracce di un assassino che infila maschere di gomma alle sue vittime. L'indagine giunge a un punto morto (alla lettera) e Gabriel, persuaso dall'irresistibile compagna Chéryl (Clotilde Courau), parte per Morsang, dove le tombe dei di lei nonni sono state scoperchiate e saccheggiate. Ma, arrivati sul luogo, i due si rendono presto conto che oltre alla profanazione dei sepolcri ci sono ben altre gatte da pelare. Per "Le Poulpe" è l'inizio di una nuova e rocambolesca avventura.

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Terzo lungometraggio cinematografico del regista, sceneggiatore, attore e romanziere Guillame Nicloux, Le Poulpe è, come suggerisce il titolo, un noir tenacemente stravagante e dichiaratamente pulp, ma di marcata impronta francese. L'inevitabile allusione a Pulp Fiction non deve trarre in inganno: il personaggio di Gabriel Lecouvreur, protagonista di una serie impressionante di romanzi e fumetti pubblicati dalla casa editrice Baleine a partire dalla metà degli anni '90, appartiene di fatto e di diritto alla letteratura popolare francese, anche se è innegabile una certa influenza del cinema caustico e narrativamente scompaginato di Quentin Tarantino. Inaugurata nel 1995 dal romanzo La Petite écuyère a cafté di Jean-Bernard Pouy (anche cosceneggiatore del film di Nicloux), la collezione Le Poulpe ha difatti coinvolto un gran numero di scrittori d'Oltralpe tra i quali figurano, accanto a emeriti sconosciuti, nomi di spicco del noir francese contemporaneo (Serge Quadruppani e Didier Daeninckx, giusto per fare un paio di nomi, nonché Patrick Raynal, direttore della gloriosa Série Noire Gallimard dal 1991 al 2004).

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Dopo aver firmato nel 1996 un episodio della serie letteraria (Le Saint Des Seins), il trentaduenne Nicloux (classe 1966), coadiuvato in sede di sceneggiatura da Jean-Bernard Pouy e Patrick Raynal, porta per la prima volta sul grande schermo le avventure de "Le Poulpe", disoccupato tra la trentina e la quarantina senza fissa dimora che adora la birra, detesta il vino e intrattiene una relazione aperta con la compagna Chéryl, acconciatrice bisessuale il cui colore favorito è il rosa (sostituito all'occorrenza da altre tonalità cromatiche, preferibilmente sgargianti). Taciturno e sornione lui, loquace e seducente lei (ma entrambi irriducibilmente libertari), i due si cacciano in tutti i guai possibili, spalleggiati dal vecchio anarchico di origine catalana Pedro che assicura a Gabriel l'aiuto richiesto, armi e passaggi in primo luogo.

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La galleria di personaggi di questo universo in continua espansione è incredibilmente variopinta e costellata di figurine appena sbozzate ma che aspettano soltanto di essere approfondite, come Gérard, il proprietario del bar-ristorante "le Pied de Porc" frequentato da avventori più che pittoreschi. Presentata brevemente l'ambientazione parigina di partenza (tappa obbligata di tutti gli episodi della serie), Nicloux segue la trasferta di Gabriel e Chéryl a Morsang prima e a Angerneau poi (località fittizia che ha per calco la cittadina della Loira-Atlantica di Saint-Nazaire). Costellato di incontri balordi e situazioni assurde, l'arrivo nella piccola città portuale si rivela immediatamente carico di mistero: un bambino è appena scomparso facendo temere un rapimento e le profanazioni delle tombe, alle quali seguono omicidi a catena, sembrano essere collegate in qualche modo alla presenza di un imponente cargo di nome "Mary" (il cui contenuto dovrebbe consistere in una spedizione di beneficenza organizzata dal ricco Nicolas Lesprit, ma che di fatto è fisicamente inavvicinabile).

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E' qui che, in pura tradizione neopolar, Le Poulpe spara le sue cartucce politiche, legando a doppio filo i misteri di Angerneau all'attività nascosta di Lesprit e alla campagna elettorale della candidata di destra Marie-Jeanne Desanges, ambedue invischiati nei traffici illeciti che hanno come punto di arrivo il gigantesco cargo. Anche se impostato in chiave umoristica e e grottesca, insomma, il film di Nicloux non rinuncia affatto a colpire duro la connivenza di potentati economici, affaristi di stato e politicanti senza scrupoli, riservando a Lesprit una punizione capitale somministrata dalla mano di uno dei personaggi più deliranti della vicenda: Thomas, lo scrittore alcolizzato interpretato splendidamente dall'inglese James Faulkner. "Il faut punir, that way" sentenzia a Gabriel prima di ultimare la sua opera di giustiziere.

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In perfetta aderenza alla dinoccolata scioltezza del protagonista (un Jean-Pierre Darroussin che esteriorizza la sagacia del suo personaggio con un'economia recitativa minimale), Nicloux accompagna le perlustrazioni pedestri di Gabriel (che cerca di alleviare il dolore ai piedi calzando le scarpe delle vittime) con fluidi ed eccentrici movimenti di steadycam che si accordano con guizzante naturalezza agli improvvisi e repentini cambi di marcia del Poulpe. Montato con una sintassi funambolica (si salta da un luogo all'altro e da una situazione all'altra senza preavviso alcuno) e innervato da una fotografia quanto mai cangiante (in grado di assecondare sia i cromatismi squillanti dell'abbigliamento di Chéryl sia i toni pece dei notturni portuali, trovando la luce giusta persino per effusioni erotiche sotto le coperte), Le Poulpe giostra soggettive e sguardi in macchina con la disinvoltura di uno sguardo che fa della libertà dalle convenzioni la sua cifra stilistica. All'insegna di un'anarchia cinematografica che è diretto, cristallino riflesso della serie letteraria. Mai distribuito in Italia, neanche in dvd.

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#41 corey

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Inviato 31 agosto 2009 - 06:30

Chrysalis (2007) di Julien Leclercq con Albert Dupontel, Marie Guillard, Marthe Keller, Melanie Thierry, Claude Perron, Alain Figlarz, Smadi Wolfman, Patrick Bauchau, Guy Lecluyse, Cyril Lecomte

"Fantanoir con venature cyberpunk" (Gervasini), Chrysalis è il primo lungometraggio di Julien Leclercq, già autore dell'apprezzato corto horror Transit (2004). L'intreccio è piuttosto contorto: nella Parigi del 2025 il tenente della Polizia Europea David Hoffmann (Albert Dupontel) perde la compagna e collega Sarah (Smadi Wolfman) in uno scontro col temibile Nicolov (Alain Figlarz). Profondamente traumatizzato dall'evento ma di nuovo in forze, il tenente viene messo sulle tracce dell'assassino dalla sua dirigente Miller (Claude Perron), che gli affianca nell'inchiesta la giovane Marie Becker (Marie Gullard), nipote del capo dell'Intelligence Charles Becker (Patrick Bauchau). L'indagine conduce ad una clinica ipertecnologica nella quale, in segreto, vengono effettuati interventi sulla memoria grazie a una sofisticata apparecchiatura denominata Chrysalis: un macchinario che permette di rimuovere i ricordi episodici del soggetto trattato bombardando l'ippocampo senza tuttavia alterarne le capacità di immagazzinamento. Ipotetici scenari di destabilizzante manipolazione umana si spalancano dietro questa sconvolgente scoperta.

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Cervellotico nello sviluppo narrativo e schematico nella congiunzione della tematica sentimentale con quella tecnologico-poliziesca (l'immedicabile dolore per la morte della compagna e il possibile sfruttamento dell'apparecchiatura neurolesiva per la creazione di uomini deprivati di volontà propria), Chrysalis spara tutte le sue cartucce nella confezione e nella straordinaria prova di Albert Dupontel. L'esordiente Leclercq gira con mano di ferro le sequenze action (sia gli scontri a fuoco che i corpo a corpo in spazi ristretti) e predilige uno sguardo più levigato e rarefatto nelle scene ambientate nella clinica (con largo uso di carrelli laterali e totali geometrizzanti): la messa in scena sprigiona un certo sentore di calligrafismo, ma è comunque innegabile la capacità di controllare visivamente la materia, differenziandola a seconda delle situazioni e della temperatura drammatica (anche grazie a un commento musicale consistente ma non eccessivamente ingombrante).

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Se lo stile di Leclercq indulge talvolta in soluzioni compiaciute (freeze frame, dissolvenze volatilizzanti, effetti di computer graphics smaccatamente estetizzanti), il vero punto di forza del film consiste nella prova integrale di Albert Dupontel. Interpretando personalmente tutte le sequenze (senza il ricorso a controfigure o cascatori d'ordinanza), il quarantatreenne ed eclettico attore francese dà vita a un personaggio sfaccettatissimo, in grado di alternare dolore, determinazione, smarrimento e fragilità con immutata efficacia. E mostrando al tempo stesso una prestanza fisica di eccezionale vigore, facendo del proprio corpo un luogo in cui si concentrano addolorate reminiscenze (le apnee cronometrate nella vasca da bagno) e mire vendicative (le furibonde lotte con Nicolov), passando per stasi di ripiegamento solitario.

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In definitiva, un convoluto fantapolar con venature mélo (più che cyberpunk) di fattura non totalmente disprezzabile attraversato da un imponente corpo attoriale che si appropria, fisicamente e psicologicamente, dell'intera materia filmica.

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#42 corey

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Inviato 02 settembre 2009 - 11:30

Cortex (2008) di Nicolas Boukhrief con André Dussollier, Marthe Keller, Julien Boisselier, Chantal Neuwirth, Claire Nebout, Claude Perron, Laure Salama, Pascal Elbé, Aurore Clément, Gilles Gaston-Dreyfus

Soprannominato "Cortex" (corteccia) dai colleghi, il poliziotto in pensione Charles Boyer (André Dussolier) è malato di Alzheimer e si trasferisce alla "Résidence", una clinica specializzata nella cura del morbo. Ma presto Charles si accorge che qualcosa non quadra: troppi pazienti, compresi quelli che godono di buona salute, vengono portati nottetempo nel Blocco C e ne escono morti stecchiti. Malgrado i frequenti vuoti di memoria, e con l'aiuto di un quaderno di appunti, l'ex flic dà il via a un'indagine personale considerata da tutti come un capriccio senile.

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Polar senile con sfumature da detective story anglosassone, Cortex è il quarto lungometraggio di Nicolas Boukhrief, cofondatore nel 1982 della rivista di cinema fantastico e horror Starfix, caporedattore del programma televisivo Le Journal du cinéma per l'emittente Canal+ nonché sceneggiatore di Jean-Jacques Zilbermann (Tout le monde n'a pas eu la chance d'avoir des parents communistes, 1993) e Mathieu Kassovitz (Assassin(s), 1997). Scritto a quattro mani con l'apprezzata sceneggiatrice Frédérique Moreau, Cortex tratta il tema dell'Alzheimer nel quadro del genere noir, raccontando la vicenda di un flic dal passato brillante (tanto da guadagnarsi il soprannome del titolo) che, in pensione da ormai tre anni, decide di ricoverarsi in una clinica per tenere sotto controllo l'evoluzione della malattia.

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L'intreccio si sviluppa secondo un percorso tanto lineare quanto convenzionale: arrivo di Charles alla Résidence, primo impatto col personale medico e con gli stravaganti ospiti della struttura, nascita del sospetto a causa di morti ravvicinate che colpiscono pazienti non gravi e inizio dell'indagine ostacolata da infermieri e familiari (il figlio Thomas), che interpretano le supposizioni del vecchio poliziotto come deliri provocati dalla demenza incipiente. Alla diffidenza generale si aggiungono naturalmente i vuoti di memoria dell'Alzheimer, che obbligano Charles ad annotare confusamente su un quaderno le ipotesi e gli indizi accumulati giorno dopo giorno. Il conflitto è duplice: contro la minimizzante ottusità degli altri e contro la progressione interna del morbo che mina la lucidità mentale dell'ex flic.

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Ancorato al punto di vista di Charles (un André Dussollier smagrito e intraprendente al tempo stesso), il film asseconda fermamente i suoi sospetti e, grazie all'aiuto della più imperscrutabile delle pazienti, i nodi, amnesie permettendo, finiscono per venire al pettine. Siamo insomma di fronte a una variazione sul tema del whodunit britannico (non a caso Charles è un accanito lettore di Sherlock Holmes) con complicazioni blandamente neuropatologiche: di fatto i sintomi dell'Alzheimer si manifestano troppo sporadicamente perché si possa davvero dubitare della perspicacia del protagonista. Inoltre Dussollier dà vita a un personaggio così simpatico e fragile che prenderne le distanze risulta umanamente impossibile.

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La regia di Nicolas Boukhrief è definibile come "fiction televisiva nobilitata": il quarantacinquenne cineasta francese (classe 1963) imposta luci e punti macchina nel modo più semplice e leggibile che si possa concepire, piazzando la cinepresa nei luoghi che garantiscono maggiore unità alla scena e assegnando le rarissime soggettive del film quasi esclusivamente al protagonista, in ottemperanza al principio della focalizzazione interna. Ma (e questo è l'espediente registico nobilitante), anziché frammentare lo spazio secondo le regole del découpage classico, predilige al contrario riprese lunghe tendenti al piano sequenza, conferendo al film un'andatura posata che si accordi delicatamente alla tematica senile. Unica infrazione stilistica: la fuga notturna dalla clinica, in cui Boukhrief utilizza il digitale per rendere visivamente lo spaesamento di Charles nel dedalo della metropolitana parigina. Cionondimeno, stanti le smaccate premesse convenzionali, il film non va oltre la soglia della mera professionalità (che nel caso di Dussollier, inutile sottolinearlo, fa rima con eccellenza). Commestibile.

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i periti hanno dimostrato che non vi è alcuna certezza.

#43 corey

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Inviato 09 settembre 2009 - 09:17

La Menace (1977) di Alain Corneau con Yves Montand, Carole Laure, Marie Dubois, Jean-François Balmer, Marc Eyraud

Henri Savin, scafato direttore di una compagnia di camion, ha iniziato una relazione sentimentale con Julie Monet. Dominique Montlaur, sua ex compagna nonché proprietaria dell'impresa, è ancora follemente innamorata di lui e prova ad intralciare la nuova relazione in tutti i modi, cercando addirittura di corrompere la rivale. Fallito ogni tentativo e in preda alla disperazione, Dominique si uccide lanciandosi sugli scogli, ma le circostanze del suicidio portano all'incriminazione di Julie, che viene arrestata dal commissario Waldeck. Per scagionare l'incolpevole fidanzata, Henri comincia allora a seminare falsi indizi che attirano su di lui le indagini del commissario.

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Polar semplicemente portentoso, La Menace è il terzo lungometraggio di Alain Corneau e la sua seconda collaborazione con Yves Montand dopo il pregevole Police Python 357 dell'anno prima (i due si riuniranno per la terza ed ultima volta nel 1981, sul set di Codice d'onore). Girato in formato 1: 1.85 e splendidamente illuminato da Pierre-William Glenn, uno dei direttori della fotografia più talentuosi e spregiudicati del cinema francese, il film si articola in tre atti e si snoda su altrettante direttrici cinematografiche.
Primo atto: i disperati tentativi compiuti da Dominique Montlaur (Marie Dubois) per evitare che Henri Savin (Yves Montand) la lasci definitivamente e per ostacolare il suo rapporto con la più giovane e bella Julie Monet (Carol Laure), tentativi che vanno dal ricatto affettivo (una simulazione di suicidio) al riscatto economico (l'acquisto di tre camion per Henri e l'offerta di 10 milioni di franchi a Julie per farsi da parte), culminando infine nel suicidio vero e proprio.
Secondo atto: la complessa strategia elaborata da Henri per dirottare progressivamente su di sé le indagini del commissario Waldeck (Jean-François Balmer), strategia che scarta a priori la verità dei fatti (troppo inverosimile e improbabile da sostenere) per accumulare una serie di indizi e prove che scagionino Julie e inducano il commissario ad accusare Savin (che nel frattempo è volato in Canada)
Terzo atto: l'ultima mossa del piano di Henri che, approfittando del sanguinoso racket subito dai camionisti canadesi, inscena spettacolarmente la propria morte con tanto di testimoni (la sua autocisterna piena di liquido infiammabile precipita da un dirupo dopo essere stata crivellata di colpi esplosi da un killer su una macchina blu).

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Incredibilmente contorto e artificioso, l'intrigo è padroneggiato magistralmente da Corneau (anche cosceneggiatore insieme a Daniel Boulanger), che dispensa dettagli rivelatori e informazioni narrative con la stessa abilità del protagonista. E se è vero che lo spettatore, diversamente dal commissario, è messo a conoscenza della verità degli eventi, è altrettanto vero che il piano ideato da Henri gli si chiarisce solo strada facendo, con tutti i dubbi e le supposizioni del caso. Questa la prima direttrice cinematografica su cui si snoda La Menace: un'incalzante speculazione sul potere persuasivo della finzione programmaticamente svincolata dal reale (il categorico rifiuto di Henri di riferire come sono andate effettivamente le cose). Il finale, con la schiacciante rivincita della realtà sulla manipolazione, suona come una tragica vendetta e come un ammonimento a non spingere troppo sul pedale della mistificazione, soprattutto se praticata senza scrupoli morali (Henri sfrutta le estorsioni a cui sono soggetti i camionisti canadesi per far credere che la propria morte sia l'ennesima esecuzione del racket). La Menace non è solo il rischio di essere incriminati per un delitto non commesso, ma anche il pericolo opposto, ovvero quello di truccare così spudoratamente la realtà da esserne puniti.

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Eppure, e questa è la seconda direttrice, la riflessione teorica non va affatto a scapito della carica emotiva: Corneau dipinge sia il disfarsi della relazione tra Henri e Dominique (a cui Marie Dubois conferisce luminosa disperazione) sia il farsi di quella tra Henri e Julie (una trattenuta Carole Laure) con sicurezza di tratto e incisività psicologica, facendo dell'una il contraltare dell'altra (all??inconsolabile aggressività di Dominique risponde il dolente contegno di Julie). Anche la tensione drammatica non è sacrificata sull'altare della costruzione astratta: il raggiro orchestrato da Henri ai danni dell'ostinato commissario Waldeck (un Jean-François Balmer cocciutamente in parte) si dipana a maglie sempre più strette, in un astuto rovesciamento del cliché del poliziotto che gioca col criminale. Qui il topo è il commissario, il gatto il sospettato.

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Terza ed ultima linea guida: la variabilità della messa in scena. In un'intervista contenuta negli extra del dvd di Codice d'onore recentemente edito da Rarovideo (http://www.spietati....ice_d_onore.htm), il direttore della fotografia Pierre-William Glenn definisce Corneau un "cineasta di montaggio", vale a dire un regista che, contrariamente a molti altri colleghi provenienti dal teatro, non si confronta col set come unità spaziale nella quale recitano gli attori e dalla quale cogliere suggestioni immediate, ma che concepisce la scena come materia prima da scomporre a partire da un disegno rigorosamente prestabilito. Secondo Glenn questa prassi, accantonata da Corneau nel solo Il fascino del delitto (1979), è eccessivamente discontinua e inibisce gli interpreti, impedendo loro di calarsi nella parte e far succedere davvero qualcosa durante le riprese. A prescindere dall'opinabilità del giudizio di Glenn (personalmente lo ritengo troppo performativo), La Menace esemplifica perfettamente quanto affermato dal direttore della fotografia: Corneau frammenta l'azione con un fraseggio visivo secco e meccanico (eccezion fatta per l'incipit, girato con inquadrature lunghe e fluidi movimenti di macchina), creando così un ingranaggio di ferrea inesorabilità. Cionondimeno questa segmentazione, pur rispettata lungo l'intero film, non determina una messa in scena tutta d'un pezzo: Corneau cesella lo stile a seconda delle situazioni rappresentate e della temperatura emotiva raggiunta. Se nella prima parte, di marcata impronta mélo, abbraccia i personaggi con inquadrature larghe e ariose (dando spazio anche alla città di Bordeaux), nella seconda, in cui è il noir a imporsi, stringe la misura dei piani, incapsulando i personaggi nei loro microcosmi (la casa e l'ufficio dove Henri pianifica la strategia accusatoria, il carcere dove è segregata Julie, l'automobile con la quale il commissario conduce le indagini). Nella terza sezione, infine, la cesura è ancora più netta e vistosa: a cambiare non è soltanto il genere di riferimento (l'action), ma anche il teatro dell'azione (il Canada). Con uno stile laconico e nervoso tra il Siegel di Chi ucciderà Charley Varrick? (1973) e il Peckinpah di Getaway! (1972), Corneau si lancia in una gloriosa riscrittura del cinema americano, infondendovi dosi massicce di romanticismo nichilista e avvolgendola struggentemente con le note baritonali del sax di Gerry Mulligan. Un film immenso.

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#44 Dudley

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Inviato 09 settembre 2009 - 18:35

Ottima segnalazione, Corey - come tua abitudine!  :)
Mi hai incuriosito, ne cercherò il DVD.

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#45 corey

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Inviato 12 settembre 2009 - 18:39

Grazie Dud, sempre magnanimo nei miei confronti.

Su You Tube ho beccato l'incipit di Série noire. Semplicemente pazzesco.

http://www.youtube.c...h?v=W-eN4xo5N4U
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#46 Armonica

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Inviato 19 settembre 2009 - 17:58


Visto ieri:

36 Quai des Orfèvres [Olivier Marchal, 2004]

Lèo Vrinks e Denis Klein, poliziotti "sopra le righe", danno la caccia ad un gruppo di rapinatori specializzati
in furgoni portavalori. Tra i due agenti, un tempo amici, non corre buon sangue così come tra le unità da essi
comandate. Quando il capo della polizia annuncia che il suo successore sarà colui che riuscirà a sgominare
la banda, la rivalità tra Klein e Vrinks raggiunge il parossismo: finirà per trascinarli in una spirale di inchieste,
ritorsioni e faide.
Il film, eccellente nella costruzione e nel controllo delle scene d'azione, ha però il suo autentico
campo di tensioni nelle sale del dipartimento di polizia, quel "36" che rassomiglia ad una Entità fatale, capace di
risucchiare i due protagonisti: Klein, con la sua smisurata ambizione che paga il prezzo dell'isolamento e
dell'assenza di rapporti umani, e Vrinks, determinato a perseguire il proprio incarico anche a costo di ricorrere
a procedure illecite, fuori dal "codice deontologico" dei poliziotti. Entrambi dovranno pagare personalmente l'essersi
opposti ad una Forza che li sovrasta (il Sistema o "la Puttana", come la chiama il Direttore Generale). La struttura
narrativa sottolinea con insistenza e in modo quasi disturbante la prossimità dei due caratteri, la vicinanza più che l??opposizione. Le polarità si annullano nell??esplodere di una violenza comune tanto ai rapinatori quanto
alla Brigade capeggiata da Vrinks. Il percorso, spietato, attraverso le forze dell??ordine e della legalità sembra
implicare un pedaggio necessario, la perdita di parte della propria umanità.
I volti dei due protagonisti (Auteuil/Vrinks e Depardieu/Klein) sono maschere, maschere del Potere, del Dovere e del
Desiderio. Il distacco che li caratterizza si contrae occasionalmente, subisce degli spasmi nel momento in cui affiora la frattura insostenibile, la lacerazione interiore che questi uomini hanno assunto su di sé. Dal film
traspaiono i temi - già melvilliani - dell'amicizia virile, della lealtà, ma anche della solitudine e del tradimento. La
dimensione socialmente accettata del conflitto, quella tra criminali e agenti di polizia, è messa evidentemente in
crisi: forse ciò che "36..." intende suggerire è una ritrovata responsabilità del singolo, un'istanza rintracciabile nel gesto
conclusivo di Klein, nel suo rinunciare deliberatamente all'escalation di vendetta e sangue. Ma è una scelta
consapevole o piuttosto un gesto di resa, il ritirarsi da un "campo" di persistente conflittualità? Il suo valore autentico
sembra restare sospeso.

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#47 corey

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Inviato 19 settembre 2009 - 23:45


Visto ieri:

36 Quai des Orfèvres [Olivier Marchal, 2004]

Lèo Vrinks e Denis Klein, poliziotti "sopra le righe", danno la caccia ad un gruppo di rapinatori specializzati
in furgoni portavalori. Tra i due agenti, un tempo amici, non corre buon sangue così come tra le unità da essi
comandate. Quando il capo della polizia annuncia che il suo successore sarà colui che riuscirà a sgominare
la banda, la rivalità tra Klein e Vrinks raggiunge il parossismo: finirà per trascinarli in una spirale di inchieste,
ritorsioni e faide.
Il film, eccellente nella costruzione e nel controllo delle scene d'azione, ha però il suo autentico
campo di tensioni nelle sale del dipartimento di polizia, quel "36" che rassomiglia ad una Entità fatale, capace di
risucchiare i due protagonisti: Klein, con la sua smisurata ambizione che paga il prezzo dell'isolamento e
dell'assenza di rapporti umani, e Vrinks, determinato a perseguire il proprio incarico anche a costo di ricorrere
a procedure illecite, fuori dal "codice deontologico" dei poliziotti. Entrambi dovranno pagare personalmente l'essersi
opposti ad una Forza che li sovrasta (il Sistema o "la Puttana", come la chiama il Direttore Generale). La struttura
narrativa sottolinea con insistenza e in modo quasi disturbante la prossimità dei due caratteri, la vicinanza più che l??opposizione. Le polarità si annullano nell??esplodere di una violenza comune tanto ai rapinatori quanto
alla Brigade capeggiata da Vrinks. Il percorso, spietato, attraverso le forze dell??ordine e della legalità sembra
implicare un pedaggio necessario, la perdita di parte della propria umanità.
I volti dei due protagonisti (Auteuil/Vrinks e Depardieu/Klein) sono maschere, maschere del Potere, del Dovere e del
Desiderio. Il distacco che li caratterizza si contrae occasionalmente, subisce degli spasmi nel momento in cui affiora la frattura insostenibile, la lacerazione interiore che questi uomini hanno assunto su di sé. Dal film
traspaiono i temi - già melvilliani - dell'amicizia virile, della lealtà, ma anche della solitudine e del tradimento. La
dimensione socialmente accettata del conflitto, quella tra criminali e agenti di polizia, è messa evidentemente in
crisi: forse ciò che "36..." intende suggerire è una ritrovata responsabilità del singolo, un'istanza rintracciabile nel gesto
conclusivo di Klein, nel suo rinunciare deliberatamente all'escalation di vendetta e sangue. Ma è una scelta
consapevole o piuttosto un gesto di resa, il ritirarsi da un "campo" di persistente conflittualità? Il suo valore autentico
sembra restare sospeso.


Caspita, Armonica, note d'autore: le mie congratulazioni.
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#48 Armonica

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Inviato 19 settembre 2009 - 23:51


Dovrei ringraziare te visto che mi stai facendo scoprire un mucchio di film che mi ispirano tantissimo  ;)
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#49 corey

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Inviato 09 ottobre 2009 - 12:30

Le Mystère de la chambre jaune (2003) di Bruno Podalydès con Denis Podalydès, Pierre Arditi, Claude Rich, Jean-Noël Brouté, Sabine Azéma, Olivier Gourmet, Michael Lonsdale

Incaricato dal suo giornale di occuparsi del tentato omicidio della signorina Mathilde, figlia e collaboratrice dell'illustre professor Stangerson, Joseph Rouletabille si reca al castello del Glandier accompagnato dall'amico e fotografo Sainclair. Qui il sagace reporter ingaggerà una sfida d'abilità investigativa con il famigerato ispettore Larsan per risolvere il caso: chi ha aggredito Mathilde Stangerson? Per quale motivo? Come ha fatto l'attentatore a fuggire dalla camera ermeticamente chiusa?

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Quinto adattamento cinematografico dell'omonimo e celeberrimo romanzo di Gaston Leroux, Le Mystère de la chambre jaune è una pellicola in perfetto equilibrio tra libertà di trasposizione e fedeltà alla fonte letteraria. Il registro narrativo innanzitutto: se nel romanzo di Leroux l'indagine era immersa in un'atmosfera sinistra non priva di accenti gotici, nella riduzione di Bruno Podalydès l'inchiesta si svolge in una cornice giocosamente intagliata con situazioni buffe. Il dramma a tinte fosche si trasforma in una commedia poliziesca, insomma. Eppure questo alleggerimento di toni non va a scapito del mistero: pur virato in commedia, l'adattamento di Podalydès conserva inalterate la suspense e la galleria enigmatica del feuilleton di Leroux.

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Nonostante calibrati spostamenti, la maggior parte dei dialoghi è rispettata alla lettera e la concentrazione spaziale del libro viene addirittura enfatizzata dalla pellicola, che sopprime ogni sortita dal castello per renderlo teatro esclusivo dell'azione. Colpo di genio: la trasferta americana di Rouletabille (interpretato da Denis Podalydès, fratello del regista) è suggerita da una piccola sfera nera adagiata su un trenino elettrico che prima sfreccia nell'erba e poi scorre su un complesso meccanismo a scivolo che la conduce alla traversata oceanica (rappresentata con una vaschetta in cui s'indovina la statua della Libertà). Alcune scene e personaggi secondari del libro vengono inoltre accorpati da Podalydès (anche sceneggiatore), che in questo modo ottiene una sintesi mirabile.

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A guadagnarne non sono soltanto la concentrazione spaziale e la tenuta narrativa, ma soprattutto la competizione tra l'intraprendente reporter e il prestigioso ispettore Larsan (il carismatico Pierre Arditi), figura autorevole che ha un metodo investigativo assai diverso da quello di Rouletabille e che sembra padroneggiare la situazione con disarmante sicurezza. Quella tra il pimpante reporter e il sornione ispettore è una vera e propria gara d'abilità che svela il tema profondo del film e del libro: il duello tra intelligenze che si misurano con situazioni limite. Nel romanzo la sfida tra il giovane Rouletabille e l'affermato Larsan riecheggiava quella tra lo stesso Leroux e i suoi illustri predecessori (Edgar Allan Poe e Conan Doyle), mentre nel film si afferma come puro virtuosismo manipolatorio, come celebrazione del potere illusionistico della rappresentazione.

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Ed è proprio in virtù di quest'ottica illusionistica che la pellicola si sottrae al calligrafismo e all'esercizio di stile: rendendo omaggio al maestro Alain Resnais (a cui il film è dedicato) e spostando l'ambientazione cronologica dal 1892 agli anni '30, Podalydès mette in scena con divertita leggerezza il gioco delle parti di tutti i personaggi. Ogni carattere recita il ruolo assegnato mostrando solo una parte di sé e celando qualche scottante segreto: la vulnerata Mathilde (Sabine Azéma) ha degli scheletri nell'armadio che costringono il promesso sposo Robert Darzac (Olivier Gourmet) a una reticenza sospetta, il fido domestico père Jacques (Julos Beaucarne) copre le scappatelle notturne di Madame Bernier (Isabelle Candelier) col guardacaccia Petit-Pied (George Aguilar) e persino l'ispettore Larsan non è privo di doppi fondi. Ritmo spigliato, risvolti burleschi e coup de théâtre a ripetizione fanno del Mystère de la chambre jaune di Bruno Podalydès (che si concede pure un cameo nella parte del medico che cura Mathilde) una deliziosa commedia poliziesca girata in punta di cinepresa. Chapeau!

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#50 Claudio

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Inviato 09 ottobre 2009 - 13:42

Bello questo thread, però ne approfitto subito biecamente per chiedere a Corey: visto che hai delle notevoli conoscenze in materia, pensi che potresti farne uno speciale da pubblicare su OndaCinema? Non credo che entrerebbe in conflitto con la tua principale attività redazionale...
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